Sergio Tramma – Pedagogia della contemporaneità

Educare al tempo della crisi: scorribande educative per segmenti sociali disorientati

recensione di Vincenzo Viola

dal numero di marzo 2016

Sergio Tramma
PEDAGOGIA DELLA CONTEMPORANEITA’
Educare al tempo della crisi
pp. 166, € 15
Carocci, Roma 2015

41sqDTkS0GL._SX335_BO1,204,203,200_Una delle evidenze conclamate fino alla banalizzazione è che stiamo vivendo in un periodo di crisi. Del resto non ci vuole molto a convenirne: parlano di crisi gli indicatori economici e il carrello della spesa a fine mese, la ricerca di un posto di lavoro, le lamentele dei commercianti e così via.

Si tratta di una crisi non solo economica ma in profondità di una cultura sociale: è la crisi del welfare state, inteso come l’insieme dei “processi decisionali, le azioni e i contesti istituzionali, variamente organizzati, attraverso cui si sviluppano le politiche sociali orientate a creare situazioni di sicurezza per i cittadini, a ridurre le diseguaglianze sociali nell’accesso alle risorse e a offrire servizi sociali, educativi e sanitari.”. Nato in Europa negli anni cinquanta, il welfare state ha costituito la condizione materiale e il fondamento ideale per una pedagogia della solidarietà e della responsabile distribuzione pubblica – non come atto caritatevole, ma come espressione di un diritto – delle risorse a integrazione di quella privata e familiare. Oggi tutto ciò è messo in discussione dalla minore disponibilità di risorse, ma soprattutto dalla perdita di credibilità del modello del welfare state sotto l’urto delle ideologie neoliberiste. Per questo, sostiene giustamente Sergio Tramma, autore di un saggio denso e documentato: “Riflettere attorno allo stato dell’educazione e della pedagogia senza tenere conto della crisi di credibilità e di senso del welfare state, prima che della scarsità di risorse a sua disposizione, potrebbe inficiare qualsiasi analisi pedagogica”.

Infatti la pedagogia sia diretta (attraverso la scuola, ad esempio) che indiretta (prodotta ad esempio dai mezzi di comunicazione) trae origine da un progetto di società: se la gestione e la potenziale uscita dalla crisi è vista come esito dello smantellamento del welfare state (che è la linea finora seguita dai dirigenti europei) è inevitabile che il messaggio pedagogico dell’insieme dell’Europa comunitaria (fino a quando?), sia incardinato sulla paura, sul “si salvi chi può”, sull’egoismo personale, di gruppo o di piccola patria nei confronti di ogni problema, dai più drammatici, come le migrazioni, a quelli più quotidianamente banali. Tutto ciò mette in radicale discussione uno dei capisaldi della modernità e della pedagogia che da essa è derivata: il concetto fondamentale di uguaglianza, aspetto strutturale del pensiero politico e sociale dall’illuminismo in poi. Oggi si diffonde una forte tendenza alla disuguaglianza degli individui e di gruppi sociali titolari di alcuni diritti fondamentali, che si credevano acquisiti in maniera definitiva dalla coscienza collettiva europea. La parte di popolazione più sensibile a questi mutamenti è quella che l’autore, mutuando un termine da Primo Levi, chiama “la zona grigia”: soggetti “portatori di timori” che vivono esperienze di debolezza economica, sociale, culturale, relazionale, “che si organizzano in chiusure locali, soprattutto territoriali, e corporative volte a difendere interessi particolari”.

Sergio Tramma analizza con rigore e lucidità i segmenti di questa società disorientata e con un progetto di pedagogia regressiva “attenta alle dimensioni problematiche connesse alle vite dei soggetti individuali e collettivi” ma critica senza mezzi termini anche la tendenza di chi, con un atteggiamento di sufficienza culturale, non si occupa di queste fasce di popolazione: tutta la società è un corpo in sofferenza che va preso in considerazione nelle sue singole parti, ma anche nel suo complesso, perché la vita sociale è relazione tra le diverse parti, tra i diversi individui. Per questo il saggio, pur nella sua brevità, non si limita a dare un quadro critico delle storture, ma propone azioni e iniziative possibili. Lo fa attraverso una figura e una riflessione. La figura è quella di Adriano Olivetti, nella cui opera l’autore vede il tentativo di una pedagogia che nasca dall’imprenditorialità non col segno dell’individualismo, ma con quello della comunità: premessa essenziale per fare dell’inevitabile decrescita (su cui l’autore si sofferma a lungo) non un’implosione con conseguente pesante impoverimento per consistenti settori della popolazione (come continua ad avvenire in Grecia), ma “un modo radicalmente altro di considerare il rapporto tra gli umani” e con ciò che chiamiamo natura.

Il comunitarismo nelle sue varie forme e incarnazioni (Tramma distingue opportunamente tra il comunitarismo “virtuoso”, tendente al superamento di una dimensione locale verso un bene generale e quello “profano”, volto a realizzare un bene comune delimitato, particolare di un gruppo) ha avuto però un’influenza marginale nella storia pedagogica italiana e ancora oggi appare come un’aspirazione che può scivolare in una retorica poco efficace “al cospetto della frammentazione (…) delle vite individuali e collettive.” Da qui parte l’ampia riflessione, che costituisce la parte finale di questo saggio, sul “disincanto pedagogico”, cioè sull’impossibilità di individuare nella società della crisi criteri su cui fondare un coerente impianto educativo: “Educazione e pedagogia risultano ‘ben funzionanti’ se posizionate in un presente, anch’esso considerato dotato di luci e ombre, che si proietta in un futuro auspicato e ‘sperato’ come migliore, ma non per questo garantito in quanto tale (…) un futuro aperto a molteplici possibilità”.

Questo era il quadro in cui nei trent’anni dal dopoguerra si è realizzata la fase alta della pedagogia diretta e indiretta, ma in questi ultimi due decenni “prima si è verificato il passaggio da un’idea di futuro gravido di promesse (…) a un’idea di presente eterno senza passato e futuro; poi si è verificato il passaggio dal presente eterno (…) a un’idea di futuro gravido sì, ma (…) di poco auspicabili prospettive economiche, ambientali, di convivenza civile”. La mancanza di modelli di riferimento rende sempre più precaria la condizione delle istituzioni dell’educazione intenzionale ufficiale, come la scuola, e lascia libero campo a scorribande “educative” di ogni soggetto e di ogni natura. Ma la perdita di capacità della scuola di contribuire a una convincente educazione civile non può essere affrontata in termini difensivi e burocratici, istituendo sulla carta (e poi trascurando nella prassi didattica) le ore di educazione alla cittadinanza. In una società che presenta mille variabili in continuo movimento, che non possono essere definite e inquadrate una volta per tutte, “l’educazione alla cultura civica (…) è l’educazione all’esercizio della critica e all’assunzione di responsabilità (e questo dovrebbe valere tanto per l’educando quanto per l’educatore); di conseguenza ciò comporta che non si dovrebbe educare (solo) alle pratiche di cittadinanza e alla loro validità etica e morale, bensì anche educare (…) al pensiero critico che indaga l’esistenza delle contraddizioni, delle ambivalenze, e che analizzi i costi e i benefici connessi all’essere cittadino e cittadina”. Il vero compito della scuola, il traguardo pedagogico a cui essa dovrebbe tendere consiste nell’educare in primis (ma non solo) i giovani a porsi domande criticamente: solo se saprà assumerlo con coraggio, lucidità e lungimiranza potrà tornare ad avere una seria funzione nell’azione pedagogica ed educativa di una società in crisi.