Accecati dai ghiotti fatti di cronaca delle scuole italiane

Irresistibilmente attratti da nuove riforme, refrattari alla verifica di quelle attuate

di Gianluca Argentin

dal numero di aprile 2018

Gli ultimi decenni della scuola italiana sono stati attraversati dal tema della “riforma”: riforme realizzate a metà ma declamate a gran voce, riforme realizzate “ma non chiamiamola riforma che non ne possiamo più”, riforme invocate, riforme realizzate me negate in nome di piccoli aggiustamenti da realizzare “con il cacciavite”. Questo costante rimando al concetto di riforma mette in luce tre aspetti importanti sul discorso pubblico relativo alla scuola italiana: (a) una diffusa insoddisfazione per lo stato del nostro sistema di istruzione; (b) la percezione, forte nella stessa classe politica, che serve fare qualcosa perché (c) l’istruzione resta un nodo importante per il benessere futuro del paese.
In effetti, gli studi che collegano prospettive di crescita di un sistema economico, qualità della democrazia e istruzione delle nazioni non mancano, come abbondante è l’evidenza sul fatto che il sistema scolastico italiano presenta risultati poco desiderabili in termini di competenze degli studenti, soprattutto in alcune aree del paese. Anche senza scomodare indagini nazionali e internazionali su larga scala, si può facilmente capire che qualcosa non va nella scuola italiana. In primo luogo, una quota rilevante degli insegnanti non è di ruolo e ciò comporta, assieme alla mobilità dei docenti tra scuole, un loro continuo cambio nelle classi. In secondo luogo, gli insegnanti lamentano da decenni ormai uno stato di mancato riconoscimento sociale, di sovraccarico lavorativo e di difficoltà nel fare fronte al loro ruolo. In terzo luogo, e qui subentra una nota dolente, i mezzi di comunicazione sono perennemente a caccia di episodi emblematici della scuola che non funziona e, ogni volta che trovano un caso di cronaca eclatante, anziché contestualizzarlo e circoscriverlo danno luogo a ondate di articoli e servizi che ne fanno il nuovo grande problema. Abbiamo avuto in passato centinaia di articoli sul bullismo, poi sugli insegnanti che non sapevano imporre la disciplina, sulla carta igienica portata dai genitori, quindi sulle classi piene di studenti immigrati, poi sulle migrazioni degli insegnanti causate dalla renziana riforma della “buona scuola”, fino, in tempi più recenti, alla distanza minima dal cancello della scuola oltre la quale il minore torna ad essere in carico alla famiglia oppure sui genitori violenti verso gli insegnanti.

Il dibattito pubblico sulla scuola prigioniero dei casi di cronaca

Enfatizzando il caso di cronaca quotidiano, i giornalisti italiani fanno un pessimo servizio al sistema di istruzione, presentando la scuola come un mondo in balia di costanti problemi e ai limiti dell’ingovernabilità e gli insegnanti un giorno come irresponsabili lazzaroni e quello dopo come martiri votati alla missione impossibile di educare in questo paese. Pochissimi giornalisti soppesano la “notiziabilità” del ghiotto caso di cronaca da titolone con un dato di fondo tanto ordinario quanto capace di spiegare perché nella scuola italiana (e non solo) accada di tutto: entrano nelle scuole italiane più di un milione di lavoratori ogni giorno e svariati milioni di studenti, che hanno alle spalle un numero maggiore di genitori e altri adulti che con l’istituzione scolastica si interfacciano. Quotidianamente ha luogo un rituale collettivo di dimensioni difficilmente immaginabili, scadenzato in modo piuttosto stringente da spazi, tempi e modi in cui deve realizzarsi. In nessun contesto spazio-temporale tutto potrebbe filare perfettamente liscio ogni giorno: è normale che tanta varietà umana generi episodi disfunzionali, anche estremi. Raccontare quegli eventi di cronaca come sintomatici dei tempi che corrono, anziché inquadrarli per le eccezioni che effettivamente sono, è emblematico non dei problemi della scuola, ma dei problemi della professionalità del giornalismo in questo paese. Si finisce così per portare il dibattito pubblico sulla scuola lontano dalle domande che, come cittadini, dovremmo porci e porre a chi disegna processi di riforma dell’istruzione. Si accresce cioè il chiacchiericcio rumoroso sull’inutilità delle riforme e si lascia spazio a quanti demagogicamente sostengono di avere la salvifica soluzione di turno. Molto più utile sarebbe raccontare i casi di cronaca per quel che sono e scrivere di scuola con l’attenzione che si riserva alle questioni delicate e complesse, perché parlare di milioni di persone e di un nodo cruciale per il futuro un tale livello di attenzione comporta.

Tre domande prima di pianificare una nuova riforma della scuola

Ci spingiamo oltre, proponendo quindi tre domande relative alla scuola italiana che, a nostro avviso, dovrebbero costituire le bussole con cui interrogarsi ogni volta che si parla di riforme della scuola e che dovrebbero essere poste al politico di turno quando dichiara di voler migliorare il sistema di istruzione italiano. Quindi, l’innovazione messa in campo dalla riforma di cui si sta discutendo: cosa implica in termini di efficacia e benessere degli insegnanti? Quali costi comporta per il bilancio dello stato? Come e da chi viene valutata rispetto agli effetti che intende produrre?
Da dove vengono queste domande? La prima da un filone di ricerca accademica, soprattutto anglosassone, ormai davvero consistente che identifica negli insegnanti il fattore cruciale per gli apprendimenti degli studenti e nella qualità della forza insegnante di un paese la leva cruciale per i risultati del suo sistema di istruzione. Gli insegnanti contano per molti motivi: dalla loro capacità di motivare gli studenti e trasmettere loro conoscenze e competenze chiave, al fatto che compiono questa difficoltosa azione per un numero di ore enorme con i nostri figli e nipoti e, ripetutamente, per molti anni della loro vita cruciali nella strutturazione del loro apparato cerebrale e nella formazione del loro carattere. Si possono aggiungere più prosaiche constatazioni sulle ragioni alla base della rilevanza degli insegnanti: sono una enorme componente della forza lavoro e quindi assorbono gran parte delle risorse del sistema di istruzione; inoltre costituiscono un filtro fondamentale per l’implementazione di qualsiasi riforma che li riguardi. L’efficacia degli insegnanti è quindi la vera e imprescindibile risorsa di ogni sistema di istruzione e, essendo l’insegnamento una attività densamente relazionale, diventa difficile anche solo immaginare che insegnanti poco motivati e in condizioni di malessere possano essere efficaci e contribuire positivamente alla realizzazione di riforme che peggiorano la loro condizione. È per questo che non si può pensare alla sola valutazione come strumento di miglioramento dell’efficacia degli inseganti. Chiedersi se una riforma migliori efficacia e benessere degli insegnanti è quindi il primo passo necessario per capire se ci stiamo davvero muovendo nella direzione giusta di cambiamento della scuola.

La seconda domanda nasce da due constatazioni, tanto banali da risultare ovvie, ma molto spesso dimenticate. In primis, le risorse per il sistema di istruzione italiano sono limitate (anche se non per tutti i gradi scolastici, in chiave comparata) e non possiamo permetterci sprechi. A patto di non voler credere alla Fatina dei dentini, non assisteremo a importanti cambiamenti di questo stato di cose nei prossimi anni e ogni investimento in istruzione comporterà quindi anche future rinunce ad altri interventi. In secondo luogo, come si diceva, la scuola è fatta di numeri grandi, se non enormi: piccoli costi aggiuntivi per ciascun insegnante o per ciascuna classe o per ogni istituto scolastico, diventano enormi esborsi di denaro pubblico per il semplice fatto di dover essere moltiplicati per valori numerici con molte più cifre. Ad esempio, chiedere aumenti non irrisori degli stipendi di tutti gli insegnanti significa non avere in mente le conseguenze che ciò avrebbe sui conti del sistema di istruzione italiano e su quali tagli ciò comporterebbe a tutte le altre voci di spesa (altro che carta igienica…).

La terza domanda nasce dal fatto che nell’ambito scolastico, come del resto in molti altri domini di intervento della mano pubblica in Italia, le costanti riforme si accompagnano a mancanza di valutazione. Non ci si chiede cioè se si sono raggiunti i risultati previsti e prodotti i cambiamenti desiderati. Prevalgono così disillusione e spossatezza da parte di chi quei cambiamenti dovrebbe contribuire a realizzarli. La fatica di Sisifo della scuola italiana è quella di continuare a riformare senza valutare. Poniamo qualche domanda a cui crediamo sarebbe utile dare risposte valutative: l’introduzione delle Lim nelle classi, investimento massivo da anni, ha migliorato la didattica degli insegnanti? E gli apprendimenti degli studenti? La Carta del docente e i relativi 500 euro annui agli insegnanti di ruolo come sono stati spesi dagli insegnanti? Hanno davvero accresciuto il loro investimento in formazione e, se sì, di che tipo? Gli insegnanti di potenziamento quanti sono oggi nelle scuole italiane? Quali sono i compiti in cui sono stati impegnati? Si tratta di temi su cui la comunità scientifica dei valutatori italiani sta lavorando, con alterne fortune. Ci paiono però tutti temi assenti o quasi nella stampa e televisione italiana: davvero è più interessante raccontare con dovizia di particolari un ulteriore caso in cui un genitore ha minacciato un insegnante?

Crediamo che, se solo riuscissimo a inchiodare a queste domande chi vuole riformare la scuola italiana, ne beneficerebbero il dibattito pubblico sull’istruzione e la scuola stessa. Probabilmente, l’irresistibile spinta a calare riforme dall’alto (anche quando non le si chiama riforme) lascerebbe spazio a una sana cautela. Doversi porre alcune domande preliminari porterebbe infatti i decisori a riconoscere che è difficile cambiare l’operato di milioni di persone, che sappiamo molto poco di come una innovazione partorita a Roma viene implementata a Casoria e che ogni innovazione, per produrre benefici, deve essere accuratamente soppesata e concordata con chi ne sarà direttamente toccato.
Vogliamo provare a porle queste domande al prossimo ministro dell’istruzione quando inizierà a riformare la nostra scuola? Se invece preferiamo discutere del fatto che a Scandicci un insegnante ha morso l’alluce a uno studente…

gianluca.argentin@unicatt.it

G Argentin insegna metodologia della ricerca sociale all’Università Cattolica di Milano

Approfondimenti

OECD, Skills Strategy Diagnostic Report-Italy 2017, Paris 2017, www.oecd.org/skills/nationalskillsstrategies/Diagnostic-report-Italy.pdf

OECD, New Insights from TALIS 2013. Teaching and Learning in Primary and Upper Secondary Education, Paris 2014, www.oecd.org/education/school/new-insights-from-talis-2013-9789264226319-en.htm

Paolo Sestito, La scuola imperfetta, il Mulino, Bologna 2014