Le neuroscienze e la linguistica: dialogo e interazioni possibili

Dove puntare il nuovo cannocchiale

di Andrea Moro

dal numero di febbraio 2019

Poche realtà sono state così contese nelle culture di tutti i tempi come il cielo e il linguaggio. Per il cielo e il linguaggio ci si batte costantemente e di volta in volta si finisce con il proiettare su queste realtà quello che si pensa di tutto il resto. E anche la tecnologia non cambia di molto la rotta: certamente fornisce nuovi dati sui quali riflettere ma viene solo dopo un cambiamento di prospettiva filosofica, non prima. I cannocchiali erano già in uso nella marina olandese, ma solo Galilei – lo sappiamo tutti bene – osò puntarne uno verso la luna per vedere di cosa (sperava) fosse fatta. Quali sono gli strumenti e le aspettative che oggi contraddistinguono la ricerca nell’ambito degli studi sul linguaggio? Cosa cerchiamo e speriamo di trovare in linguistica?

Naturalmente, esistono tanti punti di vista quante sono le persone che possono rispondere a questa domanda, ma non è irragionevole provare a delineare un quadro sintetico della situazione che sia il più possibile condivisibile, cercando soprattutto di cogliere se e quali sono le novità rispetto agli studi del passato. Credo, a questo proposito, che sia opportuno comprendere che ci sono almeno quattro fattori che giocano un ruolo decisivo: lo studio delle proprietà formali del linguaggio, ormai emancipato dalla logica e dalla matematica che ne avevano motivato l’origine negli anni cinquanta del secolo scorso (Graffi); l’indagine sperimentale delle basi neurobiologiche del linguaggio, permessa dalle indagini in vivo sulle attività del cervello umano; la misurazione e il trattamento di grandi masse di dati linguistici, permessa dall’avvento di internet; la comparazione sistematica delle caratteristiche della comunicazione nelle varie specie viventi. Quattro fattori che stanno certamente cambiando il nostro modo di comprendere il linguaggio ma che ancora una volta, come sempre, collocano o dovrebbero collocare la riflessione a un livello più alto, per chiederci se abbiamo per le mani un nuovo cannocchiale e dove eventualmente dobbiamo puntarlo.

Di tutti questi quattro fattori, e sono molti altri che non ho nominato – primo tra i tanti la genetica, dal momento che non siamo nemmeno arrivati a riconoscere una distribuzione “mendeliana” di variazioni linguistiche –  certamente l’aspettativa maggiore è riposta nelle neuroscienze. Da un certo punto di vista, l’entusiasmo è giustificato: ad esempio, utilizzando la risonanza magnetica, per la prima volta nella storia possiamo accedere a dati che riguardano l’attivazione di reti neuronali in soggetti sani senza dover aprire la scatola cranica. D’altro canto, però, il bagaglio di conoscenze che proviene dalla linguistica non è immediatamente utilizzabile per esplorare e individuare le basi neurobiologiche del linguaggio. La situazione che si è venuta a creare merita una riflessione approfondita, tanto più urgente in quanto senza porsi delle domande su questa interazione non si può uscire da una fase di stallo nella quale apparentemente ci troviamo.

Una premessa è d’obbligo: il linguaggio – è evidente – è un universo di fenomeni e non ha senso cercare di spiegarlo integralmente; l’idealizzazione o semplificazione del campo di indagine – secondo quello che Husserl chiamava lo “stile galileiano della ricerca” – costituisce la premessa fondamentale anche in questo ambito. Naturalmente, non esiste una prospettiva privilegiata di fatti linguistici da esplorare: dalla natura dei fenomeni che riguardano il significante (che sia acustico o gestuale) a quelli che riguardano il significato (inteso in senso ampio come la capacità di generare significati sempre nuovi ricombinando un insieme limitato di elementi). Tuttavia, malgrado la neutralità dei dati potenzialmente osservabili, rimane il fatto che, tra tutti, la sintassi ha di fatto un ruolo privilegiato perché proprio la sintassi costituisce, come già riconobbe Cartesio, lo spartiacque tra la struttura del nostro linguaggio e quella di tutti gli altri animali. Dunque, un’indagine sui fondamenti biologici della sintassi, ben sapendo che si tratta di una semplificazione, si staglia in modo naturale per la sua centralità nel dibattito sull’evoluzione della nostra specie.

Credo che la situazione della ricerca attuale tra sintassi e neuroscienze possa essere sintetizzata in questo modo. Da una parte, la ricerca formale sulle strutture sintattiche ha mostrato che le lingue umane sono soggette a restrizioni che ne limitano la variazione (Rizzi, 2009): per far questo, ovviamente si è dovuti passare dalle descrizioni tradizionali alla decomposizione “in fattori primi” delle struttura sintattiche inaugurata dall’avvento della grammatica generativa di Noam Chomsky. Dall’altra, la ricerca in ambito neuropsicologico e neurofisiologico, o più in generale neurobiologico, sta rapidamente elaborando modelli sul funzionamento del cervello molto sofisticati, inimmaginabili solo una ventina di anni fa: sia quali siano le reti coinvolte, sia su quali sia il codice di informazione elettrofisiologica impiegata (Friederici et al.). Il problema empirico e teorico che ci troviamo di fronte è che queste due prospettive, quella formale e quella neurobiologica, non sembrano essere in grado di dialogare, cioè non sembrano in grado di produrre paradigmi sperimentali che spieghino, o almeno, verifichino l’isomorfismo tra i meccanismi sintattici ipotizzati a livello formale e il funzionamento del cervello.

Viene comunemente ammesso che questa situazione sia dovuta a un diverso grado di “granularità” delle due discipline (Poepple, 1996). Accanto alla finezza, sia pure relativa, dei modelli neurobiologici, la linguistica offrirebbe ancora livelli grossolani dove gli elementi primitivi non sono adatti ad essere espressi in termini biologici. Credo che questa valutazione sul rapporto tra neuroscienze e linguistica sia scorretto e forviante per almeno due motivi. Il primo è che lo sforzo della linguistica non può né deve essere quello di adattare le ipotesi sul repertorio e la natura degli elementi primitivi del linguaggio alle conoscenze in ambito neurobiologico e non certo per una questione di prelazione accademica: il compito della linguistica, come quello di ogni scienza empirica, è solo quello di spiegare dei fenomeni senza inventare delle ipotesi, di ricondurre cioè la complessità e la varietà di fenomeni apparentemente scorrelati all’interazione di principi semplici sulla base di osservazioni sperimentali. In questo senso la questione della granularità in linguistica è sì decisiva ma non perché è comandata dall’esigenza di interazione con un’altra disciplina, ma perché ogni scienza deve cercare di ridurre al minimo l’apparato descrittivo. Il secondo motivo è che non esiste nessuna garanzia che le neuroscienze siano a un livello di granularità ideale per spiegare e comprendere i fenomeni linguistici e che non debbano esse stesse a dover cambiare radicalmente per essere in grado di motivare le predizioni che sorgono in ambito formale. D’altronde, anche una delle più citate unificazioni scientifiche di tutti i tempi, quella tra la chimica e la fisica è stata possibile non tanto perché la chimica si è dissolta nella fisica ma perché la fisica, trasformandosi radicalmente con l’avvento della meccanica quantistica, ha permesso di convergere dal punto di vista sperimentale.

Detto questo, è comunque vero che l’interazione tra neurobiologia e linguistica ha comunque dato anche nell’ambito della sintassi risultati decisivi e non immaginabili fino alla fine del secolo scorso. In questo senso, vale la pena di citare le parole di introduzione di Eric Lenneberg che scrive “Una ricerca biologica sul linguaggio appare necessariamente paradossale dal momento che viene così ampiamente ammesso che le lingue consistono di convenzioni culturali di natura arbitraria. Wittgenstein e i suoi seguaci parlano di gioco linguistico, assimilando quindi le lingue ai complessi di regole arbitrarie dei giochi di società e degli sport” (Lenneberg). È stato proprio utilizzando delle tecniche di neuroimmagini che si è riusciti a mostrare che la natura delle regole sintattiche che governano tutte e sole le lingue umane non può essere arbitraria e convenzionale. In almeno due esperimenti indipendenti, infatti, si è visto che quando si apprendono regole che sfuggono ai principi comuni individuati su base formale il cervello le riconosce e disattiva i circuiti dedicati naturalmente al linguaggio (Moro 2015, 2016). La scoperta di un correlato neurobiologico alle “lingue impossibili” costituisce dunque un preliminare decisivo per una garanzia che gli studi di neurolinguistica non siano vani malgrado la questione della granularità delle due discipline.

Naturalmente, le osservazioni elaborate qua sono pertinenti solo a uno dei fattori che caratterizzano gli studi di linguistica contemporanea tra quelli elencati prima e che costituiscono certamente una rassegna parziale. A fronte della dissoluzione del caveat di Lenneberg, sorge un nuovo problema che a dire il vero si è ripresentato dopo che è sembrato esser risolto sul finire degli anni cinquanta del secolo scorso. Le nuove potenti risorse di calcolo e la disponiblità di enormi masse di dati hanno fatto rinascere quella che mi pare un’illusione pericolosa, vale a dire la convinzione che simulare il comporamento linguistico con una macchina coincida con il comprendere il funzionamento dal punto di vista neurobiologico. In questo senso, se mai ce ne fosse bisogno, una conoscenza reale della linguistica, che ne comprenda tutti i domini, incluso quello diacronico, storico e psicolinguistico, confido che possa funzionare da deterrente nella comunità scientifica per evitare di imboccare un vicolo cieco già esplorato ed abbandonato da tempo.

I libri

Giorgio Graffi, Breve storia della linguistica, Carocci, Roma (in corso di stampa)

Andrea Moro, I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, il Mulino, Bologna 2018

Noam Chomsky, Il mistero del linguaggio, Nuove Prospettive Cortina, Milano 2018

Angela D. Friederici, Noam Chomsky, Robert C. Berwick, Andrea Moro e Johan J. Bolhuis, Language, mind and brain, “Nature Human Behaviour”, 1, 2017

Andrea Moro, Le lingue impossibili, Cortina, Milano 2017

Luigi Rizzi, The discovery of language invariance and variation, and its relevance for the cognitive sciences, “Behavioral and Brain Sciences”, 32(5), 2009

David Poeppel, Neurobiology and linguistics are not yet unifiable, “Behavioral and Brain Sciences”, 19(4), 1996

Eric H. Lenneberg, Fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri, Torino 1982

andrea.moro@iusspavia.it

A. Moro insegna linguistica generale all’Università di Pavia