Ieri, a 70 anni, è morto William Langewiesche, scrittore e giornalista statunitense, maestro del reportage narrativo e autore di numerosi saggi, pubblicati in Italia da Adelphi (tra i più famosi, ricordiamo Il bazar atomico, Esecuzioni a distanza, Regole d’ingaggio, Terrore dal mare, American ground). Dal nostro archivio, vi proponiamo un’intervista di Camilla Valletti realizzata in occasione del seminario con Langewiesche organizzato a Torino dalla Scuola Holden dal 20 al 23 maggio 2008.
Come la scrittura inventa il reportage. Intervista a William Langewiesche di Camilla Valletti
dal numero di luglio-agosto 2008
Ne ha parlato a lungo, ne ha scritto in varie forme: ha iniziato a fare il reporter a trentasei anni, prima era pilota d’aereo. Quanto questa esperienza ha influenzato la sua scrittura?
Ho fatto il pilota per molti anni ma, in realtà, in parallelo ho iniziato a scrivere da quando avevo diciannove anni. Intanto ho preso il brevetto di pilota d’aereo militare. Finito il college, mi sono trasferito a New York. E lì che per tre anni mi sono dedicato a tempo pieno alla scrittura, come freelance. Avevo poco più di vent’anni: ho collaborato con una quantità di riviste, non me le ricordo nemmeno tutte. Solo più tardi ho deciso che cosa avrei voluto fare da grande. Avevo venticinque anni quando le mie ambizioni si sono fatte sempre più alte: volevo scrivere libri, non solo reportage. Ma nessun editore li voleva, i miei libri. Ho scritto due romanzi a quei tempi: entrambi terribili. Guidavo gli aeroplani per guadagnarmi da vivere. Solo a trentacinque anni sono arrivato a definire bene quel che volevo fare e come volevo scrivere. Ho insistito, e battuto sullo stesso chiodo per raggiungere il mio obiettivo: scrivere della buona non fiction. Dunque non è vero quello che dicono: ho iniziato a scrivere prestissimo, ma solo dopo molti anni sono arrivato a stabilire quello che oggi ritengo sia un buon livello di stile. Non so però quanto il mio lavoro di pilota possa avere influenza il mio modo di scrivere e di vedere il mondo. Certamente ci sarà qualche cosa, ma mi è difficile definirlo. Forse ha a che fare con un elemento precipuo del volo: il senso di essere in pericolo. Ricordo infatti un volo molto pericoloso fatto quando ero un ragazzo: mi impressionò molto, in modo indelebile. Dunque sì, la paura e il relativo autocontrollo: credo che in qualche modo questo binomio giochi sul mio stile di scrittura, sul suo ritmo.
La scrittura è l’elemento che fa la differenza nel riportare i fatti. Quando lei ritiene abbia inizio il reportage letterario? Crede che A sangue freddo abbia determinato un cambiamento nel giornalismo d’inchiesta?
Certo che sì. In Cold Blood è senz’altro il testo fondamentale che ha permesso di capire a tutti coloro che volevano fare non fiction che cosa fosse possibile fare, anche da un punto di vista letterario, proprio portando alle estreme conseguenze la forma base della non fiction. Ha certamente avuto un impatto straordinario, anche su di me. Lo lessi quando avevo quattordici anni e già allora, per quanto fossi molto giovane, rimasi impressionato dall’altissima qualità della scrittura. L’ho poi riletto negli anni, e trovo pionieristico. Non so perché non sono un accademico, ma ha aperto una strada nuova. Ci sono altri autori che io pongo al livello di Capote, anche per gli aspetti innovativi del loro lavoro. Uno è senz’altro Naipaul, quello dei saggi, dove il talento per la scrittura non fiction emerge con maggiore evidenza. I romanzi li trovo più noiosi.
Che cosa pensa dell’ultimo romanzo sull’11 settembre? E che cosa pensa di tanta pseudoletteratura uscita dopo quella fatidica data?
Non ho letto sistematicamente nulla di ciò che è stato scritto sull’11 settembre. Penso però che sia stata prodotta della vera spazzatura che a sua volta ha prodotto danni irreparabili. La conseguenza della grande manipolazione che è stata fatta dell’11 settembre è la guerra in Iraq. La lettura emozionale di quegli eventi ha portato a scelte altrettanto emotivamente gravi, e stupide. Sono spesso stato accusato di freddezza, soprattutto rispetto al mio modo di raccontare il cosiddetto Ground zero. Io credo però che le mie emozioni non debbano essere percepite da chi legge, i fatti devono essere riportati senza caricarli di pathos perché altrimenti si finisce per essere svianti.
Stendhal diceva di leggere ogni giorno tre pagine del codice civile come antidoto per uno stile troppo incline all’abbellimento. Lei che cosa consiglia?
Non ho una ricetta universale, ma se Stendhal leggeva il codice civile io posso dire di aver letto, con quello scopo, il libretto della mappa della metropolitana pubblicato dalla città di New York. È un vero capolavoro di chiarezza, di pulizia e di energia creativa. Chiunque abbia scritto quei pezzi esplicativi sulle stazioni, districandosi tra numeri, orari, rotazioni, è senz’altro un grande scrittore. Peccato che la pubblicazione non sia più disponibile. Io amo la scrittura quando si mette al servizio del lettore. La scrittura di servizio, per lo più anonima, spesso rivela grandi personalità.
Le regole dell’assurdo
William Langewiesche è corrispondente dell’“Atlantic Monthly”. Molti dei suoi reportage sono consultabili su internet. Adelphi ha recentemente pubblicato, in forma autonoma, Rules of Engagement, uscito su “Vanity Fair” nel 2006. Si tratta di una tra le migliori prove di giornalismo d’indagine costruita da Langewiesche secondo il metodo inaugurato con l’innovativa ricerca sul cosiddetto Ground zero. Questa è la tragica cronaca dei fatti che si svolsero ad Al-Haditha in Iraq nel 19 novembre del 2005, in seguito ad un attentato contro una pattuglia di marines. Il trentaduenne capitano Lucas Mc Connel – “più portato a credere che a ragionare, inquadrato, moderatamente religioso, un filino moralista, ma soprattutto una cosa sola con il Corpo” – guida il suo manipolo di giovanissimi soldati nella rappresaglia contro un villaggio di civili: due intere famiglie sono massacrate, non per errore ma per necessità strategica. Secondo Langewiesche questa operazione, non dissimile da molti altri episodi, porta il tratto emblematico della sconfitta degli americani in Iraq. Una guerra condotta all’insegna dell’assurdo, una quotidianità in cui “sei vivo, su una strada silenziosa e tranquilla, e un istante dopo, improvvisamente, ineluttabilmente, senza il minimo preavviso, sei morto, o mutilato per il resto dei tuoi giorni”. In queste pagine, utilizzando il dettaglio meteorologico, geografico, umano, tecnico, senza alcuno psicologismo o tentativo di spiegazione sociologica, al lettore s’impone la logica sovvertita di una guerra che non risparmia nessuno, occupanti e occupati. Molto efficace la pagina in cui si ricostruisce la percezione che questi sodati speciali hanno degli iracheni e dei loro costumi: “E certo che no, di questo cazzo di cultura irachena non gliene fregava un cazzo. Gli uomini andavano vestiti come femmine, che cazzo, e se solo gli guardavi la cazzo di moglie come niente pensavano che te la volessi fare. ‘sti cazzo di stronzi si ammazzano tra di loro, quando non ammazzano un cazzo di marine…” Ignoranza, violenza, chiusura, paura, straniamento. Un dialogo autistico, l’impossibilità genetica di comprendere ragioni diverse dal proprio addestramento.