Il liceo classico alla fiera del Nord-est: il falso dilemma

di Danilo Bonora

L’amico Oscar – che fa il prof – mi ha attaccato l’altro giorno al Blues Pub un bottone che lèvati sulla situazione della scuola italiana e sui ggiovani. La faccenda non mi prende molto ma lui ha letto molti libri, è un tipo eclettico, passa per mezzo genio, mi offre una birra, così mi è toccato ascoltarlo. Da qualche tempo – dice – la questione dell’opportunità di studiare le lingue morte nel vecchio liceo classico è tornata al centro di un arengo ai cui estremi ci sono abolizionisti e ultraconservatori, e al centro giocatori con varie divise (riformare sì ma con cuidado, intervenire con decisione, rifare tutto ab imis ecc.). Mark Zuckerberg è finito sulle prime pagine dei quotidiani per un suo tour italiano durante il quale ha asserito di adorare Roma, di aver studiato con passione il latino e accarezzato l’idea di una laurea in materie classiche. Ma è andata diversamente: nello spazio di un mattino è passato da Virgilio alla quotazione al Nasdaq, e pazienza. Queste dichiarazioni turistiche hanno avuto esiti inaspettati, finendo nel corredo degli argomenti per il rilancio del liceo classico.

Due rudi assertori dell’abrogazione tout court, gli economisti Boldrin e Famularo, hanno sostenuto che il caso Zuckerberg è stato sfruttato in modo capzioso dai partigiani del classico (tra cui Massimo Gramellini), che avrebbero sollevato un polverone di paralogismi con cui si voleva attribuire solo a certi studi la prerogativa di valere come passepartout per accedere a skill seri. Lo storico della scienza Gilberto Corbellini, dopo aver evidenziato che troppi opinion maker non sanno un tubo di scienza (facendo di necessità virtù), ha messo sul tavolo altre questioni impegnative, segnatamente la diffusa micragna di competenze sociali-cognitive, stigma tipico degli umanisti, affezionati a bias preistorici che non aiutano a capire come e perché il mercato, lo stato di diritto, il metodo scientifico ecc. hanno prodotto società migliori: oggi non si dovrebbe uscire da una maturità senza sapere cos’è e come funziona un trial clinico.

Il liceo classico alla fiera del Nord-est

 

Oscar s’infervora: Corbellini avrà qualche ragione, ma che c’entrano gli umanisti? Susan Jacoby ha ammesso di non poter dimostrare che leggere per ore i romanzoni russi in una casetta sull’albero (quello che faceva a 13 anni) invece di smanettare sull’Xbox o postare su Facebook crei cittadini più informati, però lo ha scritto sul rigoroso “Washington Post”, mica sulla free press da metro. Il filologo Federico Condello nel recente e mordace La scuola giusta. In difesa del liceo classico (Mondadori 2018) ha trovato strano che alcuni sostenitori della “mentalità scientifica” maneggino con tanta ruvidezza il nesso causa-effetto e azzardato l’assunto che gli “umanisti” non esistano se non nei sogni di certi scienziati e gli “scienziati” se non negli incubi di certi umanisti. Del resto, Giorgio Manganelli sbeffeggiò da par suo l’ideologia stagionata dell’Occidente regno dei classici e dell’umanesimo: “patetica parola che copre con uno straccio di speranza una lancinante angustia. A mio avviso, l’idea che l’uomo sia umano non è che una tautologia moralistica…”.

Eliminando il liceo classico si risolverebbe il problema?

È vero che abbondiamo di bias cognitivi cretini (fallacia naturalistica, sillogismo pratico, effetto placebo ecc.) ma non è eliminando il classico che risolviamo il problema. Innanzitutto perché molti saperi “umanistici” sono ben dentro il progetto di una paidéia 2.0 e hanno poco da invidiare alle discipline dei fisici, dei chimici o dei biologi (costruite uno stemma lachmanniano e poi vediamo). In secondo luogo perché Oscar mi fa sapere che la sua libreria Billy (“controlla su Anobii!”) è stipata di volumi di Jervis, Damasio, Edelman, Changeux, Tononi, Boncinelli, senza che questo gli abbia impedito di trovare qualcosa di molto istruttivo anche nel padre dei filosofi continentali (maltrattato da Corbellini), avendo constatato che dissonanza cognitiva e negazione delle evidenze che stanno sulle balle al sistema limbico non sono affatto un’esclusiva dei letterati: assistere a un collegio dei docenti per credere.

Probabilmente si è esagerato con l’argomento ad antiquitatem (i tempi cambiano) ma lo si è fatto pure con le fallacie del falso dilemma (e.g. sulle remote “due culture” di Edgar Snow) e/o con l’inversione dell’onere della prova, cosicché di entimema in entimema uno non sa più che pesci pigliare e cerca qualche lume compulsando – che so – Quintiliano (che scriveva in latino). Per Claudio Giunta (E se non fosse la buona battaglia? – cfr. recensioneL’indice” 2018 n. 1) è indiscutibile che nei diplomati – affamati di pop culture – dopo anni di bigini e di “autori” resta ben poco del gusto della lettura: “provate a fargli leggere non dico Cicerone ma la lapide di un cimitero”. Nihil novi, visto che è da quel dì che si è in difficoltà davanti a un’epigrafe e si fanno ironie sui “componimenti” dei liceali: ore e ore di disequazioni e procarioti per disseminare frasi avvilenti come “la domanda sorge spontanea”, “l’importante è quello che si ha dentro”, ecc. Le competenze linguistiche costituiscono oggi come sempre un capitale simbolico di inestimabile valore, puntualizza Condello, e il chiostro tecnico-procedurale consentirà di campare senza rogne ai tempi dell’“uno vale uno”, ma non di evitare le fregnacce di cui sopra, che è un bell’esempio di skill socio-cognitivo.

Il liceo classico alla fiera del Nord-est

 

Il falso dilemma: perché non si può essere umanisti e neopositivisti, analitici e continentali, keynesiani e libberisti? Un nostro ingegnere sui generis (nel 1959…) deplorò “l’empirismo” dei “bisognosi di diploma celere” per nulla teneri col latino, l’idioma-supporto fucinato dai secoli capace di abbracciare “l’infinita esperienza di una storia e le sue significazioni infinite, come certi frutti, che maturan lenti e ricchi, i mille e mille raggi dell’estate”. “È cambiato tutto?”, mi chiede Oscar: non so che dirgli. Ormai è asfissiante; tira fuori dalla borsa un vecchio ritaglio del “Corriere” in cui Roberto Calasso ricordava come la domanda a cosa “servissero” il greco e il latino fosse una delle più sconfortanti che ciascuno, fin da bambino, aveva sentito porre da “un qualche parente o professore o coetaneo irrispettoso o esperto televisivo, con aria insieme crucciata e malandrina”. Negli anni della contestazione Calasso notava che i classici tornavano ad essere remoti come Lapponi o Maori nella loro inquietante estraneità e lontananza: carichi come navigli di spezie e di enigmi, gli antichi lasciavano una scia di sgomento sognante. Era già qualcosa.

Il sobrio mestiere di Zivilisation

All’epoca degli iddii pestilenziali del poeta i tiranni ascoltavano Brahms, leggevano l’Anabasi ed erano highbrow e criminali, quindi bisogna andarci molto piano con la funzione civilizzatrice delle belle lettere, la tiritera del sapere “disinteressato” (contradictio in adiecto) e dei “valori”, con tutto che sarebbe interessante fare un po’ di genealogia e risalire a prima dei valori (e qui il greco serve eccome). Tuttavia nel fondo delle province i licei classici hanno continuato a fare il loro sobrio mestiere di Zivilisation, suggerendo a qualche scolaretto, tanto per cominciare, l’abbandono delle abitudini allegramente zotiche dei compagni di merende e magari il lancio alle ortiche della t-shirt con i Megadeath, primo passo di un affrancamento in vista di ponderate scelte future dentro una scuola open source, alla larga da troppo avventate canalizzazioni e divisioni del lavoro intellettuale, poichè di doman non c’è certezza.

Nel caso dell’amico Oscar finire in un’aula del classico era servito a capire che c’erano ambienti evoluti pure nel suo paesone mediamente burino del Nord-est locomotiva d’Italia, dove i notabili sbandieravano al caffè storielle di zoccole e si fiondavano col Porsche alle sagre paesane per strafogarsi di spuntature di maiale; eventuali pratiche innominabili – tipo trovare interessanti Kierkegaard o Proust – era opportuno rimanessero tumulate, pena un crollo reputazionale nel circondario. Alle prese con il processo di commistione di ceti della scuola di massa, in mezzo a rampolli di industrialotti e di archistar con opere al Beaubourg, Oscar dovette irrobustirsi le spalle e tener botta, faute de mieux, almeno con Tucidide e Lisia. Nel liceo di campagna fiutò la presenza di uno stile e di un buongusto cultivated, scoprendo – oltre all’aoristo e al digamma eolico – che non c’era solo Hell’s Bells degli AC/DC ma anche In A Silent Way di Miles Davis, il Köln Concert e la Deutsche Grammophon, finendo per arrossire allorché il preside (gentiluomo old fashioned), durante un’assemblea di istituto a base di “cioè, compagni” e “mozione d’ordine”, gli additò un articolo sulla prima pagina del giornale che Oscar teneva sulle ginocchia, Catullo primo amore di Natalia Ginzburg. Era al ginnasio e sorrise complice con l’aria di saperla lunga (“ma chi è ‘sta Ginzburg?” Naturalmente con la g palatale). Leopardi osservò che ammiriamo ancora un’orazione di Demostene per una causa di tre pecore, mentre “le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, né chi le disse, pretese né bramò né curò ch’elle avessero maggior durata”: chissà cosa penserebbe degli attuali parlamenti così simpaticamente de noantri.

Oscar si dà delle arie, crede di essere spiritoso e talvolta è pedante forte, però sempre meglio delle ciàcole con certi miei colleghi bolliti dagli ordinativi e dai social, che si attirano per forza battute alla Woody Allen (“There are worse things in life than death. If you’ve ever spent an evening with an insurance salesman, you know exactly what I mean”). Finisce la birra dicendo che avrebbe voglia di fare il pierino e di concludere not with a whimper ma con un bang stirneriano: il classico è un bel posto perché c’è stato lui. Ok, ma adesso devo andare. Prendo la macchina e mi incaglio subito nel traffico disumano del paesone: ci fosse stato un’ostia di ingegnere pieno di skill che sia riuscito a renderlo più razionale.