Johann Chapoutot – Il nazismo e l’antichità

Studiosi compiacenti al servizio di una scomposta revisione storiografica

recensione di Gianfranco Gianotti

dal numero di febbraio 2018

Johann Chapoutot
IL NAZISMO E L’ANTICHITÀ
ed. orig. 2012, trad. dal francese di Valeria Zini
pp. X-527, € 34
Einaudi, Torino 2017

Invenzione della tradizione e riscrittura della storia sono operazioni di propaganda che di solito accompagnano i tentativi di autolegittimazione dei ceti dominanti o degli aspiranti a nuove forme di potere. Per quanto secolo breve, il Novecento ne fornisce casi esemplari. Come è noto, da noi il ventennio fascista sfida il ridicolo cercando di resuscitare sui colli fatali dell’Urbe a proprio uso e consumo frammenti sconnessi di tradizione romana, allo scopo di giustificare, coi panni del passato, nazionalismo, dittatura ed espansionismo del presente. Su scala cronologica ancora più ridotta (1933 – primi mesi del 1945) il nazionalsocialismo salito al potere orienta una parte decisiva della propria azione di propaganda verso l’appropriazione e l’uso strumentale dell’antichità classica e riscrive la storia, della Germania e del mondo antico, sfidando dapprima il grottesco e infine naufragando nei vortici del tragico assoluto.

Johann Chapoutot - Il nazismo e l’antichitàI rapporti tra sub-cultura nazista e mondo greco-romano sono al centro del volume di Johann Chapoutot (classe 1978), docente di storia contemporanea a Paris III-Sorbonne. Nato dalla rielaborazione della tesi di stato, Le nazisme et l’Antiquité è comparso nel 2012 per i tipi delle Presses Universitaires de France e subito tradotto: in greco (2012), in spagnolo (2013), in tedesco (2014), in inglese e in rumeno (2016). Nel 2017 esce la versione italiana a cura di Valeria Zini presso Einaudi, che ha pubblicato altri due volumi di Chapoutot sul fascismi europei e sul terzo reich: Controllare e distruggere (2015) e La legge del sangue (2016). Il libro mostra How the Nazis usurped Europe’s Classical Past (titolo della versione inglese), in base all’assioma dell’antropologia razzista hitleriana che predica i greci e i romani come glorioso passato dei germani, in quanto appartenenti tutti alla medesima razza, ariana e nordica. Le premesse sono presenti nel Mein Kampf, dove si leggono asserzioni tanto generiche quanto mistificate: la storia è espressione della lotta tra le razze per la supremazia, che spetta alla razza superiore e più forte, cioè alla razza nordica e ariana; le minoranze creatrici di civiltà, in Grecia come a Roma, sono rappresentanze della razza nordica (dunque germanica) migrate verso sud; la scomparsa delle civiltà del passato si deve alla mancata difesa della purezza di sangue, contaminato dai contatti con razze inferiori. In sostanza, il manifesto del pensiero hitleriano, elaborato nel carcere di Landsberg, assembla spezzoni mal connessi di tradizioni precedenti: le ideologie razziste, antisemitiche ed eugenetiche del XIX secolo (di Gobinau, Chamberlain, Haeckel) e l’Übermensch di Nietzsche, il pangermanesimo dell’Alldeutscher Verband e l’attrazione del fascismo nostrano, le dottrine linguistiche in chiave comparatistica (le lingue indoeuropee di Bopp e Rask, ribattezzate lingue indogermaniche) e il filellenismo alla Winckelmann praticato dall’Altertumswisenschaft (filologia, archeologia, storiografia classica) dell’Ottocento, senza dimenticare l’interpretazione sciovinistica della Germania di Tacito.

Ex septentrione lux

In particolare gli ultimi punti conoscono, dopo il 1933, sviluppi accelerati e intensi, non solo per mano dei gerarchi nazisti, ma soprattutto in forza del “tradimento” di legioni di intellettuali, di accademici e divulgatori servilmente subalterni al potere. La sorpresa per l’intensità della propaganda concentrata sul mondo antico, di solito in secondo piano negli studi sul nazismo, è la molla che ha fatto scattare la ricerca di Chapoutot, autore di un vero tour de force nel collazionare sull’argomento libri canonici, proclami e spettacoli pubblici, prodotti artistici e cinematografici, documenti d’archivio, manuali scolastici, direttive riservate al partito, alle SS, alla Wehrmacht e alla Hitlerjugend. In effetti, i risultati sono impressionanti e mostrano come la ricerca scientifica di area antichistica abbia lasciato il posto all’ideologia e all’indottrinamento attraverso semplificazioni, affermazioni infondate, palesi usi strumentali, a partire dall’unità razziale tra Greci, Romani e Germani, pretesa nata per indicare il vero passato della razza nordica, in luogo delle rune e della modesta panoplia di asce smozzicate ed elmi ornati di corna reperibili negli scavi in suolo teutonico, reperti cari a Himmler prima che la ricerca della “eredità ancestrale” (Ahnenerbe) si orienti verso l’Ellade mitizzata da Hitler e da Alfred Rosenberg. La convinzione hegeliana che lo spirito del mondo proceda da oriente verso occidente (ex oriente lux) è così smentita, a vantaggio della derivazione dal nord, dall’antica patria della razza indogermanica, di tutte le grandi civiltà del passato (India compresa, con qualche ingerenza persino in Egitto): ex septentrione lux, dunque, portata da élites nordiche emigrate a sud per ragioni climatiche o volontà di conquista.

Prometeo dell’intera umanità, l’ariano-nordico-germanico crea in ogni epoca i livelli superiori di civiltà e li difende contro le razze inferiori, asiatiche, negroidi e semitiche. L’antichità dimostra come l’eccellenza ariana possa venir meno, quando il soverchiante numero di razze degenerate attenti alla purezza del sangue dei dominatori e imponga una mescolanza livellatrice foriera di decadenza e rovina. Pertanto, lungo una parabola di ascesa culmine e caduta, il mondo greco ha respinto l’attacco persiano, ha costruito i fasti dell’Atene periclea e dell’egemonia spartana, ma si è poi perso – a dispetto della grandezza nordica di Alessandro il Macedone – nel meticciato d’età ellenistica; in dimensione più ampia gli elementi nordici del mondo romano hanno saputo vincere la guerra di civiltà contro la fenicia Cartagine e costruire un impero mondiale, ma non sono riusciti a conservare la purezza del proprio sangue di fronte alle pressioni egualitarie del credo giudaico-cristiano e alla presenza di nuove popolazioni entro i confini della compagine imperiale (e poco importa se tra queste popolazioni fanno capolino genti di stirpe nordica come Burgundi e Goti). Immersa in simile filosofia della storia, la razza germanica del Novecento, dopo aver raggiunto il potere nella “patria originaria”, deve far fronte a duplice pressione, del materialismo consumistico statunitense e anglo-francese da ovest, del pericolo giudeo-bolscevico da est, e programma a spese dei rivali l’estensione del proprio spazio vitale.

Annessione, imitazione, analogia

Bene: impegnata in questa duplice impresa, che porta inevitabilmente al riarmo e alla guerra su più fronti, la rinnovata razza padrona mette in atto nei confronti dell’antichità un processo di recupero interessato sul piano della propaganda e articolato, a giudizio di Chapoutot, secondo uno schema tripartito che prevede annessione, imitazione e analogia. Il mito della comune appartenenza etnica affianca o sostituisce a Sigfrido il biondo Achille, presenta la Sparta dorica come modello di stato gerarchico su base razziale, educatore di cittadini-soldati invincibili per selezione eugenetica e valore militare. Non manca chi ha affermato che Penelope è figura di donna nordica di VIII o VII secolo a.C.; la grandezza nordica di Atene si concentra nella figura di Pericle, führer del buon tempo antico, nella fioritura artistica della generazione periclea e nei testi del Platone politico, teorico dello stato totalitario impegnato a salvare quanto resta di ariano in una polis infettata dal deleterio illuminismo dei sofisti. Ogni forma di annessione, del mondo greco ma anche del mondo romano (come Augusto, nordico fondatore d’un impero secolare), è indotta dai massimi livelli della gerarchia di partito, ma trova schiere di scribacchini e studiosi compiacenti pronti a proporre temi pseudoscientifici a favore di tale scomposta revisione storiografica. Tra l’altro, non sono rari i casi di accademici che non sconfessano l’adesione al nazismo o che continuano, dopo il 1945, a sostenere tesi nate nel crogiuolo ideologico del precedente decennio: per tutti basti citare lo storico austriaco Fritz Schachermeyr (1895-1987), “flamine del razzismo anche nel secondo dopoguerra”, a detta di Arnaldo Momigliano.

La discesa da nord a sud delle avanguardie ariane ha come viaggio speculare e contrario la staffetta dei 3422 tedofori che porta nell’estate del 1936 la fiaccola olimpica a Berlino, sede dell’XI Olimpiade. Come è noto, la staffetta precede da allora l’apertura di tutti i giochi olimpici; merita attenzione lo sforzo finanziario compiuto per presentare al pubblico giunto da ogni dove la parentela razziale tra terzo reich e civiltà dell’Ellade, attestata visivamente da edifici pubblici monumentali, impianti urbanistici e sportivi, profusione di immagini scultoree di inconfondibile modello greco. Altrettanto nota è l’indispettita reazione nazista di fronte alle quattro medaglie d’oro dello statunitense Jesse Owens, clamorosa smentita dell’inferiorità della razza nera. Comunque il clima celebrativo dei giochi sopravvive nel lungometraggio Olympia di Leni Riefenstahl: il prologo si apre sulle linee solenni di un tempio greco; seguono statue marmoree di dèi ed eroi, per finire con la copia romana del Discobolo di Mirone che si trasforma nel corpo vivo del decatleta germanico Erwin Huber.

L’apollineo contro il dionisiaco

Ma non basta: esiti totalmente assurdi presenta la volontà di vedere nell’antichità greca un oggetto d’imitazione concreta. Intendiamoci, la nozione di mimesi in età classica riguarda la produzione artistica, le forme della conoscenza e l’emulazione tra autori attivi negli stessi generi letterari: Platone la condanna perché limitata alla sfera delle apparenze sensibili; Aristotele la promuove come prima prassi conoscitiva; secondo autori e grammatici gli antichi sono modelli da imitare per contenuto e peculiarità espressive. In età moderna l’imitazione continua ad abitare entro i confini dell’attività poetica e dei relativi trattati; Winckelmann ne fa criterio decisivo nella storia dell’arte antica, indicando nei modelli figurativi greci gli originali del bello artistico e nelle copie romane i prodotti dell’imitazione, intesa non solo come operazione secondaria, ma anche come sforzo di avvicinarsi al modello. Il fascino della Grecia su Winckelmann si concentra in una sententia del 1755: “L’unica via per noi di diventare grandi, anzi, se possibile, inimitabili, è l’imitazione degli antichi”. L’eco presente in Alfred Rosenberg è in realtà un travisamento: imitare l’antichità non è “vergognoso o incompatibile con la dignità nazionale”, in quanto “legittima riappropriazione del patrimonio indogermanico”. Pur se destituita di verità storica, la frase può spiegare la ricostruzione enfatica della cornice greca dell’Olimpiade di Berlino; ma è pura follia se valutata alla luce del tentativo himmleriano di rimodellare su base fisiognomica, eugenetica e selettiva l’aspetto fisico dei futuri cittadini di puro sangue germanico, campioni di riproduzione (progetto Lebensborn) e militi di nuovi “battaglioni sacri” pronti a morire per il reich millenario.

Come mostra Chapoutot, annessione e imitazione moltiplicano le immagini analogiche nel gioco di specchi di vicende esemplari in cui si confondono presente e passato e prende vita un universo scisso tra estetica apollinea della razza ariana e ripugnante miscela dionisiaca delle razze degeneri, alle quali sono via via imputati i misfatti di cui è invece responsabile, in funzione preventiva, la schiatta dei dominatori. A chiudere il cerchio delle visioni metastoriche provvede la guerra scatenata su due fronti dal delirio del Führer e dalla cieca obbedienza di un popolo indottrinato dalla propaganda. Alla fine del primo decennio della dittatura hitleriana la battaglia di Stalingrado prima e poi lo sbarco in Normandia annunciano con segni inequivoci la rovina del millennio proclamato dal nazismo. Ma i segni nefasti non sollecitano altro che ordini di resistere a ogni costo, interpretati ancora una volta secondo le leggi infondate dei ricorsi storici. Per esempio la resistenza della VI armata nella sacca di Stalingrado è assimilata alla difesa spartana delle Termopili, destinata a lasciare una fulgida traccia eroica nei secoli venturi.

Ecco: quando le sorti della guerra lasciano intendere che il sogno millenario sta per finire, la nuova Götterdämmerung è l’epilogo d’una tragedia greca collettiva. Il fascino delle rovine vittoriose sul tempo detta le modalità della fine: agli occhi esaltati del Führer la distruzione totale della Germania e del suo popolo eletto, colpevole di non aver saputo difendere “sangue e suolo” (Blut und Boden) dall’attacco delle razze inferiori, rappresenta l’estrema soluzione per conquistare la perennità della memoria, ultimo atto della grandezza nordica in attesa di tempi più idonei per il suo ritorno.

gianfranco.gianotti@unito.it

G Gianotti ha insegnato filologia greco-latina all’Università di Torino