Storia dei poveri e dei ricchi: l’importanza della genealogia concettuale


La maramaglia amara non è nata in salotto

di Giacomo Todeschini

dal numero di dicembre 2018

Poveri e ricchi dal punto di vista degli storici e dell’opinione corrente sono spesso intesi come realtà relative. Un povero dell’Ottocento agli occhi di un povero d’oggi potrebbe sembrare alle soglie dell’umanità o proprio al di fuori di essa, almeno se questo povero di oggi vive in un paese europeo. Il mendico medievale o della prima età moderna in questa prospettiva sembrerebbe (si pensa) una specie di alieno fangoso fino agli occhi, orribile di piaghe e di malattie: irriconoscibile come povero degno di questo nome sia dal ricco odierno, per quanto caritatevole e politicamente corretto, sia tanto meno dal povero aspirante borghese o dal (quasi) borghese in affanno che stenta a pagare il mutuo. Forse il povero che vive nei cenci e sui materassi per le strade dei senza tetto (clochards, hobos, homeless, o barboni che siano) qualcosa di sé lo ritroverebbe, nei poveri medievali che si trascinavano in giro storti, puzzolenti e senza futuro, ed erano, a volte, curati, ammoniti, alloggiati negli ospizi e negli ospedali. Ma tutto sommato forse nemmeno l’odierno homeless potrebbe, si suppone, ammettersi come soggetto formalmente non appartenente all’umanità destinata al paradiso dei supermercati. Insomma la povertà (come la ricchezza) è (si dice) un concetto economico, dal punto di vista storico, comprensibile a partire da un sistema di valori economici che stabilisce cos’è necessario, cosa superfluo; che distingue i beni di consumo in essenziali a uno stile di vita mediamente accettabile e inessenziali o di lusso. Va da sé che essenziale, inessenziale, lussuoso, tale da consentire la sopravvivenza, tale da consentire una vita agiata, o una vita decente, sono parole senza senso se non si ha chiaro che cosa significano: sopravvivenza, lusso, agio, decenza. Qui ci si potrebbe fermare. E concludere che povertà e ricchezza sono stati economici storicamente funzionali, e non situazioni oggettive. Per cui, sì, sono poveri ma dipende anche da quello a cui sono abituati; sì, sono ricchi, ma dipende anche da quello che si intende con ricchezza; quello che sembra da poveri qui, in Bangladesh è da signori, quello che sembra da ricchi qui in America è da middle-class, eccetera. Nelle favelas magari sono senza cesso, ma hanno due televisori, nel centro di Roma vivono in una fiaba, ma la spazzatura li sommerge, eccetera.

È così? In effetti risulta piuttosto rassicurante pensare che ricchezza e povertà sono realtà vuote di un senso assoluto, relative alle epoche storiche, che il povero di oggi l’altro ieri sarebbe stato ritenuto ricco e che il ricco di oggi alla corte di Bisanzio o nella Città Proibita sarebbe stato considerato un pezzente. Magari però non è così semplice. Prendiamo il caso del salariato “medievale” (esistito cioè dal XII al XXI secolo), detto mercenarius perché aspira, nella sua grettezza (secondo i penitenzieri medievali, ma già Cicerone trovava i salariati sordidi e venali), ieri come oggi, a una paga (merces) possibilmente continuativa (si mangia tutti i giorni dopo tutto): era ed è un pauper nel senso che gli manca(va)no tantissime cose e in primo luogo la certezza di avere un luogo che si possa chiamare “casa” (nel senso di patria, di posto dal quale nessuno può cacciarlo). Oggi, certo, esistono i mutui, ma la sicurezza di avere un proprio posto al mondo si compra difficilmente a rate. Marx nei suoi manoscritti del 1844 per annotare questa persistenza della miseria come mancanza di un dove ci si sente al sicuro (una home per gli anglisti, un ubi consistam per i latinisti) ha usato un’immagine teologica di trascendenza. I poveri, scrive, possono sperare di aver una “casa” nel senso vero del termine, solo “nel Cielo della ricchezza”, trasfigurandosi in un al di là perfettamente favoloso e mistico dal punto di vista dell’al di qua quotidiano di sfruttamento e deprivazione nel quale si trovano a vivere di giorno in giorno. Di fatto la questione dell’appartenenza alla specie umana intesa come specie dotata di diritti, per l’appunto, umani, pare costituisca un filo rosso di raccordo fra i “poveri” dell’altro ieri, di ieri e di oggi. E anche la piena appartenenza alla specie umana dei ricchi, nel medioevo definita come piena cittadinanza dei “cittadini da sempre” (cives originarii), si raccorda agevolmente con la lunga storia di quelli che, avendo più diritti di tutti quanti, sanno da sempre come gestire profittevolmente la terra e le cose. È lunga la storia di quelli scaturiti da buona e onorata famiglia e che in virtù di ciò sono e si sentono naturalmente portati a governare gli altri, i “poveri” appunto, scioccamente incapaci, nella loro ignara bestialità (stultitia, simplicitas, come quella dei rustici abitatori delle campagne nel tempo che fu, degli Indi d’America, dei selvaggi colonizzabili, dei senza terra e senza nome sempre in viaggio, del “popolo dei social”), di capire il da farsi economico, politico, morale. Quanto più belli, quanto più divertenti, seducenti e fascinosi dei poveri, siano questi ricchi di buon nome e buona famiglia, l’ha raccontato Carlo Emilio Gadda (La meccanica, San Giorgio in casa Brocchi).

La persistente condanna dei poveri alla perifericità

Non perdiamo di vista le ovvie differenze, però nemmeno si dovrebbe, in nome di uno storicismo inventato oltre che per spiegare anche per giustificare la ragione di chi ha vinto, dimenticare gli affogati oltre che i sommersi: la folla di pauperes stritolata nei secoli e triturata o rimbecillita per meglio tritarla oggigiorno. Tuttavia, dicono a volte i filosofi odierni, memori di un Foucault riletto un po’ alla postmoderna (ossia dall’osservatorio di destra del relativismo), il potere, i suoi succubi e le sue vittime partecipano di una logica che vede tutti complici dell’ingranaggio: la politica e la biologia concorrono a questo miscuglio di responsabilità e di passioni. Sarebbe convincente, se il potere come tale esistesse da qualche parte fuori dalle pagine come un grande pupazzo cattivo, e non avesse invece la faccia e le mani dei ricchi e dei forti, di chi fa parte di una classe sociale ben precisa, quella dei padroni delle ferriere, dei figli di qualcuno, dei governanti per diritto divino, degli ereditieri, dei privilegiati di vario ordine e grado, delle madame, dei principi e dei capitani d’industria. Mentre i succubi e le vittime, le “torme di bipedi”, la “maramaglia amara” di Gadda (La meccanica) ancorché consenzienti (ma spesso non consenzienti), per strano che possa sembrare a chi è “nato in salotto” (come diceva Adriana Lai), appartengono sempre al mondo degli sfruttati, dei senza terra, dei senza nome, dei poveracci, degli aspiranti ricchi, dei quasi famosi, dei “nati in cucina” o “al gabinetto” (Brecht, Dell’infanticida Maria Farrar) o per la strada, fanno parte del “popolo dei consumatori”, dei pauperes in tutta la loro quotidiana infamia di gente oscurata dallo sfolgorio prepotente dei domini (per intendersi dei padroni vecchi e nuovi).

Poveri e ricchi

Una visione anarcoide, per non dire paleomarxista e ottocentesca della complessa realtà contemporanea, così intrigante, multiculturale e contraddittoria, dove tutti partecipano (i social!) a tutto e dibattono con tutti. Ma se la realtà, questa realtà così variopinta e chiacchierona intrisa di ciance leggere e vuote, di contumelie e fandonie (rinominate graziosamente fake news), facilmente propagate e rinnegate, promotrice di un accesso senza precedenti dei senza potere alla parola e al pronunciamento pubblico, contenesse un nocciolo duro, antico e inscalfibile di discriminazione e di condanna in eterno alla perifericità e all’insignificanza di chi non conta e, oltre alla “libertà di esporre i panni al vento nell’ore consentite dal regolamento” e alla “libertà di attraversare i viali fruendo delle strisce pedonali” (Cantacronache, Giancarlo Cobelli, nei tetri anni sessanta), ha anche e persino la libertà di credersi importante perché blatera in rete (sul web), prima di bersi il suo caffellatte serale o di scolarsi la sua bottiglina, o di farsi la sua dose di quello che lo/la fa star bene, nella sua stanzetta? “Eppoi la libertà, dove la mettiamo d’emettere un assegno, di sporgere reclamo, d’evadere le pratiche emarginare i codici estendere le analisi estinguere i depositi?” (sempre il Cantacronache).

Insomma la faccenda è complicata. I diritti umani, sempre più spesso sbandierati in un nuovo millennio che, come il precedente, fa scialo del lemma libertas, sembrerebbero più garantiti per tutti vista l’abbondanza di proclami (ufficiali e informali) che invocano la cessazione dello sfruttamento del pianeta e delle sue risorse naturali ormai agli sgoccioli. Ma insospettisce (i paleomarxisti soprattutto) la scomparsa dal discorso dello sfruttamento degli esseri umani. La requisitoria sul pianeta e le sue risorse orribilmente sfruttati, così come il teatro del potere e delle sue nefandezze, dei suoi complici ordinari e delle sue vittime, occultano linguisticamente e politicamente le facce degli sfruttati, dei depredati, delle vittime, trasfigurando nel limbo neutrale dell’astrazione ovvero dell’insignificanza, e cioè nascondendo, la faccia degli sfruttatori, dei predatori, dei carnefici. Quelli che non contano derubricati ad anonimi invisibili (“la classe operaia non esiste più”) potranno pensarsi al massimo come un formicaio di disgraziati. Eppure, si sa, l’universo dei dannati della terra, dei sommersi, delle vittime, dei poveri, dei massacrati, dei violentati, degli affogati, di quelli che non sanno in che mondo si trovano, degli spaesati, degli indementiti dai “media” e dalle demagogie patriottiche, benché mai si coalizzi a combattere chi li schiaccia, esiste, cresce a vista d’occhio: ed è un oceano di facce di tutti i colori e di tutti i generi.

Poveri e ricchi hanno la loro storia, certo, e sono diversi d’epoca in epoca, ed è relativa la condizione di ricchezza o di povertà economicamente parlando. Ma la povertà e lo sperdimento dei “poveri” in quanto esseri umani sfruttati, anonimi, depredati di ogni significato che non sia quello di servizio e consumo, legano i poveri di oggi e di ieri con quelli dell’altro ieri e di prima ancora, così come la brutalità di chi comanda, sevizia e sfrutta i più deboli, li umilia e ne fa carne oltre che da cannone, e da fabbrica o da piantagione di cotone e pomodori, da internet, unisce i ricchi di oggi alle minoranze vincenti e spietate dei secoli passati.
Per questo forse, proprio oggi, sembra sempre più importante fare della genealogia concettuale, capire la lunga durata dei fenomeni e dei sentimenti, le loro metamorfosi, la sottigliezza ostinata che, grazie all’oblio che ci fa forti e deboli, consente ai meccanismi storici di perpetuarsi e di riapparire funzionanti e inesorabili. Anche se è falso dire che “è sempre stato così”, appare sempre più vero affermare che il medioevo non è ancora finito e che il mondo contemporaneo l’ha dentro di sé in tutta la sua violenza.

todeschinigiacomo@gmail.com

G Todeschini insegna storia medievale all’Università di Trieste

I libri

  • Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Peter Kammerer e Enrico Donaggio, Feltrinelli, Milano 2018
  • Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2016
  • Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 2015
  • Cittadinanza e disuguaglianze economiche: le origini storiche di un problema europeo (XIII-XVI secolo), Mélanges de l’école Française de Rome, Roma 2013
  • David Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2011
  • Carlo Emilio Gadda, La meccanica, Garzanti, Milano 1999
  • Bertolt Brecht, Dell’infanticida Maria Farrar, in: Libro di devozioni domestiche, Einaudi, Torino 1967
  • Carlo Emilio Gadda, San Giorgio in casa Brocchi, in: I racconti, Garzanti, Milano 1965