Han Kang e le ragioni di un caso letterario

Effetti collaterali della moda-Corea: perché i romanzi mediocri deliziano gli occidentali

di Maurizio Riotto

dal numero di dicembre 2017

Nata nel 1970, Han Kang è quella che si può considerare una vera figlia d’arte (suo padre è lo scrittore Han Sŭngwŏn). Muove i suoi primi passi nella poesia e nella prosa agli inizi degli anni novanta, in concomitanza con la laurea breve in letteratura coreana ottenuta presso l’Università Yŏnse di Seoul, nel 1993. In Corea si conquista una nicchia nell’affollato panorama letterario nazionale ottenendo qualche riconoscimento, come il Premio Yi Sang (2005), vinto per una raccolta di racconti intitolata, dal principale di essi, La macchia mongola (Monggo panjŏm: Munhak sasangsa, Seoul 2005). Questo racconto poi confluirà nel più noto La vegetariana, secondo uno schema non raro in Corea per il quale un’opera viene creata anche assemblando parti di lavori differenti, e infatti La vegetariana altro non è se non un collage riadattato di più esperienze letterarie, prima fra tutte quel Il frutto della mia donna (Nae yŏja-ŭi yŏlmae: Ch’angjak-kwa pip’yŏngsa, Seoul 2000) passato quasi inosservato in Corea e nel mondo.
Han Kang rimane praticamente sconosciuta in Occidente fino a epoca recentissima, quando la casa editrice inglese Portobello Books pubblica il suo romanzo intitolato The Vegetarian (Ch’aesik chuŭija), immediatamente salutato come un caso letterario, laddove la scrittrice stessa viene elevata quasi al rango di nuova ed esotica musa capace d’illuminare con l’incisività della sua prosa gli oscuri meandri dell’animo umano (ma certo non l’insipienza di una certa critica). In men che non si dica piovono premi, interviste, dibattiti: il mito è creato e immancabilmente un altro suo romanzo, intitolato chissà perché Atti umani (traduzione non dall’originale di Milena Zemira Ciccimarra pp. 208, € 19, Adelphi, Milano 2017) essendo il titolo originale Sonyŏni onda, ossia “Arriva il ragazzo”, consacra Han Kang come nuova e fulgida stella della letteratura mondiale. Come è stato possibile tutto questo?

Un’onesta scrittrice

Letterariamente parlando, Han Kang non è né una pietosa scribacchina né un fulmine di guerra. Han Kang è un’onesta scrittrice che svolge il suo mestiere all’ombra di due ingombranti eredità: la cultura coreana, dove l’omogeneità è ancora preferita all’originalità, e la tradizione della letteratura classica femminile del suo paese. Proprio la seconda eredità esercita ancora un’influenza fortissima fra le autrici, che non potendo liberarsene, a motivo della prima eredità, l’hanno trasformata (più o meno inconsapevolmente) in una specie di bandiera “femminista” nell’ambito di una società dove i due universi dello yin/yang rimangono ancora inesorabilmente separati. La letteratura femminile della Corea classica presenta caratteristiche inconfondibili: le sue trame esili e la sua debole tenuta narrativa finiscono per privilegiare la forma diaristica o quella dei “pensieri sparsi” (proprio le “note sparse”, o sup’il, costituiscono ancor oggi in Corea un genere letterario diffusissimo) in un contesto dove i vari episodi sono semplicemente accostati l’uno all’altro. Viceversa, le autrici classiche coreane si concentravano molto sulla psicologia dei loro personaggi, nell’ambito di quadri letterari intimi dedicati soprattutto a sentimenti come l’amore, l’amicizia, la famiglia.

In buona parte succede così ancora oggi, e il lettore italiano se ne sarà accorto leggendo opere come Le nostre ore felici (Dalai, 2009) e Come una sorella (Dalai, 2007) della scrittrice Kong Chiyŏng (Gong Ji-Young), oppure Prenditi cura di lei (Neri Pozza, 2011) e Io ci sarò (Sellerio, 2014) della novellista Sin Kyŏngsuk (Shin Kyung-Sook). Non è certo una prosa sfolgorante: al contrario, essa risulta pesantemente giaculatoria, ripetitiva, sciatta, monotona, piagnucolosa e soporifera, erede com’è di un mondo scarsamente istruito (l’erudizione femminile non era ben vista dalla società neo-confuciana) e assolutamente chiuso (la letteratura femminile classica coreana era anche chiamata “letteratura delle stanze interne”, perché quelle erano le parti della casa riservate alle donne) e privo di aspettative e interessi che non fossero i sentimenti personali.

Cos’è accaduto?

Atti umani di Han Kang, recentemente pubblicato per Adelphi, non fa eccezione. Il romanzo ha come sfondo l’insurrezione della città di Kwangju (luogo natale dell’autrice) contro il regime dittatoriale di Chŏn Tuhwan nel maggio del 1980. La scrittrice si esprime per episodi isolati, lampi di memoria, tristezza quanto basta e immagini più o meno macabre (ripetute a proposito e più spesso a sproposito) per rendere la narrazione più sapida e accattivante. Normale amministrazione e “minimo sindacale” in un panorama letterario dove alla quantità non corrisponde altrettanta qualità e troppi romanzi generano sul lettore lo stesso effetto di un infuso di valeriana (ricordiamo il micidiale Io ci sarò, per arrivare all’ultima pagina del quale è richiesto al lettore un vero e proprio atto d’eroismo). Di fatto, in Corea i miti e i capolavori letterari creati in Occidente non sono affatto tali e spesso vanno incontro a cadute rovinose, come la già citata Sin Kyŏngsuk che, portata sugli altari all’estero, è stata poi in patria beccata a plagiare un autore straniero. E non un autore qualsiasi, ma addirittura quel Mishima Yukio (1925-1970) esponente di spicco della letteratura dell’odiato Giappone.
Ma allora, perché autrici come Sin Kyŏngsuk e Han Kang, del tutto normali in patria, sono potute diventare in Occidente dei casi letterari?

Se ci pensiamo, La vegetariana esce in Corea nel 2007 e chiunque avesse allora proposto a un editore occidentale questo romanzo avrebbe ricevuto un secco rifiuto, ne sono convinto. Successivamente, però, sono accaduti alcuni fatti ben precisi capaci di svegliare l’attenzione per la penisola coreana. Da un lato c’è stata la svolta politica conservatrice in Corea del Sud, con le presidenze di Yi Myŏngbak e Pak Kŭnhye, che ha esasperato la demonizzazione della Corea del Nord (soprattutto dopo l’avvento di Kim Chŏng’ŭn) a vantaggio della propaganda “freedomista” che ha sbattuto il mostro sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Dall’altro lato c’è stata l’internazionalizzazione di un movimento di massa che, in piena sintonia col nichilismo etico del tardo capitalismo e la crisi delle democrazie occidentali, ha catapultato la Corea sulla ribalta mondiale. Stiamo parlando del K-Pop, fenomeno musicale fastoso e vuoto (dietro al quale avvengono autentici, drammatici fenomeni di sfruttamento minorile) e per questo capace di stregare e occupare prepotentemente la terra nullius dei cervelli dei giovani “liberi”. Improvvisamente la Corea, la cui grande cultura tradizionale era stata fino ad allora praticamente ignorata e snobbata, diventava oggetto di adorazione nelle sue manifestazioni più squallide e insulse: il successo planetario del brano Gangnam Style è ancora oggi un mistero per il suo stesso protagonista e creatore.

L’interesse e il trend però generano denaro e a un tratto cominciano a circolare sempre più spesso opere letterarie coreane che in Italia arrivano di solito dopo che ne è stato notato il successo in altri paesi. L’ignoranza generale sulla Corea però è rimasta quella di prima, e poiché è tipico della critica d’arte, letteraria e cinematografica mettere nella testa dei vari autori cose che questi ultimi mai avrebbero immaginato, ci si può rendere conto di quanto sia stato facile creare, nell’esaltazione generale, leggende e miti, nonché trasformare il ferro in oro. A tale proposito, Atti umani è un romanzo perfetto per gli occidentali, che sempre si deliziano di leggere di torture e atrocità commesse dal dittatore di turno: in questo modo, essi rafforzano narcisisticamente l’autostima e l’autoconvinzione di essere fortunati (se non proprio culturalmente migliori) e si ammantano di riconoscenza verso il sistema per aver potuto vivere in un mondo ritenuto libero.

Atti umani

Atti umani è stato così celebrato e premiato come una specie di inno alla libertà e un riconoscimento alla superiorità occidentale, senza nessun riguardo per quelli che invece erano stati i motivi storici più reconditi e profondi della rivolta di Kwangju (non una città qualsiasi). L’autrice non ne parla (né era tenuta a farlo), ma nell’ambito di una società per sua natura autoritaria come quella coreana, nella quale gli studenti che dimostravano contro il governo l’anno prima potevano diventare massacratori e torturatori l’anno successivo, il problema è legato non al potere e ai suoi metodi, ma all’uomo che il potere esercita: nel pensiero tradizionale orientale, infatti, il sistema appartiene alla sfera delle istituzioni, il leader appartiene alla sfera dell’individuo. E prima è venuto l’individuo, e poi sono venute le istituzioni. Nell’ambito nella millenaria rivalità tra la regione del Chŏlla (dove si trova Kwangju e di dove era originario il perseguitato politico Kim Taejung, poi divenuto anche lui presidente della repubblica) e la regione del Kyŏngsang (patria di Chŏn Tuhwan e del precedente dittatore Pak Chŏnghŭi), la questione, prima ancora che la libertà in quanto tale (concetto assai vago da quelle parti dove anche i pretesi rivoluzionari si piegano alle legge del kapchil, ossia il rapporto immutabile tra chi comanda e chi ubbidisce), era la supremazia, la gelosia per il potere e l’orgoglio territoriale: in altre parole, il “tribalismo” tradizionale dei coreani.

In conclusione, Atti umani è un romanzo tutt’altro che entusiasmante, frutto di un’idea culturale generale prima ancora che della mente di una singola scrittrice. Proprio quello della personalità e dell’originalità, che dovrebbero essere acquisite non attraverso la meccanica ripetizione di modelli altrui ma in seguito a processi intellettuali autonomi, è oggi uno dei maggiori limiti della letteratura coreana. Quanto ai “mitografi”, forse farebbero meglio a ricordare che la letteratura è anch’essa un fenomeno storico, e alla storia rimane strettamente connessa ancor prima che all’individualità di ogni autore. Questo vale per tutti, ma per l’Estremo Oriente e la Corea in particolare.

mriotto@unior.it

M Riotto insegna lingua e letteratura coreana all’Università L’Orientale di Napoli