Dennett, le neuroscienze e la comprensione della coscienza umana

Nei cervelli non c’è nessuno in casa

di Fabio Benfenati

Cosa è la coscienza? È lo spirito che si libra dalla materia o è l’aspetto trascendente della materia stessa? Nella nostra percezione cosciente ci muoviamo in un mondo pieno di forme, colori e suoni; è solo una costruzione, un’interpretazione, un’allucinazione o è una realtà concreta che esiste al di fuori di noi? Con i sensi percepiamo grandezze fisiche (onde di pressione, radiazioni elettromagnetiche a diversa lunghezza d’onda), tradotte in frequenze di scarica nelle nostre fibre nervose e interpretate dalla nostra mente per costruire il mondo cosciente in cui viviamo. Coscienza è la traduzione italiana del famoso e premiato libro di Daniel Dennett, professore di filosofia alla Tufts University, dal titolo in verità un po’ altisonante Consciousness explained pubblicato nel 1991. La comprensione della coscienza è sempre stato uno dei problemi intellettuali più difficili della storia umana, da sempre conteso tra filosofi, psicologi e neuroscienziati e, ultimamente anche da ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale.

Ci si può chiedere se una digressione filosofica sulla coscienza, certamente molto stimolante e innovativa negli anni della prima pubblicazione del libro, sia utile e attuale. Sicuramente espande gli orizzonti della conoscenza, ci fa osservare aspetti della costituzione e organizzazione della nostra esistenza ai quali non avremmo mai pensato. Tuttavia, il problema dell’emergenza e del funzionamento della nostra attività cosciente e consapevole rimane un esercizio per l’appunto “mentale” fino a quando i meccanismi neurologici alla base non saranno chiariti. Forse un titolo come Consciousness ignored avrebbe più realisticamente riflesso lo stato delle conoscenze sulla coscienza nei primi anni novanta. Infatti, la traduzione ci raggiunge 32 anni dopo la pubblicazione del libro, e questo intervallo temporale, senza nulla togliere alla qualità del libro, lo rende un poco datato, visto lo sviluppo esponenziale delle ricerche nel campo delle neuroscienze cognitive a cui abbiamo assistito negli ultimi 30 anni. La ricerca sui correlati neurologici della coscienza sta infatti facendo enormi passi avanti grazie a tecniche sempre più sofisticate di imaging funzionale, registrazioni elettrofisiologiche e stimolazioni magnetiche o ultrasoniche transcraniche focalizzate su aree specifiche.

Il lungo saggio di Dennett inizia con il paradosso del cervello in una vasca, completamente separato dal corpo, chiedendosi se la nostra coscienza del sé e del mondo che ci circonda possa non essere altro che una allucinazione di un cervello isolato che riceve stimoli puramente fisici. In effetti noi rappresentiamo le lunghezze d’onda della luce visibile come colori, ma in realtà siamo raggiunti solo da onde elettromagnetiche che percepiamo solo se comprese in un ristretto intervallo di frequenze. Lo stesso si potrebbe dire delle onde meccaniche che percepiamo come suoni, o della pressione che si esercita su di noi e che percepiamo come sensazione tattile. Il paradosso del cervello isolato fa ricordare il film Johnny Got His Gun (1971) di Dalton Trumbo in cui il protagonista Joe ferito gravemente da una mina in guerra è ormai ridotto a un tronco umano senza arti superiori e inferiori, voce, vista e udito, e vive attaccato a un respiratore, alternando i momenti di veglia a ricordi della sua vita passata, impossibilitato a comunicare col mondo esterno. I suoi ricordi si mescolano anche a visioni e incubi, fino a quando riesce finalmente a stabilire un contatto umano con un’infermiera muovendo la testa secondo l’alfabeto Morse. Joe non ha praticamente più il corpo, ma è un cervello pensante che cerca attraverso un linguaggio diverso di mettersi in contatto con gli altri. Un paradosso simile è alla base di una situazione patologica, detta “arto fantasma”, che si presenta negli amputati che continuano a pensare di avere ancora l’arto chirurgicamente rimosso, percependo dolore e sensazioni tattili provenienti da una parte del corpo che esiste solo nella loro mente. Cervello e corpo sono indissolubilmente legati e non potrebbero esistere l’uno senza l’altro. Da questa unione detta embodiment emerge la mente, ovvero la coscienza la consapevolezza del sé, degli altri e del mondo che ci circonda. Il cervello nella vasca, inizialmente una sfida filosofica, sta tuttavia divenendo un problema reale con lo sviluppo degli organoidi cerebrali da cellule staminali umane. È in grado un organoide di cervello di costruire una coscienza? Anche se nessuno ha ancora creato un coscienzioide in laboratorio, organoidi cerebrali umani sono in grado di generare per mesi onde coordinate di attività elettrica simili a quelle generate da un cervello cosciente.

Il libro di Dennett ci offre una interpretazione filosofica della coscienza. Inizia mostrandoci i problemi legati alla comprensione della coscienza e i metodi filosofici e psicologici per affrontarli. Prosegue confrontando la concezione classica del dualismo cartesiano, che l’autore chiama “teatro cartesiano”, con un modello alternativo del flusso di coscienza detto delle “molteplici versioni”. Conclude poi con un’ampia parte dedicata all’evoluzione della coscienza e alla dimostrazione di come il modello proposto regga di fronte ad alcuni dei misteri della coscienza, come la natura del sé, le relazioni tra sé, pensieri e sensazioni e la possibile acquisizione di coscienza da parte di creature non umane come i robot. Il problema mente-corpo ha dominato la storia della coscienza. La mente fa parte del corpo, presumibilmente del cervello, o è qualcosa di immateriale, simile al concetto di anima? Il dualismo cartesiano, ovvero la separazione tra mente e corpo (res cogitans e res extensa) che ha permesso a Cartesio e agli scienziati del tempo di condurre studi sul sistema nervoso senza interferenze, non è più accettabile alla luce dei grandi progressi delle neuroscienze. L’idea di un centro di controllo centrale viene definita da Dennett “teatro cartesiano”. Secondo questa teoria, esisterebbe una regione specifica nel profondo del cervello dove “tutto si riunisce e la coscienza accade”: noi diventiamo consapevoli della luce che entra nei nostri occhi solo quando un’immagine dell’ambiente circostante viene presentata al teatro cartesiano. Dennett afferma che per una teoria della coscienza sarebbe meglio sostituire il teatro cartesiano con il modello delle “multiple versioni”, che, secondo Dennett, consentirebbe la coscienza senza richiedere un centro di controllo che la generi. L’idea chiave è che il cervello sia composto da molti sottosistemi più piccoli e specifici, tutti operanti in parallelo e ciascuno dei quali svolge un compito semplice. I sottosistemi sono collegati ed elaborano costantemente i segnali in entrata e generano uscite, dando luogo a un flusso perpetuo di attività mentale che occasionalmente converge su un modello stabile. Le “versioni” si riferiscono alle diverse interpretazioni degli input sensoriali che vengono costantemente promosse dai nostri sottosistemi nervosi.

Fin dalle origini della vita, la selezione naturale produce organismi che mostrano competenze e comportamenti finalizzati. Sia un’ameba, che si ritira da uno stimolo nocivo, sia un robot che devia la sua traiettoria se incontra un ostacolo, mostrano comportamenti finalizzati, ma in assenza di una reale comprensione delle ragioni delle loro azioni. Mentre per queste risposte finalizzate si possono identificare i meccanismi elementari biologici o elettronici, il substrato nevoso della coscienza è completamente elusivo. L’autore paragona la coscienza al centro di gravità dei corpi. Una proprietà che emerge da meccanismi fisici, chimici e biologici che determinano l’attività del nostro cervello ma che è invisibile e difficilmente localizzabile. Non potremo mai identificare, nella mappatura del nostro cervello un homunculus conscientiae, come invece riusciamo a mappare l’homunculus motorius e l’homunculus sensitivus nelle aree della corteccia cerebrale interfacciate con il corpo. Dennett afferma che: “Il problema dei cervelli, a quanto pare, è che quando li si guarda, si scopre che non c’è nessuno in casa. Nessuna parte del cervello è il pensatore, e l’intero cervello non sembra essere un candidato migliore per questo ruolo speciale”. La visione attualmente più condivisa è che la prima comparsa delle sensazioni di autocoscienza, delle emozioni e della memoria, precursori di mente e della coscienza, coincida con l’emergere e la crescente complessità dei cervelli. Multipli livelli di organizzazione sovrapposti gerarchicamente nel cervello generano attività emergenti non prevedibili in base alle proprietà dei singoli livelli inferiori. Secondo questa visione, condivisa dalla stragrande maggioranza dei neuroscienziati, la capacità di esprimere una forma di coscienza da parte di un organismo sarebbe in funzione del grado di complessità del sistema nervoso e in particolare dell’abbondanza di sistemi neuronali associativi riverberanti non direttamente connessi con il nostro corpo.

Leibniz ha scritto:“Supponiamo che esista una macchina la cui struttura produce pensiero, sentimento e percezione; immaginiamo che questa macchina si ingrandisca, in modo da potervi entrare… cosa osservereste? Nient’altro che parti che si spingono e si muovono l’una con l’altra, e mai nulla che possa spiegare la percezione”. Così, non ci sorprendiamo se una massa di metallo viti e bulloni, che non potrebbero mai volare da soli, possa generare un aeroplano che vola sopra le nubi. In conclusione, il “messaggio in bottiglia” che Dennett ci ha mandato nei primi anni novanta è che tutti gli aspetti della mente, compresa la coscienza, possano essere spiegati in termini di leggi fisiche, chimiche e biologiche che governano la materia del nostro cervello.

fabio.benfenati@iit.it
F. Benfenati lavora all’Istituto italiano di tecnologia di Genova