La scomparsa di René Girard e la sua eredità

Uno sguardo profetico sulla realtà contemporanea

di Pierpaolo Antonello

dal numero di gennaio 2016

la-violence-et-le-sacre-girardLa scomparsa di René Girard avvenuta lo scorso 4 novembre a Stanford, in California, non è giunta inaspettata, vista l’età del pensatore francese, nato ad Avignone il 25 dicembre 1923. Quello che ha colpito molti commentatori è stata la coincidenza della sua scomparsa con alcuni eventi recenti (la strage di Parigi del 13 novembre in particolare) che sembrano confermare una volta ancora, e in maniera spettacolarmente evidente, quanto Girard ha teorizzato per mezzo secolo. Non sorprende quindi come in molte analisi a caldo sia stata evidenziata la dimensione profetica del suo pensiero e della sua ricerca antropologica che sin dalla pubblicazione di La violenza e il sacro nel 1972 ci ha accompagnato in un percorso di ricomprensione delle origini violente della socialità umana e della struttura sacrificale del sacro arcaico, con sopravvivenze che giungono fino ai giorni nostri. In un’epoca storico-culturale che sembrava abbandonare qualsiasi preoccupazione apocalittica consegnandosi a una teleologia storica rassicurante e completamente sposata alle presunte conquiste democratico-liberali del mondo occidentale, totalmente aliena da ogni dipendenza dal sacro, il pensiero di Girard è apparso come un cuneo di chiarezza premonitrice, e a questa chiarezza si sta dando il giusto tributo, soprattutto negli ultimi anni, a partire da quell’evento simbolico che è stata l’elezione di René Girard tra gli immortali dell’Académie française nel 2005, e la cui prolusione d’investitura, dal titolo Il Tragico e la pietà, è stata pubblicata in italiano dalle Edizioni Dehoniane per la cura di Roberto Alessandrini e Maurizio Rossi (pp. 88, € 9, Bologna 2015).

Nonostante la fortuna eccezionale che ha avuto in Italia, il pensiero di Girard non ha mai goduto della popolarità di altri intellettuali e filosofi occidentali, soprattutto in ambito accademico internazionale, anzi, per molto tempo è stato maneggiato con una certa distanza scettica, per la refrattarietà dei circoli intellettuali più à la page (quelli francesi in primis) di accettare da una parte la sua prospettiva apologetica, dall’altra il suo radicamento al linguaggio e alle procedure della scienza (trovando il connubio quanto mai inspiegabile). Non di meno René Girard ha continuato ad avere una ricezione lenta ma costante, certamente e inizialmente all’interno del mondo cattolico (dopo lo scetticismo iniziale di molti teologi), ma sempre più anche all’interno di contesti accademici e intellettuali di molti paesi a prescindere da istanze confessionali o da prospettive disciplinari particolari, fatto testimoniato sia dalla crescente bibliografia critica sul suo lavoro (si vedano le centinaia di titoli presenti nel database del Colloquium of Violence and Religion), sia dal numero di tributi recentemente espressi dalla stampa internazionale, da “Le Monde” al “New York Times”, da “Forbes” a “El País”, da “Die Welt” a “The Guardian” (passando per numerosi blog a livello mondiale, dall’America Latina all’Australia, dalla Turchia alla Corea del Sud). Questo è un fatto sorprendente soprattutto nel contesto anglosassone, dove René Girard è sempre rimasto un pensatore “periferico”, conosciuto soprattutto all’interno dei dipartimenti di letteratura, e con pochissima visibilità mediatica.

In ambito di critica e teoria letteraria, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961) è stato un libro letto e amato da molti ma citato da pochi, soprattutto in ambito accademico, ma che negli anni ha ricevuto un’attenzione esplicita proprio da coloro che sono più interessati ai meccanismi sostanziali della creazione letteraria, gli scrittori: John Maxwell Coetzee, Christa Wolf, Milan Kundera, Jonathan Littell, Elif Batuman, Alberto Garlini, Parul Sehgal sono solo alcuni dei nomi a livello internazionale che si sono avvicinati alle letture girardiane trovandone consonanza e spunto. Allo stesso modo in campo antropologico le consuetudini disciplinari e la deriva politically correct dell’etnografia contemporanea di stampo anglo-americano, che ha espulso qualsiasi preoccupazione comparativa, hanno fatto sì che Girard fosse pressoché ignorato, marginalizzando una teoria che a uno sguardo superficiale può sembrare grossolana, riduzionistica e etnocentrica. Non di meno le sue prospettive teoriche sono state recentemente avvicinate e commentate da antropologi del calibro di William Durham, Melvin Konner, Douglas Frye, o Scott Atran (ma anche da psicologi come Andrew Meltzoff, da neuroscienziati come Vittorio Gallese o da archeologi come Ian Hodder), trovando una sintomatica ricezione anche nel contesto dell’antropologia sudamericana.

La teoria di Girard e il dibattito sul terrorismo internazionale

René GirardParticolarmente interessante è inoltre il montante interesse per René Girard (spesso in dialogo con Carl Schmitt da una parte e Giorgio Agamben dall’altra) in ambito di relazioni internazionali e filosofia politica. La teoria di Girard sembra infatti in grado di unire in maniera organica i due momenti della declinazione del dibattito sul terrorismo internazionale: quello orientato alla comprensione delle motivazioni individuali nei meccanismi delle stragi, e quello impegnato a descrivere i fenomeni a una scala globale e di interazione tra agenti internazionali, e di campi ideologici contrapposti. La dimensione competitiva del desiderio secondo l’Altro; gli inferni psicologici degli “uomini del sottosuolo”; il risentimento velenoso come prodotto tipico dei processi di indifferenziazione sociale prodotto dalla società democratica, sono i termini di partenza di una teoria che non ci permette di dicotomizzare in maniera manichea il confine che ci separa dalla presunta alterità, responsabile di portare disordine e violenza all’interno delle nostre vite completamente regolate. È lo stesso mondo occidentale a creare il proprio sistema reattivo, la propria aggressione autoimmune, la coltivazione di quelle sacche di anomia e di ricerca mitica di senso che porta alla costruzione di un esercito di “lupi solitari” (del resto già immaginati da Dostoevskij e Stirner).

Visione apocalittica e il suo antidoto, l’eredità di René Girard

portando-clausewitz-all-rPortando Clausewitz all’estremo (2007), aveva inoltre finalmente portato Girard sul terreno del moderno, dopo che per anni si era confinato alla discussione di testi antropologici e testi biblici, dal citato La violenza e il sacro sino a Vedo Satana cadere come la folgore (1999), spalancandoci a prospettive di comprensione del politico contemporaneo assolutamente inedite e che vanno più in profondità di molto pensiero coevo. Il problema della reciprocità della violenza, leitmotiv della teoresi girardiana, non si manifesta solo a livello delle strutture interindividuali, o all’interno di concezioni feudali e arcaiche della giustizia, ma si installa nel cuore stesso della nostra modernità, ispirata solo falsamente e in maniera superficiale al razionalismo illuministico, ma carica di derive totalitaristiche dove l’ideologia è spesso al servizio di una volontà di strage, di annientamento fisico del rivale come unica soluzione immaginabile al conflitto perenne.

Ed è su questo scenario apocalittico che la ricezione teologica e filosofica di René Girard sembra concordemente convergere, nella consapevolezza che il sacro ha profondamente a che fare con la violenza dell’uomo essendo lo strumento deputato a contenere questa violenza sistemica: “contenere” nel doppio senso del termine, come argine al proliferare indiscriminato della stessa e come struttura che la prevede farmacologicamente, come strumento politico-sociale. A questa deriva apocalittica René Girard propone come antidoto il ritorno alla verità evangelica, un ritorno alla lettura di testi dimenticati come l’Apocalisse di Giovanni. Il motore del pensiero e dell’azione etica del cristianesimo vive proprio nell’imminenza della catastrofe: essere a ridosso di questa imminenza ci invita a trasformare i nostri gesti in atti responsabili; a tradurre la reciprocità conflittuale in reciprocità pacifica, pena l’autodistruzione. Da questo punto di vista, ai margini della riflessione filosofica o accademica, stanno emergendo anche gruppi di lavoro o think tank che accolgono Girard come uno dei testi teorici di riflessione per sviluppare politiche di risoluzione conflittuale sia a livello di comunità di base, sia a livello strategico generale. Ed è forse questa una delle prospettive più importanti che Girard ci lascia in eredità in questo momento storico.

paa25@cam.ac.uk

P Antonello insegna letteratura e cultura italiana moderna e contemporanea all’Università di Cambridge