Il Nietzsche metafisico di Heidegger  | Gianni Vattimo dall’archivio

di Gianni Vattimo 

Martin Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, ed. orig. 1961, trad. dal tedesco di Franco Volpi. 

Nei corsi universitari degli anni ‘36-40 e negli altri testi (degli stessi anni) che sono raccolti nel volume su Nietzsche Heidegger legge il pensiero di Nietzsche in maniera del tutto originale rispetto alle interpretazioni che ne erano state date nei decenni precedenti, e che, sebbene avessero colto in generale il significato globale e radicale della critica nietzscheana, non aveva mai preso così intensamente sul serio la “pretesa” del filosofo di rappresentare una svolta epocale nella storia dello spirito europeo. Espressioni come quella che fa da titolo a un capitolo di Ecce homo, “Perché io sono un destino”, il più delle volte erano arse da mettere sul conto dell’incipiente pazzia di Nietzsche. Heidegger le prende invece sul serio, a modo suo; e proprio per questo la sua lettura di Nietzsche innova profondamente rispetto a quelle precedenti, anche quando abbiano la densità speculativa dello studio di Jaspers (uscito nel 1936) o di quello di Alfred Baeumler (forse troppo ingiustamente messo da parte, oggi, come nazista, uscito nel 1931). Il punto è che Nietzsche era stato generalmente inteso, prima di Heidegger, come un critico della Zivilisation o, secondo l’espressione di Dilthey, come un Lebensphilosoph — che non significa anzitutto un “filosofo vitali, ma un pensatore “esistenziale”, che non crede più alla filosofia come metafisica, come teoria generale dell’essere, ma che la esercita come una riflessione personale, spesso di carattere saggistico, secondo un modello che risale a Montaigne o anche al pensiero della tarda antichità. 

I temi del Nietzsche di Heidegger

Nella prospettiva di Heidegger, che vuole leggere Nietzsche proprio come l’ultimo grande filosofo metafisico dell’Occidente, da mettere accanto a Platone e Aristotele, cambia anche la gerarchia dei suoi scritti: se il critico della cultura, il moralista, lo smascheratore delle ipocrisie della nostra civiltà decadente si era espresso soprattutto in opere come Umano troppo umano, Aurora, La Gaja scienza, o più tardi come la Genealogia della morale e Al di là del bene e del male, gli scritti di portata metafisica che contano per Heidegger sono invece le note postume che, almeno per un certo periodo, Nietzsche era andato preparando, negli anni ottanta, in vista di un Hauptwerk sistematico, per cui aveva pensato, tra altri, al titolo La volontà di potenza, e che poi, variamente manipolati e ricuciti dagli editori uscirono effettivamente sotto questo titolo in varie edizioni (l’ultima delle quali, in 1067 frammenti, è del 1906). Nell’utilizzare soprattutto, e anzi quasi esclusivamente questi testi, Heidegger era ben consapevole dei problemi filologici che essi presentavano, anche perché negli stessi anni fece parti del comitato che si occupava della nuova edizione critica dell’opera nietzscheana. In ogni caso, la sua interpretazione, centrata sulle note postume, non risente in modo significativo della questione filologica (che, ricordiamolo, si è risolta con la pubblicazione, cominciata negli anni sessanta, dell’edizione critica di Colli e Montinari, in italiano presso Adelphi). La scelta di leggere Nietzsche come uni pensatore metafisico, per il quale il problema centrale è quello del senso dell’essere, non solo conduce Heidegger a privilegiare gli scritti postumi, ma gli offre la base (la sola, secondo lui; e probabilmente ha ragione) per costruire un’immagine non contraddittoria della filosofia di Nietzsche. Che era stata prevalentemente letta nei suoi aspetti critici e dissolutivi della morale della religione anche perché le dottrine “positive” del Nietzsche maturo (a partire dallo Zarathustra) erano apparse difficilmente coordinabili in un tutto sensato. La questione riguardava specialmente due di concetti più oscuri, ma assolutamente centrali nella sua autointerpretazione, del tardo Nietzsche: la volontà di potenza e l’eterni ritorno dell’uguale. Proprio alla connessione essenziale di questi due concetti è dedicato il quarto dei corsi universitari inclusi nel libro, che insieme al quinto, intitolato Il nichilismo europeo, tenta in retrospettiva di pensare insieme tutto quanto precede, cioè le analisi spesso più ampie e dettagliate dei corsi su La volontà di potenza come arte, L’eterno ritorno dell’uguale, La volontà di potenza come conoscenza. I due corsi che aprono il secondo libro dell’opera sono dunque particolarmente indicati per cercare di farsi un’idea complessiva dei temi che essa svolge. E cioè, principalmente, la connessione fra le due nozioni di volontà di potenza ed eterno ritorno, e i cinque “titoli capitali” del pensiero di Nietzsche, così come Heidegger lo intende. Quanto alla connessione dei due concetti caratteristici di Nietzsche a partire dallo Zarathustra, Heidegger – contrariamente ad altri interpreti che, ritenendoli inconciliabili, avevano finito per espungere l’uno o l’altro – ritiene che essi dicano la stessa cosa, nel senso che l’eterno ritorno può essere pensato come l’esistenza effettiva di un mondo la cui essenza è la volontà di potenza. E in un mondo in cui il divenire non ha direzione né senso alcuno, dunque nel mondo in cui è tramontata ogni possibile legittimazione del divenire da parte dell’essere – dell’apparenza da parte della sostanza, o dell’ai di qua da parte dell’ai di là, ecc. – che l’essenza dell’essere non può essere altro che volontà di potenza, o anche, come Heidegger dice, volontà di volontà, pura autoaffermazione che costruisce liberamente forme (“volontà di potenza come arte”) che hanno solo il senso di permettere ulteriori creazioni. L’eterno ritorno ha dunque tutt’altro che un senso fatalistico – per il quale, appunto, sarebbe inconciliabile con la volontà di potenza. Eterno ritorno è il quadro ontologico entro cui la volontà di potenza può davvero dispiegarsi in tutta la sua autonomia, dunque anche come decisione che riposa unicamente su di sé. I cinque “titoli capitali” nei quali a partire dal corso successivo, sul nichilismo europeo, Heidegger riassume tutto il pensiero di Nietzsche – e cioè: nichilismo (o trasvalutazione di tutti i valori), eterno ritorno, volontà di potenza, superuomo, giustizia (ossia verità come esattezza accertata) volontà di potenza? Non si dimentichi che anche un interprete come Karl Löwith, nel suo libro su Nietzsche e l’eterno ritorno pubblicato per la prima volta nel 1935, aveva visto nell’inconciliabilità di eterno ritorno e decisione una sorta di impasse costitutiva di tutto il pensiero moderno, ritenendo che essa rivelasse insieme la nostalgia e l’impossibilità, per l’uomo europeo attuale, di ritrovare quella sorta di innocenza naturale che i romantici avevano riconosciuto ai greci, e che non si poteva pensare di riconquistare con un atto deliberato della volontà. 

Nietzsche e il destino della metafisica

Ma fino a questo punto può effettivamente apparire poco argomentata la tesi, più o meno esplicitamente suggerita da Heidegger, secondo cui solo leggendo Nietzsche come metafisico si può dare un senso non contraddittorio ai due pensieri più caratteristici della sua filosofia. Il fatto è che, nella terminologia di Heidegger, leggere Nietzsche come metafisico vuol dire molto di più che fissare l’attenzione su quelle parti della sua opera che, anche senza esplicita intenzione, hanno di mira la questione del senso dell’essere (e non solo la critica della civiltà, lo svelamento delle ipocrisie della morale, ecc.). Se, come si è accennato, Heidegger prende sul serio il carattere di “destino” che Nietzsche rivendica al proprio pensiero, non è solo per una decisione di gusto (o addirittura, come anche si potrebbe pensare, per ragioni legate alla situazione politica del suo tempo: Nietzsche era il filosofo favorito del regime nazista; ma Heidegger lo interpreta in modo del tutto opposto a quelle letture politiche). Il carattere di destino viene qui riconosciuto a Nietzsche in virtù di un legame necessario che la sua filosofia mostra di avere con il corso di tutta la tradizione metafisica europea precedente. E in effetti, una larghissima parte del libro di Heidegger, sia delle lezioni sia degli altri scritti in esso raccolti, è dedicata non tanto a illustrare “dall’interno” i testi di Nietzsche, quanto piuttosto a ricostruire i legami della filosofia nietzscheana con la tradizione metafisica a partire da Platone. Nietzsche è un metafisico non solo, o principalmente, perché, come altri metafisici, parla del senso dell’essere; ma perché, anzitutto, prosegue (e, come ora vedremo, porta a compimento) con il suo pensiero la storia della metafisica che comincia con i greci, si sviluppa attraverso le riprese cristiane del platonismo e dell’aristotelismo, conosce una svolta decisiva con Cartesio e Leibniz, raggiunge la sua forma sistematica con gli idealisti tedeschi del secolo XIX e, appunto, si compie, mostrandosi nella sua vera essenza, nella dottrina nietzscheana della volontà di potenza e dell’eterno ritorno. 

Heidegger concepisce l’idea di una storia unitaria della metafisica in base a Nietzsche, oppure applica a Nietzsche uno schema elaborato anzitutto all’interno delia propria speculazione ontologica? Sono probabilmente vere tutte e due le alternative. È vero che, se non si vuol ridurlo troppo frettolosamente a un “moralista” o a un umanista insofferente della civiltà industriale, il pensiero di Nietzsche si rivela sostanziato di un ripercorrimento genealogico di tutta la cultura occidentale; dunque è verosimile che uno sforzo di leggerlo senza preconcetti conduca a seguirlo su questo cammino e a vederlo, come egli si è visto, come sua conclusione. D’altra parte, di una “distruzione della storia dell’ontologia” (e cioè della metafisica) come compito del pensiero Heidegger aveva già parlato nell’introduzione di Essere e tempo, molti anni prima di occuparsi così tematicamente di Nietzsche; ma anche, molto probabilmente, già in qualche modo sotto la sua influenza (su ciò, si vedano le notizie richiamate da Volpi nella sua postfazione; e molte pagine del bel libro di Otto Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Guida, Napoli 1991, pp. 520). 

Oltre al problema, che qui dobbiamo limitarci a segnalare, di una prospettiva troppo rigidamente geschichtsphilosophisch (per cui il senso del pensiero nietzscheano si può cogliere solo se si ammette che si dia qualcosa come un’unitaria storia della metafisica), la lettura heideggeriana di Nietzsche come pensatore della metafisica ne pone anche altri. Ne segnaliamo solo due, tra di loro strettamente legati. Anzitutto: Nietzsche non si è forse sempre pensato come il nemico del platonismo, del cristianesimo, dell’idealismo che caratterizzano tutta la storia della metafisica? È possibile vedere invece in lui – come fa Heidegger – un continuatore di questa vicenda di pensiero? La risposta a questa domanda dipende da quella che si dà alla questione precedente: se “c’è” una storia della metafisica che si sviluppa nella cultura europea, si potrà anche ammettere che il senso delle dottrine dei vari pensatori può andare al di là delle loro intenzioni esplicite. Heidegger è di questa opinione, e lo dice in varie pagine del libro. Del resto, uno dei motti più costanti nella storia dell’ermeneutica invita a capire i testi anche meglio di come li hanno capiti gli autori. Osserveremo solo che la tesi opposta, per la quale contano solo le intenzioni degli autori, implica probabilmente, per quanto riguarda la filosofia, l’idea che le varie dottrine tramandateci dalla storia del pensiero siano solo opinioni diverse più o meno accettabili, che non toccano “la cosa stessa”, la quale se ne starebbe quieta nella sua oggettiva verità in attesa che questo o quel pensatore la colga finalmente in modo fedele… 

Seconda questione: in che senso, sul piano dei contenuti, Nietzsche prosegue e porta a compimento la metafisica occidentale inaugurata da Platone? Si sa (anche attraverso altri testi di Heidegger su Nietzsche, inclusi in raccolte che circolano da anni in italiano) che per Heidegger la metafisica è il pensiero che dimentica l’essere nella sua differenza dall’ente, e lo identifica con l’oggettività dell’oggetto che si dà in modo indubitabile all’occhio della mente. Essere vero in questo senso è l’idea platonica, poi la sostanza-soggetto di Aristotele, poi il subjectum moderno che, in quanto accerta l’oggettività con la sua ricerca e i suoi esperimenti, finisce per diventare il vero titolare dell’oggettività e cioè dell’essere stesso. La volontà di potenza di Nietzsche, che riduce l’essere a disponibilità da parte dell’uomo e nient’altro, è solo una tappa ulteriore di questo processo di riduzione, che si può ben chiamare, con Nietzsche, nichilismo. È anche la tappa conclusiva: perché una volta svelato che l’essenza dell’essere non è altro che la volontà, il ciclo della metafisica si è chiuso, posto che essa è stata sempre mossa dal bisogno di incontrare un essere che facesse da fondamento, dunque resistente e altro dal pensiero. Nietzsche ha definitivamente mostrato, secondo Heidegger, che anche questo bisogno è per l’appunto solo un bisogno della volontà stessa. Perciò egli sta alla conclusione di un processo nel quale, alla fine, “dell’essere stesso non ne è nulla”. Un “segno” esteriore del fatto che siamo alla fine della metafisica è anche l’universale (tendenzialmente) razionalizzazione tecnica del mondo, che Heidegger vede come la metafisica realizzata e, anche per questo, compiuta e improseguibile. 

Heidegger contro Nietzsche? 

Che cosa deve fare il pensiero dopo Nietzsche, secondo Heidegger? Come compimento della metafisica, Nietzsche è anche il pensatore nel quale l’oblio dell’essere che la caratterizza si dispiega nella forma più radicale ed estrema. “Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva” dice un verso di Hölderlin che Heidegger commenta spesso. Non si tratta però soltanto di sperare in un rovesciamento dialettico che, dall’estremo dell’oblio dell’essere, ci riconduca in un rapporto autentico con l’essere. In questo libro sembra che Heidegger pensi soprattutto che l’estremizzazione della metafisica rappresentata da Nietzsche sia tale da mettercela di fronte in tutta la sua inaccettabilità e da rendere necessaria una decisione per il suo superamento. Il termine decisione suona tuttavia troppo soggettivistico, per lo Heidegger che, anche nel corso della meditazione su Nietzsche, ha sviluppato le implicazioni di quella svolta del suo pensiero che, dopo Essere e tempo, lo ha condotto alla posizione espressa nella Lettera sull’umanismo (1946), secondo cui, contrariamente a quanto pensano esistenzialisti come Sartre, non siamo su un piano dove c’è soltanto l’uomo, ma “siamo su un piano dove c’è principalmente l’essere”. Del resto, è ciò che viene detto esplicitamente, anche se assai poco chiaramente, nel Nietzsche: “Che cosa può l’uomo, se la necessità è in verità la necessità dell’essere stesso? La necessità dell’essere stesso, la quale, come tale, è storicamente l’essenza del nichilismo e – forse – ne porta all’avvento il momento autentico, non è evidentemente una necessità tale che l’uomo la incontri ovviando ad essa e distogliendola…”. 

Proviamo a tradurre, riassumendo anche tutto ciò che precede: possiamo cogliere il senso non contraddittorio del pensiero di Nietzsche solo leggendolo come un pensatore metafisico. Ciò però significa che il tema di fondo del suo pensiero è l’essere così come esso si è pensato nella storia della metafisica da Platone a oggi. L’apparenza di destino con cui l’opera di Nietzsche ci si presenta si spiega solo così. Nietzsche prosegue e porta a compimento la storia della metafisica che non è solo vicenda di opinioni (che si muoverebbero arbitrariamente intorno a un’oggettività riposante in sé), ma è storia dell’essere stesso. Nel suo compimento, la metafisica svela la propria essenza (l’essere ridotto a volontà di potenza) e ci mette di fronte a una decisione (non vogliamo più rimanere nell’oblio della verità dell’essere). Ma poiché qui non si tratta solo di decisioni arbitrarie, di errori da correggere, anche alla parola decisione possiamo attribuire solo un senso molto problematico. 

È per questo, in fondo, che, sebbene Heidegger presenti Nietzsche come il pensatore più lontano da se stesso, in quanto è il momento più compiuto di quel nichilismo al quale egli vuole sfuggire, sussiste pur sempre una non infondata impressione di affinità tra i due filosofi. Heidegger stesso, negli scritti successivi al Nietzsche, quando parla di superamento della metafisica introduce il problematico concetto di Verwindung (superamento sarebbe Überwindung), che, seguendo del resto sue indicazioni, viene tradotto con espressioni come “accettazione rassegnata”, “rimettersi” (da una malattia; ma anche: rimettersi a qualcuno). Questo termine è probabilmente da intendersi anche nel senso che il superamento della metafisica non è un vero e proprio metter da parte il nichilismo come un errore, un abito smesso, un’abitudine di pensiero da cui ci distacchiamo. Come il nichilismo, così anche Nietzsche non si lascia metter da parte troppo facilmente; e anche dopo l’immane fatica interpretativa che si è concretata negli studi raccolti in questo volume, Heidegger è rimasto fino alla fine in dialogo con lui più che con qualunque altro pensatore.