Solerzia, dedizione totale al capo, sesso, lussi e maneggi
di Dianella Gagliani
Victoria de Grazia
Il perfetto fascista
Una storia d’amore, potere e moralità nell’Italia di Mussolini
trad. dall’inglese di Giovanni Garbellini, pp. XII-524, € 36,
Einaudi, Torino 2022
Grazie a un’enorme e varia documentazione di carattere pubblico e privato, Victoria de Grazia ci offre un ricco spaccato dell’Italia della prima metà del Novecento – e più in dettaglio degli anni del regime fascista – sotto il profilo sociale, politico, culturale e sentimentale facendo perno sulla relazione fra Attilio Teruzzi e Lilliana Weinman. Dapprima innamoratissimi diventano, poi, nemici l’uno all’altra e la loro vicenda potrebbe far da trama a una soap opera mentre, di fatto, si colloca interamente in quel contesto illuminandolo.
Al centro della scena vi è Teruzzi, un personaggio oggi sconosciuto ai più, ma ben noto specie dalla fine degli anni trenta quando era uno dei grandi gerarchi, “forse il più in vista di tutti, per la sua attrazione per la dolce vita di Cinecittà, le sue numerose apparizioni in pubblico, per le sue feste sfarzose, e per il suo famigerato patrocinio alle giovani ambiziose”. La folla di piazzale Loreto, per dire, era convinta che fosse lui l’uomo con la barba appeso al traliccio accanto a Mussolini, tanto pareva naturale che avesse fatto la fine del duce. Ma non era lui, come si scoprì dopo l’autopsia. Più che il perfetto fascista si può sostenere che Teruzzi sia stato il perfetto gerarca per la sua indiscussa obbedienza al capo che, negli anni trenta, chiedeva ai sottoposti non tanto prove di intelligenza quanto di fedeltà. Teruzzi non era un’aquila, ma un esecutore solerte e, soprattutto, la sua totale dedizione, il suo stare sempre mezzo passo dietro a Mussolini senza chiedere di più compensavano, agli occhi del duce, i suoi eccessi sessuali (una vera depravazione specialmente in Africa), il lusso delle sue ville, i suoi maneggi faccendieri. Teruzzi doveva tutto al fascismo e a Mussolini. Nato a Milano nel 1882 da una famiglia di condizioni modeste, aveva cercato una collocazione nell’esercito dove da furiere era giunto a diventare tenente e infine maggiore con al petto diverse medaglie al valore. Era un conservatore, un uomo d’ordine, e un militare coraggioso. Ma nel 1919-1920 non c’era più posto per lui nell’esercito e la frustrazione lo fece volgere – ma solo quando il fascismo ebbe compiuto la sua svolta in senso reazionario – all’attività squadristica. Sarà uno dei comandanti della Marcia su Roma. Sono rilevanti le considerazioni di De Grazia sulla compresenza di ordine e disordine nella vicenda di Teruzzi ed è significativo che riprenda il giudizio di Claudio Pavone sull’intreccio, nella violenza fascista, fra ordine estremo e caos estremo, fra Leviatano e Behemoth, contraddittori solo in apparenza.
Nel ventennio la carriera di Teruzzi è fra le più brillanti. Mentre riceve ulteriori promozioni militari (finirà per essere promosso generale di divisione e poi di corpo d’armata), siede alla Camera ininterrottamente dal 1924 al 1943, a volte per i suoi incarichi è membro del Gran Consiglio, è viceré della Cirenaica (da fine 1926 a fine 1928) e, poi, capo di Stato maggiore della Milizia per quasi sette anni. Sottosegretario dal novembre 1937 e ministro dall’ottobre 1939 dell’Africa Italiana tiene la carica fino al 25 luglio 1943 nonostante l’Africa italiana non esista più da tempo. Incarcerato nel periodo badogliano, è liberato dai nazisti e può raggiungere il duce che, però, a Salò non gli dà più incarichi pubblici. È fermato dai partigiani un giorno dopo l’uccisione di Mussolini, cosa che gli consente di sopravvivere. È processato e inviato alla fortezza di Procida da cui esce solo pochi giorni prima di morire nel 1950. Lilliana Weinman è più giovane di lui di 17 anni, è una ricchissima ebrea americana, determinata, ambiziosa e consapevole di ciò che vuole. E lei vuole diventare una grande cantante lirica. Talentuosa, si dà dure regole di autodisciplina. Studia con i maggiori maestri, e per proseguire negli studi, nel 1920 arriva con la madre a Milano, città che si avviava a diventare la capitale europea della lirica. Per cinque anni studia intensamente, fa i primi debutti, ammiratissima, e progetta nuove importanti esibizioni. Scrive: “Sento che diventerò una grande primadonna”.
Poi incontra Teruzzi e decide di sposarlo e di abbandonare la carriera. de Grazia si pone la domanda del perché di questa scelta, in qualche modo contraddittoria con la sua biografia precedente. Certo, lei è politicamente una conservatrice, un’antisocialista, e nutre simpatie per il fascismo. Certo, lui l’ha corteggiata secondo i vecchi criteri dei gentiluomini. Forse c’entra il ruolo che lui ricopre nel 1925: è deputato e sottosegretario al ministero dell’Interno e una delle personalità politiche più in vista di Milano. Lei, come dirà un suo discendente, “amava camminare sul tappeto rosso senza guardare cosa c’era sotto” e Teruzzi le offriva da subito il tappeto rosso. Ma forse c’entrava soprattutto l’amore, una vera e propria passione che sembrava legare entrambi. Così nel 1926 vanno sposi, con due distinti matrimoni: il primo in comune (con il duce nelle vesti di testimone), il secondo in chiesa e per il quale hanno dovuto ottenere una dispensa papale essendo lei ebrea. L’idillio fra Teruzzi e Weinman dura per i due anni della loro presenza in Cirenaica come viceré e viceregina. A marzo 1929, mentre lei è negli Usa, le scrive che non vuole rivederla più. E, di fatto, non la rivedrà più. Lei reagisce incredula e continua a reagire e a battersi cercando di parare i vari colpi bassi che lui le sferra, innanzitutto il ricorso alla Sacra Rota per l’annullamento del matrimonio. Il divorzio, cui non erano sfavorevoli i primi fascisti, non è possibile. Il Concordato, che tanti consensi ha portato al regime, si ritorce contro gli stessi gerarchi, Teruzzi fra questi. Nella sua faciloneria Mussolini ha lasciato alla chiesa il diritto a regolare il matrimonio e la chiesa non intende cedere questo potere. È un terreno su cui si misurano, scrive de Grazia con ragione, i limiti del totalitarismo fascista.
Weinman sa inserirsi in questa crepa e trova i migliori avvocati, fra cui Filippo Meda che sostiene l’insufficienza di estremi per avviare lo stesso procedimento. La teoria del non essere lei vergine alle nozze e di Teruzzi defraudato non basta per l’annullamento. E così si sentenzia a Pavia (al tribunale ecclesiastico che deve emettere una sentenza positiva prima che il caso possa passare alla Sacra Rota romana) nel settembre 1938, mentre il regime sta procedendo al varo delle leggi razziste, un’ulteriore causa di attrito, ancora sul matrimonio, tra il fascismo e la chiesa la quale, se può consentire le imprese africane e spagnole, non transige su questo terreno. Al varo delle leggi razziste Liliana è in America e là resta e vive alla grande fregiandosi del cognome Teruzzi, che può conservare perché il matrimonio non è stato annullato anche se, nel settembre 1939, a Pavia se ne sentenzia la nullità. Ma la causa deve passare a Roma e qui si inabissa. Ci sono poi altre due figure femminili in questa storia: Yvette Blank che, di 27 anni più giovane di Teruzzi, diventa la sua amante e nel settembre 1938 gli dà una figlia, Mariceli, adorata dal padre, desideroso di paternità. Probabilmente Teruzzi avrebbe sposato Yvette ma, per l’accentuarsi del tema della purezza della razza, nel 1941 l’allontana e infierisce contro di lei per tenere Mariceli con sé. Yvette è rumena e la figlia è registrata sul suo passaporto. Yvette è anche ebrea, ciò che ora diventa discriminante. Prima lui la costringe a nominarlo tutore legale della piccola, poi a toglierle il doppio cognome Blank-Teruzzi, infine a non vederla più. E per riuscirci la fa internare nel febbraio 1942 nella colonia di Lipari dalla quale uscirà solo con l’arrivo degli Alleati nell’agosto 1943. Yvette va a cercarlo, gli porta cibo nel carcere a Roma, poi con Mariceli lo segue al Nord. È con lui quando viene fermato dai partigiani e continua a seguirlo fino a Procida. È povera, i beni di Teruzzi sono stati confiscati e lui non è stato così abile da salvaguardare il futuro economico di sua figlia. Yvette mette in piedi una locanda per stargli vicino e consentire a Mariceli di vederlo. Dopo la morte di lui, si perdono le tracce delle due donne che, si apprende, si sono trasferite a Napoli dove Yvette trova lavoro e cresce con dignità la figlia.
È una storia molto triste quella di Yvette e Mariceli, mentre non si può dire altrettanto per quella di Teruzzi, il quale non mostra fra il 1945 e il 1950 alcun ripensamento e tantomeno pentimento. Neppure riguardo alle leggi razziste che tanto avevano inciso sulla sua vita privata. È triste, piuttosto, il suo continuare a sostenere le ragioni della guerra fascista e che si sarebbe potuta sconfiggere la Gran Bretagna in Africa se solo si fossero seguite le sue indicazioni militari che, detto per inciso, erano quelle di Mussolini. Ancora una volta era il gerarca fedele, di mezzo passo dietro al suo duce.
dianella.gagliani@unibo.it
D. Gagliani insegna storia contemporanea all’Università di Bologna