Balibar, la caduta dell’Europa ordoliberale e il tempo dell’interregno

Contropopulisti transnazionali, unitevi!

di Ida Dominijanni

dal numero di marzo 2017

Scrive Roberto Esposito (Da fuori, Einaudi 2016) che nel corso della sua storia l’Europa ha sempre risolto – o tagliato – i nodi aggrovigliati della sua identità sporgendosi su un “fuori”, o in forza dell’irruzione di un “fuori” nei suoi confini. L’accelerazione impressa alla crisi europea dall’elezione di Donald Trump alla presidenza americana sembra confermare questa tesi, avvalorata del resto, e a maggior ragione, dall’impatto esplosivo sulle nostre democrazie di un altro fuori, quello delle masse di rifugiati e migranti che non smettono di riversarsi nel vecchio continente a dispetto dei muri innalzati, o minacciati o fantasticati, contro di loro. Senonché si tratta, in entrambi i casi, di due “fuori” per modo di dire, che emergono in realtà dentro l’Europa, se è vero che Trump è il corrispettivo americano delle derive nazional-protezioniste che minacciano dall’interno la costruzione dell’Unione, e che l’immigrazione è l’effetto della sciagurata storia del colonialismo e della politica mediorientale europee.

Etienne BalibarSì che si potrebbe ipotizzare, portando alle estreme conseguenze la tesi di Esposito, che se l’Europa di oggi non scioglie e non taglia i suoi nodi interni è perché nel mondo globale un fuori non c’è più: qualunque esterno è anche un interno, il primo confine a saltare essendo precisamente quello fra fuori e dentro. Tanto più nel caso dell’Europa: un continente che non ha frontiere ma è essa stessa una frontiera, porosa, in cui irrompono tutte le contraddizioni della globalizzazione. Una borderland, come la definisce Étienne Balibar in Crisi e fine dell’Europa? (ed.  orig. 2016, trad. dal francese di Fabrizio Grillenzoni, pp. 334, € 17, Bollati Boringhieri, Torino 2016), un volume che raccoglie i suoi interventi sulla crisi della costruzione europea scritti nel vivo degli eventi degli ultimi sei anni: prima fra tutti, per il suo carattere sintomatico, la crisi greca, ma anche quella italiana del 2011, quella innescata dalla brexit, quella in cui si dibatte la Francia duramente provata dal terrorismo. Una lettura filosofica della cronaca che sviluppa le categorie già elaborate da Balibar in precedenza (cfr. almeno Noi, cittadini d’Europa?, manifestolibri, 2004 e La Proposition de l’égaliberté, Puf, 2010), smontando le contraddizioni e le ripetizioni in cui il dibattito pubblico sui destini dell’Europa resta impantanato mentre si celebra il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma.

Che si prospetti per la Ue un futuro a due velocità come ha fatto di recente Angela Merkel, o che si reagisca al protezionismo di Trump ribadendo l’intangibilità dell’impianto liberoscambista dei trattati come ha fatto Mario Draghi, non cambia infatti la lingua, interamente contrassegnata dal codice economico, del discorso europeista mainstream. Manca la prospettiva storica, e con essa l’autocritica della politica: la sequenza delle tre fasi della costruzione europea (dalla Ceca alla crisi petrolifera del 1973, dal 1973 all’unificazione tedesca nel 1990, dall’allargamento a Est alla crisi economico-finanziaria del 2007) mostra infatti in modo incontrovertibile il sodalizio fra economia e politica che ha dato all’Europa il profilo ordoliberale che tuttora la connota, spostandone progressivamente l’asse dal welfare e dalle costituzioni del dopoguerra al principio della concorrenza fra stati e fra popolazioni, un principio diventato dogma dopo il crollo del socialismo reale e puntellato nell’ultimo decennio dal ricatto del debito e dalla disciplina dell’austerità (si veda, su questa sequenza storica e sul ruolo giocato al suo interno dall’ordoliberismo nell’imporre l’egemonia del modello tedesco, il recente Rottamare Maastricht, a cura di Leonardo Paggi, Deriveapprodi, 2016).

Manca soprattutto, nel discorso europeista mainstream, il criterio democratico come metro di misura dello stato dell’Unione. Che è invece il criterio centrale del discorso di Balibar, dove la malattia dell’Europa ha un nome preciso, deficit di legittimazione democratica, e si può curare solo con un movimento di democratizzazione che coinvolga contemporaneamente la dimensione nazionale e quella sovranazionale, e travolga quei confini esterni e interni, territoriali, nazionali, identitari, che le attuali derive sovraniste puntano invece a ripristinare. Intendiamoci, “democrazia” è oggi, come tutti i lemmi del lessico politico moderno, una parola usurata e scivolosa, e infatti Balibar ci mette subito in guardia dall’uso contraddittorio che può esserne fatto nel tempo in cui i concetti correlati di “politica”, “stato”, “rappresentanza” rinviano a realtà in profonda e ambivalente trasformazione. Si tratta perciò di ripensare, anzi di reinventare la democrazia europea guardando senza paraocchi questa trasformazione.

Che cos’è oggi, intanto, l’Unione europea, la sua costituzione formale e materiale? E che cos’è la crisi del progetto europeo? Si tratta di una crisi, o piuttosto di una fine? “La fine è già avvenuta”, scrive senza infingimenti Balibar: nelle sue forme attuali, l’Europa è diventata di fatto ingovernabile, perché se per un verso non è mai decollata la costruzione istituzionale di una democrazia sovranazionale, per l’altro verso la governance neoliberale che ha preteso di sostituirla non riesce più a imporsi come “rivoluzione dall’alto” su un continente devastato dalla crisi economica, sociale, politica. All’esito dei suoi sessant’anni di storia, l’unione (non) è governata da un potere occulto e informale, “introvabile”, con una Commissione incapace di iniziativa politica e di mediazione, un parlamento senza voce, un Eurogruppo privo di legittimità formale: un regime post-democratico, come lo ha definito Jürgen Habermas, senza rappresentanza, partecipazione e controllo dei cittadini; uno “pseudo-federalismo” con la faccia odiosa di uno statalismo senza stato, incapace di contenere le potenti spinte disgregatrici innescate dalle crisi del debito e dei migranti. Due crisi interconnesse, perché se la prima porta a compimento la precarizzazione delle società nazionali realizzata da decenni di politiche neoliberiste, la seconda canalizza questo disfacimento del legame sociale nella guerra degli insider contro gli outsider, degli inclusi contro gli esclusi, dei nativi contro i nomadi.

La radiografia dell’Europa restituisce dunque un processo accelerato di de-democratizzazione, per usare un termine caro a una studiosa americana del neoliberalismo e dei suoi effetti come Wendy Brown (Undoing the Demos, Zone Books, 2015). E l’invocazione del demos europeo, che ha accompagnato i tentativi minoritari e fallimentari di dare all’Unione un assetto istituzionale coerente con il costituzionalismo dei paesi fondatori, suona oggi fuori tempo massimo: il demos europeo manca perché ne è stata programmaticamente impedita la costruzione dalla “lunga resistenza conservatrice” che ha concepito l’Unione come una macchina tecnocratica alimentata dal carburante neoliberista, una macchina che ha disfatto i popoli nazionali cementati dallo stato sociale novecentesco impedendo al contempo – fra l’altro con l’assenza di politiche formative, prima fra tutte una politica di apprendimento e socializzazione delle lingue – la crescita di un popolo sovranazionale in grado di esercitare un qualche controllo dal basso sulla macchina di Bruxelles. Sì che oggi il problema si presenta rovesciato: la costruzione del demos europeo resta all’ordine del giorno, ma deve confrontarsi con i populismi neo-sovranisti e neo-nazionalisti che pretendono di ripristinare l’allineamento fra popolo, nazione e stato spezzato irreversibilmente dalla globalizzazione.

La democratizzazione dell’Europa, “l’invenzione democratica” che Balibar auspica, deve dunque passare attraverso due mosse preliminari, concettuali e politiche. La prima: separare l’istanza popolare di voce, rappresentanza e partecipazione dalla connotazione nazionalista e xenofoba che essa assume nei movimenti populisti e nazionalisti che oggi affollano la scena europea, contrapponendo a questi ultimi un contropopulismo – così lo chiama Balibar – transnazionale, cioè una mobilitazione di cittadinanza attiva imperniata non sul ripristino ma sull’attraversamento dei confini, dove si gioca oggi – con i migranti da un lato e con l’internazionalizzazione necessaria delle lotte per il lavoro, l’ambiente, i diritti dall’altro – il vero allargamento demografico e democratico dell’Unione.

La seconda mossa consiste nello smontare la falsa opposizione fra il federalismo degli europeisti e il sovranismo degli antieuropeisti: due discorsi immaginari, il primo perché si appella a un federalismo a venire rimuovendo i guasti dello pseudofederalismo realizzato, il secondo perché coltiva l’illusione di uno stato nazionale tuttora garante della cittadinanza sociale, laddove esso funziona ormai “come spettatore impotente del suo degrado o come strumento zelante della sua decostruzione”. L’idea di un ritorno alla sovranità nazionale, agitata oggi da destra e da sinistra come via d’uscita dalla gabbia dell’Unione, è dunque infondata e pericolosa: dalla costruzione europea, per quanto impantanata essa sia, non si torna indietro (come non si torna indietro dalla moneta unica: “l’euro ordoliberista distrugge l’Europa, l’abolizione dell’euro la distruggerebbe ugualmente”).

Il vecchio continente si trova dunque oggi nella situazione che Gramsci, ricorda Balibar, avrebbe definito “di interregno”, in cui il vecchio muore ma il nuovo stenta a nascere. Spostare all’indietro le lancette dell’orologio è illusorio, così come è illusorio, a livello mondiale, sperare che sia una improbabile de-globalizzazione a risolvere i problemi del mondo globale. Restare fermi significa arrendersi alla deriva di auto-dissoluzione dell’Unione, alimentata dai “fronti del rifiuto” che crescono al suo interno. È necessario un salto in avanti: non meno ma più Europa, ma non un di più di questa Europa. Ancora non si vede all’orizzonte il soggetto politico in grado di assumersene la sfida, eppure “un’altra Europa, solidale e democratica, è possibile”, vive nei movimenti di resistenza alla disciplina del debito e dell’austerità, ed è “fra gli strumenti di cui abbiamo bisogno per agire controcorrente nella e sulla globalizzazione”.

ida.dominijanni@gmail.com

I Dominijanni è giornalista e filosofa