Maria Anna Mariani: “La Corea mi ha insegnato cosa accade agli affetti”

Dolce spaesamento

intervista di Francesca Del Vecchio

“Sa com’è nato questo libro? Dalle mail, una lunga e frequente corrispondenza collettiva con la mia famiglia e i miei amici rimasti in Italia”.

A metà tra la grande letteratura di viaggio e il diario, Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exorma Edizioni), è un reportage di viaggio dalle frasi pirotecniche: una narrazione che ha poco dello stile lapidario di Bruce Chatwin di In Patagonia, ma ne ricalca la potenza immaginifica; un testo che trae spunto dall’attenzione ai dettagli del polacco Ryszard Kapuściński in Ebano. Ma racconta di lei, Maria Anna Mariani, protagonista e autrice.
Classe ‘82, docente di letteratura italiana alla University of Chicago, è partita alla volta della Corea del Sud dopo il dottorato di ricerca all’Università di Siena e ha vissuto a Seul per quattro anni. Quando le domandiamo perché ha deciso di partire, la sua risposta è inequivocabile: “Per trovare un lavoro che in Italia non c’è. Ma anche per un impulso meno razionale: allontanarmi il più possibile dal luogo di partenza, dalla città natale. Andare via per farmi mancare tante cose essenziali: lingua, cibi, amici, amori, gesti. Illudendomi così che, se sono tante le cose che mancano, l’unica – che davvero è irrevocabilmente perduta – manchi di meno. Era un esperimento geografico col lutto. Ma non ha funzionato”.

È per questo che ha iniziato il suo libro parlando degli stranieri che vivono a Seul, invece di descrivere i coreani?

Prima di mostrare la Corea, volevo presentare chi la guarda e la racconta, e dunque chi la deforma senza sosta. Non l’ho fatto solo per mettere in chiaro il mio punto di vista; m’interessava, prima di tutto, mostrare un duplice spaesamento: quello di chi vive in un paese straniero e lo esplora incantato o lo subisce atterrito; e quello di un dormitorio universitario, abitato da persone che arrivano da ogni nazione del mondo, e che finiscono per diventare stereotipi ambulanti del proprio paese. Questo dormitorio era un diagramma del globo. E se dentro a un villaggio, in un paese orientale, troviamo un diagramma del globo, quale cortocircuito produce questo accostamento? Come viene schiacciata e banalizzata l’idea di razza, in che modo ne risente la lingua, che tipo di relazioni possono stabilirsi? Questo volevo raccontare.

Lei come ha vissuto questo spaesamento, e come si è adattata?

Rendendo l’estraneità stessa una condizione familiare: giustificavo la mia inettitudine linguistica e culturale con l’alibi dello “straniero piombato dentro un’atmosfera aliena”. Se non so, non capisco, non faccio oppure faccio troppo e male, è perché sono straniera. Questo era il mio ritornello mentale. Ho trasformato lo spaesamento in esonero. E anche questa è una forma di adattamento.

Oggi parla coreano?

Solo quando vado in lavanderia, che è gestita da una signora coreana che si diverte a sentirmi parlare. Grazie a lei, padroneggio il lessico delle macchie e dei tessuti; ma tutto il misero resto che avevo assimilato sta diventando sempre più opaco.

Il suo libro ha la forma di un diario. È corretto?

Questo testo è nato scrivendo email collettive alla mia famiglia e ai miei amici rimasti in Italia. Sembra un diario perché quelle erano lettere egoiste, in cui non scrivevo mai: “Cari miei, come state, mi mancate tanto. Ora vi saluto. firma”. Quelle email servivano a me, per non perdere le metafore, per non rinsecchirmi la lingua.

È per questo che i suoi colleghi di lavoro e gli amici di Seul diventano una specie di famiglia?

La Corea mi ha insegnato cosa accade agli affetti, in quella dimensione di doppio spaesamento di cui parlavo all’inizio. Le persone che avevo conosciuto, i miei colleghi stranieri, erano diventati in un lampo molto più che colleghi. Alcuni erano arrivati a incarnare ruoli fondamentali. Erano surrogati dei genitori – quelli vivi e quelli morti – e dei nonni che imboccano la pastina. Di quelle maestre che insegnano a contare. E lo pensavo davvero. Credevo di condividere tutto con alcuni di loro. Ma ora mi rendo conto che quel che condividevamo era solo il dramma della reificazione reciproca e ottusa. Ci eravamo tramutati a vicenda in cliché ambulanti dei nostri paesi, ci eravamo scolpiti così, gesto dopo gesto e coi nostri accenti sghembi. Era questa trasformazione in oggetti esotici che ci stringeva insieme. Non c’era nient’altro a legarci. Ma ce ne siamo accorti, ora.

Nel libro parla di “diritto allo sguardo”. Quanto ha pesato, nella realizzazione di questo reportage?

È stato essenziale, sicuro. Ma a volte avevo l’impressione che questo diritto mi venisse sottratto. Lavoravo così tanto che lo sguardo mi diventava molle, non era prensile. Le cose mi scivolavano via dalle ciglia prima che potessero tradursi in parole. L’attenzione ai dintorni era un lusso che non sempre mi era concesso.

Inevitabile chiederle come abbia vissuto, durante la sua permanenza in Corea, la vicinanza con lo spettro di Pyongyang.

Spettro è la parola giusta. In Corea del Sud, Pyongyang è un rimosso permanente, che ogni tanto riaffiora in modo traumatico e invasivo, ma che per la maggior parte del tempo se ne sta in fase di latenza: non ci si pensa. È l’unico modo per conviverci. E se anche tu in Corea vuoi starci, devi fare così.

Interessante è il racconto della visita ai territori smilitarizzati al confine, per i quali è previsto un particolare dress code. Curioso, non trova?

All’inizio mi sembrava una forma vuota e pura di regolamento, un comandare tanto per comandare, che reclama un obbedire tanto per obbedire. Ma adesso credo invece che rispondesse a quel bisogno di solenne serietà che la visita di un luogo del genere richiede. Il turista medio si veste in modo agghiacciante: visita Auschwitz con la maglietta di Jurassic Park (e ce lo mostra il documentario Austerlitz di Sergei Loznitsa). Penso che la maglietta di Jurassic Park e le infradito abbiano un effetto sullo sguardo e sui gesti di chi osserva.

“Perché in Corea, tutto, ma proprio tutto, è plasmato dalla gerarchia”. Questa frase colpisce molto. A cos’altro si riferisce, oltre alla lingua, che abbia sperimentato direttamente?

Entrare, uscire, sedersi, alzarsi, parlare, stare zitti, inchinarsi, raddrizzarsi, invitare, pagare, assentarsi, ammalarsi… Soprattutto ammalarsi. Come accade in ogni altro luogo del mondo. Ma qui in forma esasperata, al punto che mi sembrava che questa gerarchia contagiasse anche i tubi di neon e il loro accendersi/spegnersi. Codificato anche questo.

Dopo il debutto nella saggistica, Dalla Corea del Sud consacra il suo esordio nella narrativa “non fiction”. Quale genere letterario si sente meglio addosso?

Mi piace definire questo libro un reportage narrativo: non sono capace di inventare storie, proprio no. Per questo, poi, scrivo saggi e articoli. Ma la forma con cui mi sento più a mio agio è l’email collettiva: scelgo i miei lettori, vado sul sicuro. Infliggo racconti. Ma almeno una persona – poi – mi risponde. E sono contenta.

francescadelvecchio1@gmail.com

F Del Vecchio è è giornalista. Scrive prevalentemente di Esteri e cultura arabo-islamica

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