Roberto Colozza – L’affaire 7 aprile

I dilemmi dell’equidistanza

di Angelo Ventrone

Roberto Colozza
L’affaire 7 aprile
Un caso giudiziario tra anni di piombo e terror
ismo globale
pp. XXII-370, € 32,
Einaudi, Torino 2023

Il libro prende in esame le vicende relative al cosiddetto processo del 7 aprile, che nel 1979 vide l’arresto e poi la condanna di molti esponenti di quella complessa realtà che andava sotto il nome di Autonomia operaia. L’operazione giudiziaria arrivò in un momento di grande tensione. All’incirca un anno prima Aldo Moro era stato rapito e poi ucciso dalle Brigate rosse, e la sua scorta sterminata. L’indagine che portò agli arresti degli autonomi fu coordinata dal giudice Pietro Calogero, che solo pochi anni prima aveva contribuito a scoprire la pista nera, cioè neofascista, all’origine della strage di piazza Fontana, avvenuta nel dicembre 1969. La tesi del magistrato si fondava sulla convinzione che esistesse un “partito dell’insurrezione”, come le formazioni armate e la stessa Autonomia lo chiamavano, che prevedeva il coordinamento e la collaborazione tra i gruppi rivoluzionari per arrivare all’esito desiderato: il sovvertimento del sistema.

Il processo 7 aprile ebbe luogo dunque in un contesto estremamente complesso. Se da alcuni fu vissuto come la conferma del carattere sempre più repressivo che lo stato stava assumendo in quel periodo di lotta al terrorismo, da altri fu salutato come la fine di un incubo, come la tanto attesa reazione dello stato di fronte a una illegalità sempre più diffusa e al dilagare della violenza. La ricerca si avvale di una imponente base documentaria basata su scritti teorici e politici, periodici, libri-intervista dei protagonisti, materiali raccolti dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e documenti di recente desecretazione. Inoltre, si avvicina giustamente ai nostri anni, per seguire gli sviluppi e le conseguenze dell’operazione giudiziaria, le condanne emanate, i ripensamenti e la rielaborazione di quanto avvenuto da parte di molti protagonisti di quelle vicende. In questo senso, viene meritoriamente a colmare una lacuna per la ricostruzione degli anni settanta e di ciò che hanno rappresentato anche nella storia successiva del paese.

Nell’Introduzione, l’autore dichiara che l’obiettivo che si è posto è stato quello di “capire le ragioni dell’ordine costituito [lo Stato]e quelle dei devianti [gli Autonomi], senza pensare che le une o le altre fossero attraenti o bisognose di cura per il solo fatto di aver perso o vinto la contesa dell’egemonia”. E poco più avanti aggiunge: “Non considero questa tentata equidistanza come frutto d’ignavia quanto d’una faticosissima tensione basata sull’ascolto delle voci altrui”. Una scelta, continua Colozza, dovuta a “cautela metodologica”. Queste affermazioni sollevano alcune questioni di notevole interesse. In particolare, lo storico deve avere una posizione di equidistanza rispetto ai fatti che studia? In altre parole, deve solo far parlare i documenti e i protagonisti delle vicende che studia, far ascoltare la versione dell’uno o dell’altro? O deve fare qualcosa in più? A mio avviso, se generalizzassimo il primo comportamento, ci troveremmo nei fatti in situazioni paradossali, forse addirittura paralizzanti. Proviamo ad estremizzare il discorso per avere ben chiare le possibili conseguenze. Dovremmo semplicemente ricostruire il dramma dei reclusi nei gulag e contrapporlo alle motivazioni dei loro carnefici? O giustapporre la visione razziale del nazismo, l’orrore dei campi di sterminio, alle ragioni delle loro vittime? Le due esperienze dovrebbero essere poste sullo stesso piano? Naturalmente, i due esempi estremi che ho richiamato sono utili solo perché servono a mettere alla prova l’idea, a mio avviso fonte di pericolosi fraintendimenti, che occorra essere equidistanti rispetto alle ragioni e ai comportamenti degli attori storici che si prendono in esame. Se fosse questa la strada da seguire, gli storici si troverebbero infatti nell’impossibilità di valutare l’infondatezza dei miti politici che tradizionalmente movimenti e regimi usano per legittimarsi, così come non potrebbero dire nulla sulle letture distorte della realtà e sulle paure inventate o strumentalizzate per costruire consenso.

L’immagine della nostra Repubblica come una sorta di criptodittatura, così diffusa in quegli anni, era sbagliata allora – perché contribuiva a demolire la credibilità dello stato, legittimando chi lo combatteva armi alla mano – ed è sbagliata adesso, perché cancella gli intensi dibattiti di quegli anni su come reagire alla diffusione della violenza politica senza mettere in discussione gli equilibri democratici, senza cedere alle spinte puramente repressive, che tentavano settori rilevanti dell’opinione pubblica e alcune forze politiche. L’Italia degli anni settanta era e restava una democrazia. Certo, con le sue evidenti contraddizioni e i suoi limiti, con le forzature prodotte dalla legislazione di emergenza per combattere il terrorismo di destra e di sinistra, ma senza mai rinunciare allo stato di diritto.

D’altronde, occorre ricordare quali erano gli obiettivi che, secondo il classico schema marxista-leninista, per Negri bisognava raggiungere: dittatura del proletariato e nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Così come vanno ricordate le sue parole volte a spiegare che la violenza doveva assumere molteplici forme: quella di massa, intesa “come braccio armato della lotta operaia e proletaria”; quella dell’“azione diretta dei quadri dell’organizzazione d’avanguardia”, che doveva puntare all’attacco “armato alle istituzioni del capitale”; il “terrore rosso”, infine, che aveva lo scopo di “individuare e colpire gli obiettivi singoli della lotta proletaria, di rispondere colpo su colpo alla violenza dei padroni e dello Stato”. Sorprende perciò constatare nel libro la mancata messa in discussione della narrazione autoassolutoria costruita dai dirigenti dell’Autonomia, volta a descrivere sé stessi come semplici intellettuali “critici”. Dimenticando così quel che erano nella realtà: dirigenti politici impegnati a creare le condizioni per arrivare in Italia – attraverso una “guerra civile di lunga durata” – alla rivoluzione.

Il paradosso, dunque, è che sono stati proprio i dirigenti di Autonomia operaia i primi a non prendersi più sul serio, a ritenere le dichiarazioni, i progetti, le iniziative messe in campo all’epoca, puri giochi verbali, riflessioni teoriche senza alcun aggancio con la realtà. Anche se Colozza mette giustamente in rilievo che le indagini perseguirono non reati d’opinione, ma atti e fatti reali (fra cui rapine e fatti di sangue), quando non intreccia le diverse prospettive dei protagonisti, facendo dire a ognuno la propria verità, finisce con il lasciare il lettore disorientato, perché sempre incerto sull’effettiva fondatezza delle due contrapposte versioni dei fatti.

La stessa cosa avviene quando si ricorda il successivo ridimensionamento – non l’annullamento – delle condanne emesse in primo grado. Un ridimensionamento festeggiato dagli autonomi quasi come la prova dell’inconsistenza della tesi di Calogero, che da subito erano state definite un teorema, ovvero una sorta di tesi pregiudiziale senza fondamento reale. Giudizio che però sappiamo non essere vero, perché le varie organizzazioni rivoluzionarie si scambiavano effettivamente non solo documenti (le Brigate rosse facevano leggere a Negri i loro testi prima di pubblicarli), ma anche targhe, documenti di identità falsi e armi, si aiutavano reciprocamente, ospitando ad esempio latitanti, e a volte mettevano in atto azioni congiunte. Come, ad esempio, nel caso di “Controinformazione”, un periodico acquistabile in edicola, redatto da esponenti sia delle Brigate rosse che di Autonomia operaia, o della Brigata Erminio Ferretto, braccio armato in Veneto di entrambe le formazioni. In definitiva, è su questo versante che il pur importante lavoro di Colozza avrebbe richiesto una più precisa messa a punto degli strumenti interpretativi e metodologici.

angelo.ventrone@unimc.it
A. Ventrone insegna storia contemporanea all’Università di Macerata

Fonti primarie, archivi e documenti contemporanei

di Andrea Tanturli

La memoria dei lunghi anni settanta è costellata da date emblematiche a cui spesso si accompagnano espressioni entrate nel dibattito storiografico. È questo il caso della “perdita dell’innocenza” seguita alla strage del 12 dicembre 1969, oppure dei “funerali della repubblica” dopo il 9 maggio 1978. Un ruolo di tutto rispetto lo ricopre anche il 7 aprile 1979, che il giornalista Giorgio Bocca definì “la grande inquisizione”. Al termine di una lunga inchiesta, la procura padovana arrestava decine di militanti dell’estrema sinistra locale e nazionale inaugurando una vicenda giudiziaria destinata a concludersi con il ridimensionamento delle accuse quasi dieci anni dopo. Elementi di discussione, e di riflessione, non erano solo i capi di imputazione desueti o l’enfasi posta sul valore probatorio degli scritti di alcuni imputati (in primis di Toni Negri), ma la convinzione che la violenza politica di sinistra – dalla molotov dei cortei all’omicidio politico delle organizzazioni clandestine – seguisse un unico indirizzo strategico, il cosiddetto “partito armato”.

La portata di un tale episodio ha naturalmente calamitato l’attenzione della storiografia, ma sempre per vie traverse e sfociando spesso in letture parziali e manichee al limite del campo minato. Anche per questo la disciplina si è sempre astenuta da affrontare il 7 aprile in modo esaustivo, almeno fino al lavoro di Roberto Colozza, giovane ricercatore presso l’Università della Tuscia. L’ampia e densa ricostruzione di Colozza, che guadagna in chiarezza a una seconda lettura, presenta senza dubbio diversi caratteri di novità. Il primo è quello di alzare lo sguardo dalla querelle giudiziaria per ricostruire l’intero affaire politico. L’identificazione del caso come affaire non è il solo tributo che il lavoro paga alla conoscenza di Colozza del contesto francese. Lo si vede bene anche nel dosaggio delle tre dimensioni spaziali: il locale, il nazionale e l’internazionale, con un focus privilegiato sulla Francia della dottrina Mitterand. Soprattutto, però, Colozza ambisce a ricostruire con equilibrio il 7 aprile, sfuggendo alla logica degli schieramenti. Non si tratta, per parafrasare le parole dell’autore, di una generica obiettività e nemmeno di rinnegare l’empatia che deve muovere lo storico. Su questo il sentiero imboccato da Colozza diventa però un filo sottile e la ricerca dell’equilibrio assume le forme di un’arma a doppio taglio e rasenta spesso l’equilibrismo. La reiterata volontà di non prendere una posizione univoca sul 7 aprile, abbinata a un uso diffuso dell’ironia sulle parti coinvolte, a una prosa molto ricercata, rischia di cadere nell’esercizio di stile e di costringere a leggere fra le righe. Non solo, allargare il campo, bilanciare le aporie dell’innocentismo degli imputati e quelle delle divagazioni pseudostoriografiche degli inquirenti, rischia di non rispondere alle domande fondamentali implicite nella vicenda. Non sto pensando a quella, che appassionò a lungo la magistratura italiana, se Toni Negri fosse il telefonista delle Brigate rosse, ma piuttosto ad altre, più realistiche. In particolare, è davvero mai esistito un “campo largo” che tenesse uniti strategicamente le Brigate rosse e formazioni all’apparenza in parte legale come i collettivi autonomi? Perché continuare a sospendere il giudizio su questo non aiuta certo a comprendere le tante facce dell’affaire 7 aprile, ma paradossalmente contribuisce a cristallizzare gli schieramenti di allora.

Dal punto di vista metodologico il lavoro, che adotta l’ottica della storia politica, si inserisce a pieno nel solco di molti dei maggiori studi storici sugli anni settanta e sulla violenza politica. L’autore denota una solida conoscenza della vasta bibliografia sul tema, coeva e non, e attinge a piene mani da fonti secondarie come la stampa quotidiana. Interessante, anche perché avvisaglia di un futuro a cui dovremmo abituarci, l’utilizzo di documentazione disponibile online. Più contraddittorio appare il rapporto con le fonti primarie, quali i documenti delle organizzazioni oggetto dell’inchiesta, le carte processuali e di polizia, il cui utilizzo sembra molto dosato. In questo si confermano le fragilità del rapporto fra contemporaneistica e archivi statali: una fragilità non frutto esclusivo di una scelta degli studiosi, ma indotta da diverse criticità. Fra queste possiamo annoverare l’indisponibilità negli archivi statali di molta della documentazione più recente, per ragioni di spazio ma non soltanto, gli effetti della normativa sulla consultabilità, ma anche l’estensione abnorme di questa documentazione. Sono queste criticità di lungo corso di cui provvedimenti occasionali seppur utili, come le direttive della presidenza del consiglio dei ministri di desecretazione della documentazione riguardante le stragi degli anni settanta o la digitalizzazione dei maggiori processi giudiziari, rischiano di diventare cure palliative.

andrea.tanturli@cultura.gov.it
A. Tanturli è archivista presso l’Archivio di stato di Firenze