Come la lettura contemporanea trae forza dalla sua marginalità

Percorrere il testo non come un turista, ma come un pellegrino

di Matteo Moca

dal numero di maggio 2018

In Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino, con una piena aderenza al suo tempo e una lungimiranza ancor più profonda, presta attenzione anche ai mutamenti circa la natura della lettura, mettendo bene in luce come, utilizzando le parole di Raimondi, la letteratura non sia più “al centro” delle esistenze ma occupi anzi un ruolo del tutto marginale: “I romanzi lunghi – scrive Calvino – scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono”. L’unica via di accesso resta allora custodita in un passato trascorso dove, prosegue Calvino, “il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un’epoca che è durata su per giù cent’anni, e poi basta”. La grandezza di questa pagina di Calvino sta nella totale mancanza di commiserazione: per lui l’epoca della lettura è durata poco, un secolo, ed è dunque fuori luogo, ancor più per noi oggi, tentare di ricostruire un tempo che non esiste più. Resta però indubbio, seppur avulso da un qualsiasi ideale di formazione tardo-rinascimentale, il ruolo che la lettura deve rivestire nella formazione e nella costruzione delle identità.

Un libro uscito recentemente si concentra in maniera compiuta sul ruolo della lettura: lo ha scritto Giuseppe Montesano e si intitola Come diventare vivi. Un vademecum per lettori selvaggi (pp. 192, € 10, Bompiani, Milano 2017), punto di riferimento importante per discutere tale questione oggi. Resta inoltre fondamentale, tra gli altri, un aureo libro di Ezio Raimondi, Un’etica del lettore (il Mulino, 2007) dove l’autore scrive che un libro dà origine a “un dialogo che cresce nel tempo”, un fondamentale percorso che, se compiuto nella maniera più intima e profonda, porta a una crescita personale irraggiungibile con altri mezzi, ma solo “se si percorre il testo non come un turista, ma come un pellegrino, che nel compiere il suo viaggio cerca anche se stesso e indaga il proprio caos sentendosene responsabile”. Lungi dal non comprendere l’assenza di centralità che oggi la lettura riveste, Raimondi, con la stessa lucidità di analisi di Calvino, scrive che proprio da questa situazione è necessario ripartire perché la lettura “può tuttavia trarre nuova forza precisamente dalla sua marginalità, dalla sua ardua consapevolezza di non essere al centro”, insistendo sull’apertura che la lettura consegna a chi la pratica perché “leggendo, calati nella logosfera del testo, ci si può persino sentire, a occhi aperti, immersi in un sogno più vero e più vivo della realtà”.

Montesano - Come diventare vivi (lettura)Il libro di Montesano è emblematico sin dal suo titolo poiché pone in evidenza un legame sepolto, quello tra la lettura e la vita, la cui necessità rimane sottesa per tutti i sei movimenti che lo compongono. Come diventare vivi segue un altro libro dello scorso anno di Montesano, Lettori selvaggi (edito da Giunti), mastodontico volume enciclopedico di cui questo costituisce una sorta di appendice, non per questo però meno importante, ma anzi necessario completamento metodologico. Se Lettori selvaggi era una vera e propria enciclopedia del sapere umano che spaziava dalla letteratura alla filosofia, dal teatro all’arte fino alla musica, dagli antichi greci a Manganelli e al jazz, quest’ultimo libro costituisce una sorta di dichiarazione di metodo rispetto all’immenso sapere che è contenuto nell’altro, indagando il valore e il ruolo che la lettura riveste nelle nostre vite. Montesano è immerso pienamente nel tempo in cui vive e per questo analizza bene in un breve racconto posto in apertura, Il racconto del lettore precario, le abitudini di lettura contemporanea, che vivono di un inestricabile paradosso: mai si è forse letto e scritto così tanto, ma si tratta solo di status, messaggi, news e poco altro. E così il protagonista di questo racconto tenta in tutti i modi di creare le condizioni migliori per sprofondare nella lettura, silenziando e spegnendo il cellulare, ma sempre con il pensiero fisso che forse qualcuno lo abbia cercato o gli abbia scritto. Il lettore trova però il suo tempo nei viaggi in metro, in aereo, in treno, dove l’atmosfera si fa più conciliante, e diventa così un lettore “precario”, primo passo per la trasformazione in “selvaggio”: “Ormai leggo soltanto in metro, in treno, in aereo, al bar, in mezzo alla gente, in mezzo al rumore, dovunque tranne dove dovrei: perché la solitudine mi atterrisce e i minuti felici mi sfuggono dalle mani”.

“Bisogna essere assolutamente moderni” scriveva Rimbaud e il tema della modernità è centrale anche nella riflessione di Montesano, che però rovescia questa massima per mostrare come le potenzialità del moderno non siano oggi totalmente esperite. La domanda necessaria è allora un’altra, non solo come essere moderni, ma anche per quale fine tentare di esserlo e che ruolo ha la lettura in questo processo: “la modernità è stata tradita, e viviamo in una modernizzazione impastata di arcaico.(…). Ma che lettura è la nostra? Non sappiamo leggere in profondità né le sottigliezze dei sentimenti né le sottigliezze della scienza, non sappiamo decifrare ciò che ci arriva da tutti i media, e con i saperi accumulati nei nostri dispositivi elettronici ci comportiamo come primitivi di Neanderthal a cui è stato dato il trattato sugli Elementi di Euclide e Totem e tabù di Freud: e loro li utilizzano per attizzare il fuoco dei sacrifici umani perché non capiscono cosa siano e non sanno a cosa servano: stiamo diventando analfabeti emotivi e mentali”.

La lettura selvaggia, lettura per vivere

Proprio in questo passaggio è concentrata una possibile risposta all’interrogativo precedente sul perché sia necessario essere moderni in maniera il più possibile onesta e limpida, perché è l’unica via per sfuggire all’analfabetismo diffuso di cui parla Montesano. Che sia o meno un percorso utopico e impraticabile, sembra però che costituisca una vera e reale alternativa all’impoverimento preoccupante e riscontrabile in molti aspetti del quotidiano. La via è quella della lettura “selvaggia”, approfondita e curiosa. Montesano riesce addirittura nel difficile tentativo di dare una dimostrazione di questo tipo di lettura, quando costruisce un crescendo interpretativo della meravigliosa poesia di Mandel’štam Mi lavavo all’aperto perché era notte, mettendo bene in luce tutti i meccanismi immaginifici e subliminali che si attivano attraverso un certo tipo di analisi ermeneutica dei testi. Montesano non si ferma solo a questo, che parrebbe altrimenti un semplice esercizio di promozione alla lettura, ma anzi parte da queste che sono avvertite come delle necessità impellenti per la nostra contemporaneità – ed è difficile dare torto all’autore – per giungere alla definizione di un ruolo politico e sociale della lettura, perché, scrive, “guidati dalla passione che cerca ciò che ignora, i lettori selvaggi leggono per vivere” e “sanno che leggere è anche imparare ad amare”. Sta in questa – all’apparenza semplice – definizione una necessità invece enorme, quella di guidare la formazione dell’individuo poiché, come scrive Calogero, la cultura è un “formidabile strumento di vita”.

L’interrogazione di Montesano si sposta però dalla questione circa i risvolti della lettura e della cultura umanistica nella vita quotidiana perché non è questo l’oggetto del suo libro, concentrato invece su una nuova definizione dello statuto della lettura. Diversamente fa Claudio Giunta nel suo E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (il Mulino, 2017, cfr. “L’Indice” 2018, n. 1), dove si concentra con insistenza e proficuo approfondimento sull’insegnamento delle materie umanistiche e della letteratura in particolare. L’ottica si sposta quindi dalle necessità della lettura alle necessità dell’insegnamento, inseguendo anche le ripercussioni che tali scelte di studio portano nella vita. La questione è quella che viene impostata nell’introduzione: chi riflette con maggior ardore su questo argomento “ha frequentato, di solito, il liceo, poi si è iscritto all’università, si è laureato con una tesi in letteratura o in filosofia o in storia dell’arte o in pedagogia, poi ha studiato per i concorsi, ha superato questi concorsi, è riuscito finalmente a trovare un posto di lavoro, precario o stabile, a scuola o all’università. Ha insomma investito la sua intera esistenza, dai quattordici anni in poi, in quella che un tempo si sarebbe chiamata la vita dello spirito, è abituato a considerare come massimamente nobili, interessanti e utili i prodotti della cultura umana, e si è convinto che uno dei compiti più necessari, per una società che voglia dirsi civile, consista nell’impadronirsi di questi prodotti e nel comunicarli agli altri”.

È in particolare l’ultimo punto di questa citazione a innestarsi pure nel discorso di Montesano, che mostra nel suo libro di poter superare quel grande interrogativo relativo alla “necessità” della lettura e della cultura umanistica, non eludendone la natura, ma anzi andando alla radice dei significati e delle motivazioni. Ovviamente Montesano non può rispondere alle domande che pone Claudio Giunta nel suo libro, ma certamente riesce ad andare oltre, sviando anche dalla sterile questione circa la capitalizzazione delle conoscenze, il loro peso nel mondo del lavoro e del mercato. Quella che Montesano tratteggia, in Lettori selvaggi prima e in Come diventare vivi poi, è una vera e propria trasformazione, ovvero quella che porta il lettore a essere rinnovato e rigenerato da un incontro spesso inaspettato, capace di far superare i confini della vita e l’usura del tempo e ad afferrare quelle “vere presenze” di cui parla George Steiner, capaci di soddisfare dei bisogni che non conoscevamo: “Aspettavamo qualcosa e non sapevamo che esistesse, che ci potesse completare”, perché ciò che ci tiene vivi è qualcosa che restituisce un senso alla realtà: “non si tratta più di passare il tempo o di ingannare la noia – scrive Montesano –, né di accrescere la propria cultura quantitativa e di apprendere cose specialistiche: quando si legge per vivere, ciò che va in pezzi è la prigione in cui ognuno è chiuso, e quando la propria gabbia si è rotta, l’esperienza della libertà è così esaltante che cominciamo a vedere con dolore anche le gabbie altrui: e non ci basta essere liberi da soli in un mondo di prigionieri”. Il libro di Montesano contiene un atto politico vero e proprio perché l’umanesimo di cui parla si misura solo nel suo rapporto con l’altro e mai in una narcisistica solitudine: solo così i sensi si preparano a un’apertura oggi sempre più necessaria che non confermi pregiudizi ma si interroghi invece in maniera compiuta sull’alterità insita nel nostro mondo.

matteo.moca@gmail.com

M Moca è dottorando in letteratura italiana all’Université Paris Nanterre e all’Università di Bologna