Come le democrazie costituzionali danno parvenza di legittimità ai loro campi


In nome della sicurezza dei buoni cittadini

di Pietro Costa

dal numero di dicembre 2018

Che il Novecento sia il “secolo dei campi” (come afferma il titolo di un celebre libro che ne ricostruisce la storia complessiva) può sembrare un giudizio troppo perentorio. In ogni caso, è impressionante la diffusione dei campi lungo tutto l’arco del secolo scorso (e anche agli inizi del terzo millennio): nei più vari contesti viene fatto ricorso a una strategia di governo che relega un numero elevato di individui in spazi rigidamente delimitati, li esclude dal contatto con la popolazione e li assoggetta a regole e a condizioni di vita specifiche: li concentra in un luogo esclusivo; ed è proprio alla concentrazione di masse di individui in uno spazio confinato che fa riferimento il nome correntemente usato agli inizi del secolo: “campi di concentramento”.
La loro storia è essenzialmente novecentesca (potremmo al massimo indicare qualche precedente nella guerra di secessione negli Stati Uniti d’America). I campi compaiono nelle guerre coloniali (a Cuba, nel 1896-98, nel Sud-Africa – nella guerra inglese contro i boeri – e nel territorio dell’attuale Namibia, nella guerra condotta dalla Germania contro gli Herero). Per un loro massiccio impiego in Europa occorre attendere la prima guerra mondiale, quando tutti i paesi belligeranti ne fanno uso nei confronti non soltanto di soldati nemici, ma anche di civili ritenuti a vario titolo pericolosi per la sicurezza nazionale. La fine della guerra non significa però l’esaurimento dell’esperienza concentrazionaria, che anzi conosce una parossistica e drammatica intensificazione nella Russia sovietica e nella Germania nazionalsocialista, tanto da divenire un tratto emblematico dei due regimi. La sconfitta del nazionalsocialismo e del fascismo, con la seconda guerra mondiale, non basta però a decretare la fine dei campi. In Unione Sovietica l’arcipelago gulag (come lo chiamerà Solženicyn) persiste senza rilevanti differenze e, fuori d’Europa, i campi di concentramento (pensiamo ad esempio alla Cina e alla Cambogia) saranno massicciamente impiegati con effetti non meno drammatici. Certo, la diffusione delle democrazie costituzionali pone un argine decisivo all’impiego degli strumenti concentrazionari, ma non ne decreta la definitiva sparizione. Già nel secondo dopoguerra le democrazie vincitrici del conflitto ricorrono al campo per governare (proteggere e al contempo controllare) i milioni di individui che la guerra aveva sradicato dal loro paese di origine. Quell’emergenza finisce, ma il fenomeno delle displaced persons (le persone che fuggono da scenari di guerra e di distruzione e cercano rifugio altrove) torna a presentarsi con varia intensità nel secondo Novecento, fino a oggi.
L’intero secolo dunque (in Europa e in altre parti del mondo) è costellato da esperienze concentrazionarie. Basta questa constatazione a fare del Novecento il secolo dei campi? La risposta non è semplice perché l’impressionante disseminazione dei campi si accompagna alla varietà dei contesti e delle finalità perseguite. Valga a riprova una rapida rassegna, senza alcuna pretesa tipologica.

Le esperienze concentrazionarie, strumenti di terrore e restrizione

I campi, come ricordavo, nascono in scenari di guerra: nelle guerre coloniali, prima, e poi nella prima guerra mondiale; una guerra totale, assoluta, che coinvolge la nazione nella sua totalità, relativizza la distinzione fra soldati e civili, vuole una massa docile e omogenea e a questo scopo appronta le più efficaci strategie di governo, da un lato, sviluppando una retorica che dipinge il nemico come un essere inferiore e spregevole e, dall’altro lato, rafforzando l’esecutivo, riducendo le garanzie e contraendo i diritti.
Fra guerre coloniali e guerra mondiale, dunque, i campi sono strumenti di lotta contro il nemico, esterno e interno. Non appena però, negli anni venti e trenta, prendono forma i regimi che chiamiamo totalitari, il campo perde la sua diretta connessione con le operazioni militari e diviene uno strumento di governo attraverso il terrore, funzionale all’eliminazione dell’avversario politico e del “nemico di classe” (come nel regime sovietico) o del “nemico della razza” (come nel regime nazionalsocialista). Il campo mantiene tratti riconoscibili e già sperimentati (l’inferiorizzazione del nemico, la disumanizzazione dell’internato, la contrazione dei diritti), ma li esaspera fino a condurli agli esiti più estremi (anche se non mancano precedenti impieghi genocidari del campo, ad esempio da parte del generale Lothar von Trotha nei confronti degli Herero).

Non tutti i campi sono eguali, dunque, anche se tutti condividono l’indebolimento dei diritti e l’avvilimento dei soggetti, fino all’acme raggiunta nei totalitarismi. Se ciò è vero, sarebbe ragionevole attendersi che le democrazie costituzionali, che nel secondo dopoguerra costruiscono i loro ordinamenti in diretta contrapposizione ai regimi totalitari sconfitti, imponessero una definitiva battuta di arresto a quella che è stata chiamata la “forma-campo”.
In realtà, i campi (come ricordavo) continuano a esistere anche nel secondo Novecento: non soltanto nelle dittature e nei regimi autocratici, ma anche nelle democrazie. Cambiano però nettamente le finalità e, in parte, le caratteristiche. Nelle democrazie i campi sono stati e sono adibiti non tanto alla conduzione di operazioni militari (anche se non dobbiamo dimenticare le attività antiterroristiche e l’esempio di Guantánamo), quanto al governo di persone che battono alla porta dell’uno o dell’altro stato cercando ammissione e rifugio. Quando la pressione migratoria aumenta di intensità (come è avvenuto in anni recenti), si rafforza la tendenza alla predisposizione di strutture riconducibili alla “forma-campo”.

In molti paesi e in diverse zone del mondo si è fatto ricorso a interventi coattivi che si traducono nella concentrazione dei migranti in uno spazio rigorosamente delimitato e separato. L’immaginazione burocratica (particolarmente vivace in Italia) ha attribuito a queste strutture nomi sempre diversi, ma la loro finalità e le loro caratteristiche essenziali non mutano in modo rilevante. Tornano a presentarsi, nei centri di detenzione dei migranti, alcune caratteristiche ricorrenti (già ravvisabili nelle esperienze concentrazionarie della prima guerra mondiale): la relegazione coattiva di persone in uno spazio rigidamente delimitato; le restrizioni (più o meno severe) delle libertà e dei diritti degli internati, pur in assenza di una loro responsabilità penale; la separazione netta fra il “dentro” e il “fuori”, fra i soggetti detenuti e la popolazione.

Stato di diritto e legittimazione dei campi nelle democrazie costituzionali

Già negli anni della prima guerra mondiale il problema della compatibilità dei campi con i capisaldi dello stato di diritto poteva essere posto. La legittimazione dei campi faceva leva sull’antico argomento della necessità: di fronte all’estremo pericolo, interviene lo “stato di eccezione”, che autorizza, in nome della salus populi, la sospensione delle garanzie e l’affievolimento dei diritti. Con le democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, però, il vecchio Rechtsstaat ottocentesco si è trasformato in uno stato di diritto costituzionale che fa del rispetto dei diritti fondamentali la condizione di legittimità del potere politico; e questi diritti, a loro volta, coincidono in buona parte con i diritti umani che, da un lato, sono il perno dell’ordinamento internazionale (a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, del 1948) e, dall’altro lato, sono l’obbligato punto di riferimento del processo di unificazione europea. In questa cornice, sembrerebbe assicurato il rispetto dei diritti fondamentali non soltanto del cittadino, ma dell’essere umano come tale.

È vero però che resta in piedi il principio (internazionalmente riconosciuto) secondo il quale ogni stato dispone del pieno controllo sui propri confini. Basta allora proporre un’esasperata interpretazione di questo principio per attribuire ai campi (in Italia, in Europa, nel mondo) una parvenza di legittimità. Ancora una volta, l’invocazione di un (immaginario) “stato di necessità” induce a dimenticare che il trattenimento di individui – la loro concentrazione in un luogo separato e confinato, la privazione della loro libertà – è una sorta di “detenzione amministrativa”, che contraddice i principi basilari dello stato di diritto; e che le garanzie processuali dei soggetti “trattenuti” vengono variamente indebolite, a vantaggio di una prassi di governo essenzialmente esposta al rischio dell’arbitrio. Il campo finisce per avere regole proprie, che lo rendono un microcosmo separato ed eccezionale.
Luogo dell’eccezione, il campo svolge una funzione importante sul terreno della comunicazione sociale, presentandosi come la più eloquente conferma di una retorica pubblica largamente diffusa: una retorica che esaspera la contrapposizione fra “noi” e “loro”, fra i cittadini e i non cittadini, coltiva la strategia del sospetto nei confronti delle alterità, reclama l’irrigidimento dei confini. Della loro invalicabilità il campo vuole essere strumento ed emblema. E può esserlo ancora più efficacemente quando i confini vengano “esternalizzati”, posti al di fuori del territorio del paese. Collocato a tutela di confini invisibili, il campo (in Libia, in Turchia o nell’isola di Manus) diviene a sua volta invisibile: continua a offrire una (simbolica) sicurezza ai buoni cittadini e al contempo copre, con il velo della distanza, quelle violazioni dei diritti che, se compiute nel cortile di casa, potrebbero ancora turbare qualche anima bella.

pietro.costa@unifi.it

P Costa è professore emerito di storia e filosofia del diritto all’Università di Firenze

I libri

  • Eliana Augusti, Antonio M. Morone, Michele Pifferi (a cura di), Il controllo dello straniero. I “campi” dall’Ottocento a oggi, Viella, Roma 2017
  • Silvia Salvatici, Nel nome degli altri. Storia dell’umanitarismo internazionale, il Mulino, Bologna 2015.
  • Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, il Mulino, Bologna 2014
  • Giuseppe Campesi, La detenzione amministrativa degli stranieri. Storia, diritto, politica, Carocci, Roma 2013
  • Caterina Mazza, La prigione degli stranieri. I Centri di Identificazione e di Espulsione, Ediesse, Roma 2013
  • Daniel Wilsher, Immigration Detention. Law, History, Politics, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2012
  • Jonathan Hyslop, The Invention of the Concentration Camp: Cuba, Southern Africa and the Philippines, 1896–1907, in “South African Historical Journal”, 63, 2 (2011)
  • Daniela Luisa Caglioti, Dealing with Enemy Aliens in WWI: Security Versus Civil Liberties and Property Rights, in “Italian Journal of Public Law”, 3, 2 (2011)
  • Felice Mometti, Maurizio Ricciardi (a cura di), La normale eccezione. Lotte migranti in Italia, Alegre, Roma 2011
  • Pietro Basso (a cura di), Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, FrancoAngeli, Milano 2010
    Alessandra Sciurba, Campi di forza. Percorsi confinati di migranti in Europa, ombre corte, Verona 2009
  • Marc Bernardot, Camps d’étrangers, Éditions du Croquant, Broissieux 2008
  • Luciano Nuzzo, Le anticamere del diritto. Ordine politico ed eclissi della forma giuridica, Pensa, Lecce 2008
  • Silvia Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, il Mulino, Bologna 2008
  • Gianluca Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali. L’esperienza italiana tra storia costituzionale e prospettive europee, Jovene, Napoli 2007
  • Iside Gjergji, Espulsione, trattenimento, disciplinamento. Il ruolo dei CPT nella gestione della forza lavoro clandestina, in “DEP”, 5-6 (2006)
  • Giovanna Procacci, L’internamento di civili in Italia durante la prima guerra mondiale. Normativa e conflitti di competenza, in “DEP”, 5-6 (2006)
  • Federica Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, ombre corte, Verona 2003
  • Joel Kotek, Pierre Rigoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio 1900-2000, Mondadori, Milano 2001