L’azzardo metodologico delle analogie necessarie
recensione di Adelino Zanini
dal numero di ottobre 2015
Angus Deaton è un economista scozzese. Ha ottenuto il Premio Nobel per l’Economia 2015
Angus Deaton
LA GRANDE FUGA
Salute, ricchezza e origini della disuguaglianzaÂ
ed. orig 2013, trad. dall’inglese di Paola Palminiello
pp. 381, € 28
Il Mulino, Bologna 2015
Lavoro importante, ben scritto, chiaro, problematico, capace di affrontare le questioni connesse alla diseguaglianza presente nelle societĂ odierne senza ricorrere a geremiadi e senza indulgere in moralismi vieti. I giudizi dei recensori dell’edizione americana del liÂbro di Angus Deaton sono stati per lo piĂą concordi. Oggetto d’indagine è la “grande fuga” del genere umano dalla deprivazione e dalla morte precoce, dunque, l’insieme delle azioni e delle iniziative con cui uomini e donne sono riusciti, generazione dopo generazione, a rendere le proprie esistenze meno aspre e dure, aprendo la strada a chi sarebbe venuto dopo di loro. Meno aspre, cioè migliori in termini comparati, tenendo conto che fuggire dalla miseria non significa solo possedere piĂą denaro, potere d’acquisto, bensì anche, e soprattutto, disporre di una salute migliore e di migliori aspettative di vita per sĂ© e per i propri figli.
La “grande fuga” descrive quindi un processo giĂ realizzatosi in occidente (perchĂ© illuminismo, rivoluzione industriale, teoria microbica delle malattie, sono eventi occidentali) e i cui effetti si sono certamente diffusi nel mondo intero; un processo che non può essere analizzato adeguatamente senza riconoscere che la storia del benessere sin qui raggiunto può essere narrata solo abbracciando l’insieme di fattori che hanno reso la vita migliore e sempre piĂą degna di essere vissuta. Un processo, infine, che non coincide affatto con la storia della ricchezza, a cui sia da affiancarsi quella della diseguaglianza a essa relata. Non solo perchĂ© la ricchezza non può essere espressa ricorrendo sempliceÂmente a indicatori economici (la cui valenza è peraltro spesso parziale, quando non tecniÂcamente dubbia), quanto perchĂ© la storia del progresso è anche storia intessuta di diseÂguaglianze e generata dalla spinta proprio da esse impressa.
La “grande fuga” rappresenta altresì un modello: che il processo possa ripetersi è inÂfatti auspicabile – osserva Deaton –, quantunque nient’affatto certo. Si può cioè sperare che l’indigenza incoraggi il desiderio sempre presente di fuggire e la ricerca di “sistemi nuovi per colmare i divari, se non altro perchĂ© l’esistenza di persone non indigenti dimoÂstra che la deprivazione non è inevitabile”. E sebbene il pianeta sia oggi immensamente piĂą disuguale di quanto fosse trecento anni fa, nessuno potrebbe avanzare la bizzarra idea che si stesse meglio quando si stava tutti peggio. La palese assurditĂ di un tale paradosso balzerebbe agli occhi quando si considerasse, ad esempio, che nessun paese registra oggi una mortalitĂ infantile pari a quella degli anni cinquanta del secolo scorso e che un bamÂbino “che nasca oggi in Cina o in India (paesi che nel 2005 contavano insieme piĂą di un terzo della popolazione mondiale e quasi la metĂ di quella piĂą povera) può aspettarsi di vivere rispettivamente per 73 e 64 anni”, considerazione la cui rilevanza si mostra quando ci si riferisca, ovviamente, al numero di abitanti del pianeta, non al numero di paesi.
PerchĂ©, tuttavia, la qualitĂ di vita dei paesi piĂą poveri non è cresciuta piĂą rapidamente di quella dei paesi piĂą ricchi? PerchĂ© le conoscenze epidemiologiche acquisite e divulgate da metĂ Ottocento in poi non sono bastate a generare una catena di “fughe”? Detto in breve, all’evoluzione del reddito – la quale spiega molto, ma non tutto, rispetto ad esemÂpio al controllo dei vettori che trasmettono malattie e alla razionalizzazione dei sistemi atti a bloccarli – non è necessariamente legata la diffusione delle conoscenze, i loro frutti in campo medico, la consapevolezza di ciò che è necessario fare e di chi dovrebbe farlo – per tacere della volontĂ di farlo, ossia della scala di prioritĂ politiche di un determinato paese, del livello di democrazia in esso presente, della corruzione diffusa o meno, etc. A fare la differenza è quindi la conoscenza partecipata, il suo impiego, la sua diffusione. Fattori certo non disgiungibili dalla povertĂ , ma neppure vincolati alla sola crescita, i cui benefici, del resto, si possono distribuire in modi differenti entro lo stesso paese.
Ciò richiede la necessaria accortezza nell’interpretazione delle interrelazioni tra i dati, e in ciò Deaton porta un contributo notevole. All’incessante problematicitĂ può però conseguire anche una sorta di circolo vizioso, come accade, ad esempio, quando l’autore, dopo molte pagine di raffinate analisi, sottolinea, con illuministico stupore, il fatto che molti cittadini africani antepongono, ancor oggi, la lotta alla povertĂ o alla disoccupaÂzione allo stato di salute, dimostrando di non avere “ancora compreso che la fuga è possiÂbile o che accedere a cure sanitarie di qualitĂ può essere una via verso la libertà ”. Questo perchĂ© il modello “grande fuga” non funziona lĂ dove la volontĂ di fuggire non sia sorÂretta dalla conoscenza; quest’ultima, tuttavia, richiede a sua volta adeguate strutture, per le quali sono necessari tempo, denaro, democrazia e conoscenza. D’altra parte, se così non fosse, non si potrebbe dire quello che Deaton dice, ossia che un “mondo migliore produce un mondo di differenze; le fughe creano diseguaglianze”.
Ebbene, a chi sia riuscito di fuggire incombe una responsabilitĂ verso coloro che sono rimasti indietro? A livello di singolo paese, la disuguaglianza può “orientare o incoragÂgiare coloro che sono rimasti indietro”, ma può diventare così profonda “da inceppare la crescita e compromettere il funzionamento stesso del sistema economico”. Del resto, nemmeno l’uguaglianza delle opportunità “conduce necessariamente a risultati indiscutiÂbilmente conformi a giustizia”, giacchĂ© è la disuguaglianza a essere d’ostacolo alla reaÂlizzazione di opportunitĂ eguali e i due fenomeni tendono a procedere insieme, come mostrano gli Stati Uniti, ove peraltro tali opportunitĂ sono lungi dall’essere effettivaÂmente tali. A livello globale, comunque, le sperequazioni maggiori sono dovute in larga parte alle differenze tra paesi. Quindi, il quesito sopra posto andrebbe riformulato, al fine di comprendere “se sia davvero opportuno curarsi della disuguaglianza nel mondo, ed eventualmente perché”.
Al riguardo, prima osservazione da farsi, secondo Deaton, è che non esistono istituÂzioni di governo sovranazionali a cui i cittadini debbano lealtĂ e le quali siano dunque teÂnute a “correggere le diseguaglianze internazionali che dovessero apparire ingiuste”. La stessa misurazione di tali disuguaglianze tra paesi diversi non è statisticamente realizzata o affidabile. Non di meno, istituzioni internazionali quali l’Organizzazione mondiale del commercio e la Banca mondiale sono artefici di politiche che incidono sui redditi di molti abitanti del pianeta. Si può quindi concludere che “la loro capacitĂ di fare del bene o cauÂsare danni rappresenta di certo una buona ragione perchĂ© le si incarichi se non altro di monitorare la distribuzione dei redditi”.
Monitorare non equivale però a intervenire per aiutare. Di nuovo, un vero e proprio circolo vizioso – dilemma, dice l’autore – si profila, giacchĂ©, se in un determinato paese povero le condizioni indispensabili allo sviluppo fossero presenti, gli aiuti non sarebbero necessari; se invece le condizioni locali fossero avverse alla crescita, gli aiuti sarebbero inefficaci. Ma c’è di piĂą: secondo Deaton, gli aiuti allo sviluppo risultano per lo piĂą inuÂtili allo scopo, perchĂ© non è loro fine quello di eliminare la povertĂ globale. Nella magÂgior parte dei casi, a indirizzarli sono infatti gli interessi di politica estera (e/o commerÂciale) dei paesi donatori. Non poca importanza hanno poi la diversione dei fondi messa in atto dai paesi riceventi, i conflitti burocratici tra agencies internazionali e, di nuovo, l’effetto paradosso che le politiche di sostegno internazionale potrebbero generare. Non è infatti del tutto chiaro se nel corso degli ultimi cinquant’anni gli aiuti abbiano sostenuto o ostacolato la lotta alla povertĂ . A non funzionare, in sostanza, sarebbe la cosiddetta “concezione idraulica”, secondo cui gli aiuti che defluiscono dai paesi ricchi dovrebbero assicurare a quelli poveri un’opportunitĂ certa di sviluppo. Viceversa, spesso risultano esÂsere addirittura causa di turbamento del funzionamento delle istituzioni locali, quando non una minaccia esplicita alla democrazia presente nei contesti piĂą promettenti.
Il quesito circa l’opportunitĂ di curarsi o meno della disuguaglianza nel mondo pare perciò essere parte indisgiungibile del problema. Semplicemente, non tocca “a noi” interÂvenire, nessuno ci ha affidato quest’incarico, osserva Deaton. Dobbiamo farci da parte, lasciare che i paesi poveri se la cavino da soli, smettere di fare ciò che ne ostacola la “fuga”. Tesi discutibile, non necessariamente condivisibile o, viceversa, sacrosanta e coraggiosa? Forse, anche una tale domanda sarebbe francamente riduttiva rispetto alla problematica ricchezza del libro di Deaton. La questione da sollevarsi sembra casomai un’altra. Quale che sia l’efficacia retorica del modello “grande fuga” e per quanti siano gli aspetti morali a cui esso semplicemente si sottrae, non può sfuggire l’azzardo metodologico che implica. Che non è dovuto tanto al non saper prevedere il modo in cui altre “fughe” si produrranno (come osservato dallo storico economico John Parman), quanto al piĂą semplice fatto di trascurare del tutto ciò che comporta il “salto di paradigma” implicito nell’ipotizzare, analogicamente, che esse possano ripetersi “là ”, poichĂ© giĂ una volta sono state possibili “qua”. Una sorta di “occidentalismo”, o un piĂą banale attaccamento alla potenza evocativa del film di John Sturges?
a.zanini@univpm.it
A Zanini insegna filosofia politica all’Università politecnica delle Marche