Paolo Di Motoli – I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all’egemonia

 

Paolo di Motoli
I mastini della terra. La destra israeliana dalle origini all’egemonia

prefaz. di Sergio Romano,
pp. 400, € 21,50,
Fuoriscena, Milano 2025

La saldatura fatale tra messianismo e nazionalismo

di Anna Foa

La versione più diffusa della storia di Israele è quella di un paese sostanzialmente laico e socialista, fondato sull’esperienza comunitaria del kibbutz, caratterizzato a un certo punto della sua storia, prima nel 1977 e poi alla fine degli anni novanta, dall’emergere di un sionismo religioso e nazionalista, che avrebbe negli ultimi vent’anni dato origine alle forme razziste ed estreme del più recente governo di Benjamin Netanyahu.

In realtà, le radici del sionismo religioso, sia pur in forma molto diversa da questa, appartengono già ai primi momenti dell’esperienza sionista, mentre un sionismo nazionalista si sviluppa già negli anni venti del Novecento. È un’ideologia assai vicina al nazionalismo delle destre europee di quegli anni e perfino a quella del fascismo italiano. Il padre di questo sionismo, detto “revisionista” perché si proponeva una rivisitazione del sionismo dei decenni precedenti, fu un ebreo di Odessa, Vladimir Ze’ev Jabotinsky. E questo ultimo libro di Paolo Di Motoli traccia la storia del nascere della destra sionista e dei successivi movimenti che ne traggono origine pur differenziandosene: da quello che fa capo a Menachem Begin a quello ancora più radicale di oggi.

Sono movimenti diversi, che si ispirano a modelli diversi di nazionalismo, e che appartengono a momenti assai diversi della storia di Israele, prima e dopo la fondazione dello Stato. Di Motoli ne traccia con attenzione e rigore documentario lo sviluppo, cogliendone tanto le ispirazioni comuni quanto le differenze nel tempo e tracciando così una storia di Israele in molta parte diversa dalla sua immagine più comune e diffusa. Una storia in cui il sionismo nazionalista ha una parte non marginale, sia nei decenni che precedono la fondazione dello Stato sia nei conflitti politici dell’era di Ben Gurion, per poi approdare totalmente trasformato, dopo il 1967 e la guerra dei sei giorni, a candidarsi alla leadership dello Stato, da cui i laburisti lo avevano fino ad allora tenuto lontano. In questa immagine la guerra dei sei giorni e l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania giocano un ruolo importante di trasformazione della precedente lotta politica e offrono un quadro in divenire di cui, più che nel sionismo ancora liberale di Jabotinsky, si possono trovare molte tracce nell’attuale destra israeliana.

Ampia parte del volume è dedicata alla figura di Jabotinsky, un personaggio di grande rilievo, e non privo di contraddizioni. Aveva una visione militarista della battaglia per la creazione dello Stato ebraico, ma considerava comunque necessaria una convivenza, benché non priva di forza, con gli arabi. Molto vicino alle suggestioni del fascismo italiano, anche dal punto di vista economico in cui sosteneva una forma di corporativismo, era anche profondamente influenzato dall’esperienza politica autoritaria del leader polacco Józef Piłsudski. Negli anni immediatamente precedenti la guerra, in Europa, il movimento giovanile che dipendeva dal suo gruppo, il Betar, riuscì a organizzare migliaia di giovani militanti in formazioni paramilitari. Jabotinski morì nel 1940 lasciando suoi successori Menachem Begin e Yitzhak Shamir, ambedue in gioventù membri del Betar, ambedue legati all’ala più estremista e terroristica della destra revisionista, ambedue successivamente capi del governo e, con Ariel Sharon, figure di primo piano della politica dello Stato.

La guerra dei sei giorni è davvero una svolta decisiva nella storia della destra israeliana e della sua lenta ascesa al potere. Se i politici laburisti, e in primo luogo Ben Gurion, assai ostile anche personalmente a Begin, furono molto attenti a evitare un suo riconoscimento politico, il 1967 cambiò decisamente le carte in tavola. Nell’analisi di Di Motoli una larga parte è dedicata al dibattito politico che segue l’occupazione. Che fare di queste conquiste superiori al previsto? Come gestire l’occupazione? Storici e politici di ispirazione laburista hanno nel tempo sottolineato come Israele fosse sì riuscita nel 1967 a vincere la guerra, ma non a vincere la pace. Le ultime vicende sembrano cambiare ulteriormente il quadro d’insieme, e oggi purtroppo l’unica pace che si prospetta da parte del governo israeliano è una pace fondata sulla supremazia degli ebrei e sulla pura e semplice annessione dei territori occupati.

Il 1967 rappresenta anche uno spartiacque fondamentale per l’emergere di una destra, quella dei coloni, in cui la saldatura fra messianismo religioso e nazionalismo diventa definitiva. La strategia della creazione di colonie per mantenere il territorio era già stata parte della politica dei laburisti, ma diventa ora fondamentale, in particolare con il primo governo Begin nel 1977, a conclusione della grave crisi del partito laburista, fino ad allora al potere: un governo di cui l’autore analizza attentamente il mutato contesto di nascita – mizrachim, cioè ebrei orientali, per lo più appartenenti ai ceti più umili – e la mutata situazione politica, dopo la guerra del Kippur vinta ma percepita nel paese come una sconfitta. Il potere della destra durerà solo fino al 1983, quando la guerra del Libano e il massacro di Sabra e Chatila, favorito dagli israeliani, provocheranno le dimissioni di Sharon e Begin, ma non sarà per la destra israeliana una sconfitta definitiva. Sharon riemergerà sulla scena politica alla guida, almeno temporanea, del Likud, mentre il complesso mondo della destra si arricchirà di un estremismo razzista, fascista e messianico, il kahanismo, così detto dal rabbino ebreo americano Meir Kahane, estromesso dal parlamento per la sua ideologia decisamente razzista, padre spirituale degli ispiratori dell’assassinio di Rabin e di molti dei ministri dell’attuale governo di Netanyahu.

Il titolo di questo libro è I mastini della terra. Una definizione che, se ricorda il titolo del libro di Franco Fortini I cani del Sinai, deriva da una formula creata da Begin nel 1967, “i cani da guardia”, a indicare l’assidua sorveglianza del suo partito sulle conquiste territoriali fatte proprio in quell’anno nella guerra dei sei giorni. Un’insistenza sulla terra, la terra biblica concessa da Dio al popolo ebraico, che è, al di là delle differenze e del diverso contesto politico e sociale in cui questa destra agisce, il vero filo conduttore che unisce, a partire almeno dalla fondazione dello Stato nel 1948, tutti i partiti di destra: l’Herut, il Likud e una parte almeno della destra kahanista ora al potere.

Il libro arriva all’oggi, tirando le fila di una storia complessa, che sembra per ora vincente, come la distruzione di Gaza, l’espulsione dei palestinesi dalla West Bank e il futuro che pare prepararsi per il medio Oriente ci suggeriscono. Hanno vinto davvero Jabotinsky, Begin, Netanyahu? Non lo sappiamo ancora, o almeno speriamo di non saperlo.

annafoa1944@gmail.com
A. Foa ha insegnato storia moderna all’Università La Sapienza di Roma