Dall’archivio: Rossana Rossanda su Nuto Revelli

Perché l’Italia si disfa del passato?

di Rossana Rossanda, dal numero di dicembre 1994

Nuto Revelli
Il disperso di Marburg
Einaudi, Torino 1994

Vent’anni fa, mentre raccoglieva materiale per il Mondo dei vinti, Nuto Revelli s’è imbattuto in un ricordo non suo ma d’un amico partigiano, Marco. Parlando del 1944 nel Cuneese e degli umori contadini, fra sostegno alla guerriglia e paura della rappresaglia, d’improvviso Marco aveva evocato una rappresaglia che non c’era stata, dopo un’azione non sapeva da chi compiuta e in quale data, contro un ufficiale tedesco che aveva lasciato di sé un’immagine sorprendente. Costui ogni mattina usciva a cavallo, da solo, dalla caserma di San Rocco, e si inoltrava in campagna, trascorrendo tranquillamente le rive del fiume Gesso, scambiando un saluto con i contadini che incontrava, offrendo una sigaretta dove abbeverava il cavallo e forse dicendo qualche parola gentile ai bambini. Una mattina il cavallo era tornato in caserma senza di lui, i tedeschi erano usciti a cercarlo, il corpo non era mai stato trovato. E non c’era stata rappresaglia. Tutto insolito.

Per oltre dieci anni, fino al 1986, l’immagine di questo tedesco si annida in Nuto Revelli. Non torna con quello che egli sa e pensa dei tedeschi per l’esperienza sul fronte russo, che gli ha rovesciato la vita, e poi nella Resistenza. I tedeschi si presentano feroci e in branco, l’opposto di quel cavaliere cortese e solitario. È pensabile un ufficiale della Wehrmacht “buono”, uno che la gente non temeva? Morto, perché se avesse disertato e avesse raggiunto i partigiani sarebbe diventato più che noto; ucciso senza un senso plausibile, come e per mano di chi? Quell’immagine tranquilla non mette in causa l’idea del nemico, non interpella la spietatezza della risposta partigiana? Il “Lied” iniziale del Disperso di Marburg riecheggia quello del libro di Claudio Pavone sulla problematica morale di ogni guerra civile, dove puoi finire con il somigliare al nemico. Qui non si tratta di un’uccisione tra italiani, ma quel tedesco sembra a parte, più persona che nemico, e il dilemma si ripresenta. Nuto Revelli non gli darà soluzione, se non nelle considerazioni sulla devastazione, immensa e indiscriminata, d’una guerra. Ma non trattandosi d’un pacifista di buoni sentimenti, il messaggio è più complicato. Non viene fuori alla fine della storia, sta nella storia. Che è il racconto di come non riesca a sbarazzarsi di quel “tedesco buono”. Quando sapremo – presto – che il corpo è rimasto per mesi sui ciottoli e i cespugli d’un isolotto fra due magri bracci di fiume, esposto agli animali e al sole d’una estate, e poi portato da una piena, ci verrà da pensare che chiedeva di essere sepolto. Non è soltanto con la terra che si dà riposo a un corpo senza vita, ma pronunciando il suo nome. Questo gesto, non di perdono ma di antica pietà, farà Revelli. Un 25 aprile, nel 1986, l’immagine che lo abita gli fa chiedere ad alcuni compagni se ne sapevano qualcosa. Diversi ne sanno qualcosa, nessuno con precisione. Marco se ne è in parte scordato. Chi era, uno che usciva ogni giorno da solo in una delle più aspre zone di occupazione dove scontri, agguati e rappresaglie erano continui? Gli ufficiali avevano ordine di non uscire se non almeno in due. Era un tedesco? O un russo o ucraino o polacco, fra gli ex prigionieri della Wehrmacht reclutati e scatenati nei battaglioni di repressione? Cercando nelle incerte tracce – neppure è semplice sapere chi fosse di stanza in quella caserma nella tarda primavera o estate del 1944 – Revelli incontra perfino qualche eco cecoslovacca. Ma soltanto un tedesco si sarebbe permesso di violare una disposizione perentoria. E ancora, doveva trattarsi di uno che poco si curava della vita, se all’incolumità anteponeva una cavalcata solitaria, tutti i giorni e alla stessa ora, fra i campi. E perché il suo reparto lo aveva così poco cercato, e non era scattata la rappresaglia di regola quando un loro ufficiale era colpito? E quale formazione partigiana lo aveva ucciso? Sembra una ricerca impossibile, quella comandata dal fantasma che vuol avere un nome, e oscuramente domanda che cosa sia giusto o ingiusto in quel morire d’agguato in un mattino d’estate. Non è un episodio particolarmente glorioso da ricostruire fra i partigiani piemontesi, ma quali poi? Solo degli sbandati, dei “colpisti”: poco seri, poco organizzati, più propensi a un’azione crudele e mal gestita – quel cavallo che scappa, quel corpo lasciato insepolto a poca distanza dalla caserma. Nessuno ha voglia di parlarne, ammesso che sappia. Gli archivi italiani sono men che approssimativi, e negli ordinatissimi archivi tedeschi si trova tutto, pur di avere un nome, perché sono in ordine alfabetico. Bisogna prima avvicinarla, agguantarla quell’ombra e poi essi risponderanno. Così ci vorranno quattro anni per stabilire la data di quella morte – chi la metteva a maggio chi a luglio e chi ad agosto – e far parlare uno che vi partecipò. Perché poi non era un’imboscata di “colpisti”, se lo trovarono di fronte, quel tedesco, spaventati come lui, mentre si spostavano da un luogo all’altro. Non lo avevano mai visto prima. Era alto, snello, biondo, poco più di vent’anni; non potevano né lasciarlo né portarlo con sé; quelli che gli spararono di anni non ne avevano nemmeno venti. Ci vorrà un anno ancora perché un giovane ricercatore, Carlo Gentile, trovi il nome d’un disperso, Rudolf Knaut del battaglione 617, avendo stabilito almeno con certezza che quello era allora a San Rocco: Rudolf Knaut. E ci vorrà ancora più d’un altro anno perché si verifichi, e della sua breve vita si sappia quel che si poteva sapere. Allora il morto sarà placato, e anche lui, Revelli, lo sarà.

Non è stato una vittima più vittima di altri. Aveva ventiquattro anni, era studente, non iscritto al partito nazista ma incapace di rifiutare di operare in un reparto di repressione. Non si dimenticava in cavalcate solitarie – faceva un collegamento. Non teneva molto alla sicurezza, forse gli pesava la perdita del fratello sul fronte russo. Non era un assassino nato, ma forse avrebbe comandato una delle rappresaglie seguenti. Un frammento trascinato da eventi che non avrebbe potuto o voluto rifiutare. Primo Levi lo avrebbe definito un grigio. Ma è tristissima anche la fine dei grigi. Rimasticando quegli anni, a Revelli, come a tutti quelli che vi si trovarono sul serio, resta un sapore amarissimo in bocca. Questo percorso verso l’identificazione del cavaliere solitario fa il fascino del libro, che si legge d’un fiato. Una volta Carlo Ginzburg ammise che nello storico c’è il detective – un bisogno di scoprir l’altro nella sua eccezionalità, quello che ognuno potrebbe anche essere o essere stato. Ma nel Disperso di Marburg non c’è soltanto questo, che è anche un percorso interiore che si iscrive in una sorta di cartografia minutissima: le località, le distanze, i tempi, chi e per quanto tempo sostò in quei luoghi, prima o dopo le rappresaglie furiose di quello scorcio fra primavera ed estate. “Mai come adesso è la storia minuta l’unica che mi appassiona”, scrive Revelli nel marzo 1988. È appena stata archiviata a Roma la relazione della commissione sui fatti di Leopoli, lager tedesco per militari italiani del quale nessuno vuol sapere. Ma se la storia grande è attraversata dalle scelte dei vincitori che la manipolano riempiendola di quel che non c’era o svuotandola di quel che non vorrebbero ci fosse, la storia minuta non è gran che più sorgiva. In essa gioca la memoria, che non è registrata per sempre – le vite ci passano sopra, e quando non offuscano o cancellano, un’economia anche inconscia della persona opera gli arrangiamenti destinati a farci andare avanti.

Le stesse persone che evocano a Revelli quell’episodio lo rimuovono. Molti contadini andarono sui campi sapendo di quel cadavere che si scomponeva sul greto a pochi passi, fra paura di essere coinvolti e qualche acredine per chi, avendolo ucciso, aveva lasciato loro accanto una spoglia che, scoperta, avrebbe scatenato su di loro il furore tedesco o, non scoperta, lasciava un senso di colpa in chi non osava ricomporla. Un ragazzo, una ragazza nell’età delle domande scappavano a vedere di nascosto il tedesco sul fiume, orrore d’un corpo che si disfa, sollievo quando la piena finalmente se lo porta via, lasciando un brandello di camicia impigliato nei rami. E se molti sanno dell ‘uccisione, la data oscilla fra immagini sfuggenti, si sovrappone, si falsa, finché non sarà ancorata da un’anziana donna a una piccola certezza del quotidiano, un certo giorno di mercato. E oscilla anche il ricordo più pauroso, quanti i militari tedeschi che uscirono armati a cercarlo: chi ne ricorda uno stormo, chi quattro o cinque. E il cavaliere solitario? Chi lo ricorda giovane, chi crede di ricordarlo e per quella compostezza lo fa quarantenne, lo fa scivolare in un’ altra persona – un maggiore medico anch’egli “disperso” . Soltanto i cinque che lo uccisero e ancora nel 1990 parlano a condizione che il loro nome non venga fatto, hanno scolpite in mente la figura, il come e l’ora – anche quella muta nelle altre memorie, che lavorano sull’insolito e la gratuità di una cavalcata senza scopo.

Ma quando verifiche e riverifiche stenderanno fino all’ultimo lembo di quella stoffa sgualcita, sarà la storia “grande” a permettere di leggerla. In essa stanno le modeste verità del tedesco, di coloro che lo videro passare e anche di chi lo uccise e poi si disperse, in montagna e no. Quando precipitano gli eventi, sono essi a determinare spazi e movimenti delle vite: senza la storia “grande” quella “minuta” perde di senso. Neppure si può ricordare. E questa non è l’ultima inquietudine che il libro lascia. Perché l’Italia si disfa del passato, distrugge, passa oltre? In piena disfatta, qualcosa in Germania teneva raccolte carte, documenti, salvava. Gli archivi tedeschi sono immensi, una marea di persone vi lavora. Nella stessa bufera noi abbiamo disperso le carte, trascurato la memoria, lasciato affondare i non semplici fatti (che cosa è semplice?). È quasi uno scavo archeologico quello degli Istituti di storia della Resistenza, tenuti in piedi più dalla passione di alcuni uomini e donne che da un bisogno collettivo. L’Italia di questo secolo non ama ricordare. Nulla è custodito, nulla elaborato, nulla è sepolto, molto marcisce.