Andrea Satta: dalla Gallura a Lengenfeld, in tre generazioni

La fisarmonica verde

recensione di Simona De Giorgio

dal numero di febbraio 2016

“Dove vola l’avvoltoio avvoltoio vola via vola via dalla terra mia che è la terra dell’amor”. Si apre con la canzone di Calvino lo spettacolo teatrale La fisarmonica verde.
Tratto dal testo di Andrea Satta e adattato alla scena dallo stesso autore e da Ulderico Pesce, entrambi anche attori, è prodotto dal Teatro Stabile di Cagliari e dal Centro mediterraneo delle arti. E pare proprio di vederlo quest’avvoltoio fare mille giri tra il pubblico e lanciare nomi, tanti nomi, di uomini partiti per la guerra. Uno fra tanti e su tutti, Gavino Esse, nato a Elle, in Gallura. Dalla Sardegna in gioventù, alla chiamata alle armi, lo spettacolo racconta, in un unico atto, il viaggio del figlio, Andrea, che cerca, dopo la morte del padre, di ricostruire i momenti importanti della sua vita.

La vita di “un uomo normale, non un eroe. Uno che è partito in guerra perché in guerra si doveva andare. E poi finì nei campi di concentramento a Lengenfeld, in Germania, fra centomila deportati e trentamila morti”. Qui fu testimone della tragedia di quaranta uomini chiusi dentro una baracca di legno e bruciati vivi su ordine del Lagerführer Joseph Hartmann. Una tragedia che Gavino Esse non riuscì mai a raccontare, nemmeno nei momenti più intimi con il figlio davanti alla stufa di casa, luogo di ricordi e di ferite visibili, che bruciano sulla scena. Fra i racconti e i ricordi, le carte ritrovate, un cappottone militare e una fisarmonica verde, Andrea solca il mare di Sardegna in nave e ripercorre la terra delle origini in bicicletta. Sa di “mare e memoria”, l’ombra e la voce narrante, interpretata da Ulderico Pesce, che accompagna questo viaggio e lo incita ad andare oltre e arrivare fino a Lengenfeld. E lì, in una “bellissima giornata di sole che pioveva passato morto”, Andrea ci vuole portare suo figlio.

Sul palco si mettono in ordine i ricordi o i frammenti di essi. Forti risuonano i pannelli di lamiera che compongono la scenografia e piombano l’eco di voci che arrivano come dal ponte della nave o dal campo di concentramento e trasudano carne viva. Densamente simbolici sono gli oggetti – immaginifica è la bicicletta che percorre un viaggio che a tratti si interrompe, posata su una piuma sembra la fisarmonica verde – e i suoni, quello del pianoforte che pare giungere dalle mani e dagli occhi di chi osserva e accompagna il tempo, e quello del giradischi che canta, come i cantacronache. La narrazione è in perfetto equilibrio con i cambi di luce che si alternano sulla scena. L’invito, implicitamente rivolto allo spettatore, è di recuperare il rapporto tra figlio e padre, finché c’è tempo. Ne viene fuori un significato profondo, racchiuso in un dolore silenzioso e pieno rispetto che solo una canzone come Silent night, suonata da Angelo Pelini alla fisarmonica, può restituire alla storia.

Affacciati sullo stesso mareIntervista ad Andrea Satta e Ulderico Pesce di Mario Montalcini sul numero di febbraio 2016.