Maria Malatesta – Storia di un’élite

Un ceto dal profilo autonomo

di Marco Meriggi

Maria Malatesta
Storia di un’élite
La nobiltà italiana dal Risorgimento agli a
nni Sessanta
pp. XXII-338, € 26,
Einaudi, Torino 2022

Il tema del ruolo della nobiltà in età contemporanea è stato riproposto a più riprese nella storiografia degli ultimi decenni, quasi sempre in stretta connessione con quello dei limiti dei processi di modernizzazione in senso borghese conosciuti dalla società europea tra Otto e Novecento. Basterà ricordare, a questo proposito, il celebre studio di Arno Mayer sul Potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale (1981: Laterza, 1999), che sintetizzò in una tesi estrema – quella enunciata dal titolo – le innumerevoli aporie che da sempre si presentavano all’attenzione di chi si dedicava allo studio dell’età postrivoluzionaria. Età borghese, quest’ultima – senza dubbio –, e in linea generale contraddistinta dall’evanescenza sul piano giuridico di quello che insieme al clero era stato il ceto per eccellenza nei contesti monarchici di antico regime; età, però, al tempo stesso, nella quale i nobili avevano continuato comunque a giocare un ruolo di primo piano, a dispetto dei processi di livellamento che stavano accompagnando la transizione dall’età liberale a quella democratica.

Di questa attenzione alla nobiltà in età borghese, nel corso degli anni novanta, avevano offerto in Italia testimonianza soprattutto un numero monografico della rivista “Meridiana”, curato nel 1994 da Alberto Mario Banti, e una monografia di Gian Carlo Jocteau, edita da Laterza nel 1997: Nobili e nobiltà nell’Italia unita. E poi il tema era emerso in moltissime ricerche specialistiche.

Maria Malatesta, che ha indagato in passato molti dei contesti nei quali il ruolo della nobiltà dopo l’età nobiliare si presenta particolarmente significativo (per esempio il mondo delle élite agrarie, le pratiche della sociabilità, la composita galassia del professionismo) propone ora una nuova ricostruzione dell’argomento, adottando una inedita prospettiva di lungo periodo. Varcando i confini delle scansioni cronologiche usuali, l’autrice mette insieme, infatti, l’Ottocento e il Novecento, conducendo il lettore sino agli anni sessanta, che vengono suggestivamente illustrati attraverso le storie intrecciate di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Luchino Visconti, attraverso il Gattopardo letterario e quello cinematografico, occasioni di ripensamento del senso delle tradizioni e della condizione aristocratica nel mondo post-aristocratico.

Per quello che riguarda i decenni anteriori all’unificazione nazionale italiana, malgrado il carattere borghese solitamente attribuito al processo risorgimentale il protagonismo nobiliare è un fenomeno di evidenza cristallina. Tra gli aristocratici – specie quelli della Roma pontificia e del Mezzogiorno continentale – furono naturalmente numerosi coloro che al risorgimento si opposero e che nella riconferma di un atteggiamento legittimista individuarono la migliore strategia per salvare il salvabile di quella trama di privilegi e distinzioni di rango che si era comunque – a partire dall’età napoleonica – venuta drasticamente ridimensionando in ogni parte d’Italia. Ma, per altri versi, ci fu tutta un’altra parte della nobiltà (specie quella anagraficamente più giovane) che nel risorgimento ebbe parte attiva e militante. Come testimoniavano costernati alcuni osservatori dell’epoca, sembrava anzi addirittura che nella penisola il corpo nobiliare nel suo insieme, ben lungi dall’assolvere la funzione conservatrice di sostegno dei troni e dell’autorità costituita che esercitava negli stessi decenni in molte altre parti d’Europa, si fosse tramutato in una delle principali forze animatrici dello “spirito di rivoluzione”. Era certamente questo, ad esempio, il caso di parte significativa dell’aristocrazia lombarda, in seguito di quella toscana e di parte di quella delle Legazioni pontificie, nel quadro, per altro, di un orientamento politico che coniugava alla scelta di segno liberale il contrappeso di una visione fortemente moderata delle potenzialità del liberalismo stesso. In tal senso, come osserva persuasivamente l’autrice, l’aristocrazia tendeva spesso a percepire quest’ultimo anche come un’occasione di rilancio e di proficuo adattamento ai tempi dell’antica tradizione delle libertà/privilegio. Si trattava, dunque, di un liberalismo cetuale, poco propenso ai principi egualitari sanciti dalla rivoluzione francese.

Fatto sta che il padre fondatore dell’Italia unita – e giuridicamente borghese – fu un aristocratico progressista come il conte di Cavour; e che nell’Italia borghese (ma monarchica) dell’età liberale l’aristocrazia – numericamente oscillante tra l’1% e il 2% della popolazione – risultò largamente sovrarappresentata negli spazi pubblici e istituzionali. Qualche dato, tra i molti raccolti dall’autrice grazie a una imponente ricerca che nel corso di molti anni l’ha vista impegnata a lavorare su un data base nel quale ha fatto confluire una grande quantità di informazioni relative alla “nobiltà di stato” ( Senato e corpo diplomatico), ce lo dimostra in modo inequivocabile. È vero che tra il 1861 e gli anni trenta del Novecento la rappresentanza nobiliare in Parlamento e ai vertici delle Forze armate calò sensibilmente, in sintonia con un “arretramento della nobiltà [che]fu un fenomeno di respiro europeo, ovunque determinato dall’imborghesimento delle istituzioni pubbliche, dall’allargamento della rappresentanza politica, dalla nascita dei partiti di massa, dalla diffusione di culture sorte in luoghi lontani dalle corti e dai salotti aristocratici” (p. 40); ma a colpire non è tanto il fenomeno in sé, quanto semmai la sua lentezza, se si pensa a corpi come il Senato (dove, dopo essere scesi al 22,2% tra il 1919 e il 1922, i nobili risalirono al 26,3% durante il fascismo) e la diplomazia, dove tra il 1861 e il 1915 i titolati si aggiudicarono il 47% delle cariche.

Per tutto il corso dell’età liberale – ma in misura sorprendentemente significativa anche durante il fascismo, per motivi che l’autrice spiega in modo convincente, evidenziando la tendenza del governo a fare uso di figure titolate e inclini all’obbedienza per controbilanciare, soprattutto in sede locale, le esuberanze movimentiste di parte dei militanti del partito –, e malgrado la sua iniziale frammentazione, che scaturiva dalla storia plurisecolare degli stati preunitari, la nobiltà fu ancora un ceto dal profilo autonomo, anche se risultò sempre più diluita all’interno della galassia notabilare di titolari di grandi patrimoni fondiari e poi anche industriali, nonché di professionisti di alto rango, che si impose come élite sociopolitica dell’Italia monarchica. Dopo la prima guerra mondiale continuò a svolgere inoltre un ruolo nevralgico alla corte dei Savoia, dove contribuì a marcare la distanza tra la monarchia e il regime. Ma contemporaneamente conobbe anche l’avvio di un processo di entropia, riflesso dall’emergere, nel suo alveo, di una miriade di storie individuali e contrastanti (spesso anche all’interno della medesima famiglia, o addirittura nella parabola esistenziale di una singola persona, a seconda dei tempi).

È sulla base di questa fuoriuscita di fatto dal ceto che si spiegano sia la partecipazione di alcuni aristocratici alla Resistenza, sia, a maggior ragione, nel dopoguerra, le vicende individuali di figure come Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di Luchino Visconti, impegnate a “reinventare” la nobiltà in un contesto in cui, sulla base del dettato costituzionale, la nobiltà restava in vita solo “come reminiscenza storica”.

meriggi@unina.it

M. Meriggi insegna storia delle istituzioni politiche all’Università Federico II di Napoli