Weltliteratur e World Literature falsi amici

Una riflessione su due concetti chiave della lettura critica

di Edoardo Esposito

dal numero di maggio 2017

I due termini del nostro titolo, che potevano un tempo essere proposti come esempio perfetto della traducibilità delle lingue, costituiscono ormai, e all’opposto, la palmare dimostrazione di come i cosiddetti false friends possano portare ai fraintendimenti più clamorosi. La traducibilità linguistica che infatti potrebbe – e può – continuare tranquillamente a garantire l’equivalenza del Welt goethiano all’odierno World (anche se i due secoli trascorsi hanno certamente mutato l’idea e i confini del “mondo” cui si fa riferimento) viene meno se riflettiamo su quanto sia mutato invece il concetto non tanto (o non così tanto) di “letteratura”, ma quello proprio di “letteratura del mondo”, che tanti preferiscono ormai chiamare “letteratura globale”.

All’argomento è stato appena dedicato un numero della rivista di comparatistica “Letteratura e Letterature”, che tiene conto del dibattito recente rappresentato in particolare da Pascale Casanova (La République mondiale des Lettres, Seuil, 1999), David Damrosch (What Is World Literature? Princeton University Press, 2003), Franco Moretti (Conjectures on World Literature; More Conjectures, in “New Left Review”, 1,2000 e 20,2003), Theo D’haen (The Routledge Concise History of World Literature, Routledge, 2012), Emily Apter (Against World Literature, Verso, 2013); ed è ancora utile rimandare, in proposito, al volumetto di Giuliana Benvenuti e Remo Ceserani La letteratura nell’età globale (Il Mulino, 2012) o a quello a cura di Armando Gnisci, Franca Sinopoli e Nora Moll, La letteratura del mondo nel XXI secolo (Bruno Mondadori, 2010).

Il concetto di World Literature: quali orizzonti?

Ma di che cosa parliamo quando usiamo l’espressione World Literature? Di letteratura, della letteratura “mondiale” (quale che sia il senso di questa espressione) o di un modo di leggere e di interpretare la letteratura (mondiale e no)? L’espressione può riferirsi alla possibilità (apparente, virtuale; certo non effettiva) che, nel mondo globalizzato, ogni libro possa giungere a essere letto dappertutto; o può riferirsi a quella letteratura che, indipendentemente dalle ragioni, riesce effettivamente a essere conosciuta su scala mondiale (ovviamente anche grazie alle traduzioni). Ma mentre la Weltliteratur esprimeva l’ideale di una dimensione umana – o più umana – del vivere, il concetto di World Literature incarna di fatto la resa dell’umano alla cosiddetta globalizzazione, dove l’estendersi dei confini della comunicazione ne consacra non il positivo allargarsi dei rapporti e delle conoscenze, quanto l’avvenuto assoggettamento ai princìpi dell’economia e del profitto, a una dinamica che è quella dell’egoismo e della sopraffazione, e che proprio in questo rivela la sua capacità di “globale” espansione. Perché ciò che si diffonde è soprattutto ciò che è vendibile, ciò che garantisce un riscontro immediatamente economico, ciò che va meglio incontro non alle aspettative più profonde ma alle curiosità più facili. Aggiungiamo necessariamente: ciò che è più facile da tradurre, sia dal punto di vista linguistico che da quello generalmente culturale – il che non garantisce certo, soprattutto sul piano letterario, la qualità dell’opera.

Infine, quando la World Literature si propone come “chiave di accesso” ai testi, pretendendosi come unica metodologia oggi adatta alla dimensione planetaria della comunicazione e della conoscenza che abbiamo del mondo, propone davvero strumenti diversi da ciò che si è sempre usato? È, se non altro, significativamente nuova l’ampiezza di orizzonte che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, la sua consapevolezza analitica?Anche su questo punto è d’obbligo nutrire qualche dubbio, sia perché “l’ampiezza d’orizzonte” resta limitata, oggi come ieri, a quella che il singolo studioso effettivamente possiede, sia perché, se è vero che la circolazione delle opere è oggi molto maggiore di ieri, e mette più facilmente a conoscenza di ciò che succede lontano dalla porta di casa, è anche vero che tale circolazione avviene in una (unica) lingua di traduzione, e che raramente un’opera è accompagnata dalle ragioni e dal dibattito che l’hanno sostenuta – o che vi si sono opposte – nel suo ambito d’origine: il che comporta che essa sia, per tanti aspetti, un’altra opera, e che il dibattito sulla World Literature finisca per essere orientato intorno a questioni genericamente culturali più che propriamente letterarie. Non a caso il dibattito sulla World Literature viene al seguito dello sviluppo delle problematiche dei Cultural Studies, nell’ambito dei quali la specificità della letteratura, che consiste nel ricreare attraverso la parola la complessità e la ricchezza del mondo di cui ci parla, e nel trasmetterci per via non logica ma empatica le chiavi per interpretarlo, viene inevitabilmente a perdersi.

Massimo Fusillo, che è stato presidente dell’Associazione per gli studi di teoria e storia comparata della letteratura, toccando recentemente il problema della World Literature ha sottolineato l’importanza dell’allargamento che ne è risultato dell’“area di studio”, per quanto “complesse e conflittuali” possano risultarne le teorie che vi fanno riferimento, e ha ricordato il ruolo del comparatismo nel portare la letteratura a non essere più “considerata un linguaggio separato” e a rompere la rigida separazione “fra cultura alta e cultura bassa”; ma ha anche riconosciuto che i testi letterari “sono stati usati un po’ troppo negli ultimi tempi come documenti di cultura, e sottoposti a un giudizio ideologico che non ne rende la complessità stratificata” (Letterature comparate, a cura di Francesco De Cristofaro, Carocci, 2014).

Distant reading e traduzione

Di fatto non può essere che così quanto più ci allontaniamo dal linguaggio che propriamente costituisce i testi per affidarci a una distant reading che li riduce a contenitori di temi o a strutture di genere. E mi chiedo come David Damrosch, uno dei pensatori leader della World Literature, possa sostenere che un’opera possa “guadagnare” in traduzione, e che le perdite sul piano stilistico vengano compensate “by an expansion in depth as they increase their range”; mi pare infatti che vengano confusi così due piani del problema: perché è ovvio che sia un guadagno per l’opera il fatto di poter essere conosciuta da un più ampio numero di lettori (anche se non so se sia l’opera a guadagnarci, o i lettori), ma ciò non ha nulla a che vedere con l’indubitabile (non dirò perdita o impoverimento) cambiamento che la traduzione mette in atto e che non permetterà mai di conoscere fino in fondo (e men che meno di approfondire) ciò che è nell’originale. È vero che l’opera tradotta può risultare anche “migliore” dell’originale se ci riferiamo alla sua “leggibilità” e all’inevitabile operazione di acclimatamento, culturale non meno che linguistico, che il traduttore mette in atto, ma quanto più questo processo incide sui caratteri dell’originale tanto più ci troveremo di fronte – e non si tratta di risvegliare il fantasma di Croce – un’opera diversa, che influirà sui suoi lettori per ragioni che dovranno essere imputate allora al traduttore più che all’autore.

Sarà opportuno ricordare, tra l’altro, che negli sconfinati territori della World Literature non è solo il meglio che cresce; anzi, per meccanismi economici ben noti, è spesso il meglio ad avere corso più difficile. Quando Goethe parlava di Weltliteratur pensava al “meglio” della letteratura, dovunque essa nascesse, ed è a questo “meglio” che deve essere tesa la nostra attenzione anche oggi. È giusto studiare tutto e dare finalmente spazio e voce a chi per troppo tempo non l’ha avuta, ma non dimentichiamo poi che su questo tutto è opportuno esprimere un giudizio e che la comparazione a cui ci richiamiamo è necessaria proprio a indicare la direzione e le proporzioni dei fenomeni che osserviamo. Vediamo susseguirsi, accavallarsi e confondersi, sul piano critico, modalità che, nonostante l’originalità delle etichette di cui si fregiano, sono prive di fondamenti metodologici saldi e finiscono per promuovere un eclettismo alla fine sterile. È vero che non bisogna restare arroccati sui bastioni delle gerarchie tradizionali, ma non è il nuovo ad ogni costo che deve costituire il nostro obiettivo, bensì la capacità di salire su quei bastioni per guardare più lontano.

edoardo.esposito@unimi.it

E Esposito insegna letterature comparate all’Università di Milano