A caccia nei sogni e la tenerezza che calibra lo sguardo: intervista a Tom Drury

Toast al burro d’arachidi e un bicchiere di latte: il Midwest che piace

Intervista a Tom Drury di Matteo Fontanone

dal numero di dicembre 2017

A caccia nei sogni è uscito negli Usa nel 2000, quasi vent’anni fa. A distanza di tempo, ricorda che cosa l’ha spinta ad abbandonare la vastità dei Vandalismi per concentrarsi su un lasso di tempo così microscopico come un fine settimana?

Se c’è una cosa che detesto è ripetermi. In quanto scrittore ho sempre bisogno di stimoli nuovi, di cambiare, di sfidarmi. Se c’è una cosa che amo, invece, sono i personaggi, ed era sulla loro rappresentazione che mi volevo soffermare per il secondo capitolo della trilogia: ho pensato che sarebbe stato interessante concentrare in un piccolo lasso di tempo una serie di momenti determinanti della famiglia di Charles. Quattro protagonisti, quattro giorni e sedici capitoli in totale, quattro per giorno. Nella Fine dei vandalismi Charles c’era già, e aveva il ruolo dell’antagonista. Per questo secondo libro avevo pensato subito a lui, mi incuriosiva capire che fine avesse fatto, come fosse invecchiato, cosa fosse diventato il suo mondo.

Nonostante nei paesi di Grouse County si percepisca una discreta tranquillità economica, il sogno americano è del tutto assente, soppiantato dalla mancanza di orizzonti per i suoi abitanti.

Il sogno americano è artificiale, è un cliché perpetrato a uso e consumo del mondo che ci guarda dall’esterno, nel paese di oggi ha perso qualsiasi significato o aderenza simbolica. Mi piace che i sogni siano un fatto privato dell’individuo, non che vengano imposti dall’alto. C’è un personaggio di A caccia nei sogni, Mona, che ha una grande idea di sogno americano: era una sorta di celebrità nel mondo della medicina con una carriera brillantissima davanti a lei, ma rimane coinvolta in uno scandalo di morfina. Mona impara dalla sua caduta, sviluppa una certa idea di resistenza e autonomia, finisce per aprire un ambulatorio in un quartiere difficile.

A Grouse Country la vita è noiosa?

No, perché la noia è una questione di gusto, dipende dal sentire del singolo. I miei personaggi vivono delle piccole vite, ma non credo siano noiose: ognuno di loro è focalizzato sul proprio lavoro, sulle proprie relazioni. Certo, nessuno cambia le sorti dell’universo o vive esperienze da attacco cardiaco, semplicemente ce la mettono tutta per andare avanti. Ecco, io non le considero vite noiose: un’occupazione, qualche passione, degli affetti.

In questo secondo libro la notte è il momento più importante. Prima con il tentato stupro di Follard ai danni di Lyris, poi con la passeggiata silenziosa di Micah, che è solo un bambino.

Probabilmente Follard è il personaggio più cattivo della contea, quello con le intenzioni peggiori. Passa la notte con un metal detector in giro per le foreste a cercare oggetti metallici, probabilmente anche persone a cui far del male. È il mio mostro nel bosco. Lyris riesce a sfuggirgli mettendo a repentaglio la sua sicurezza, attraversa un fiume gelido e viene soccorsa da un gruppo di cacciatori di volpi. A caccia nei sogni in effetti è un libro molto notturno, le cose più importanti succedono sempre in una fascia oraria durante la quale i personaggi della Fine dei vandalismi dormivano. Micah sogna una corsa in bicicletta che, per quanto spettacolare, finisce con una caduta rovinosa. Vuole la libertà ma deve imparare a gestirla: quando sfugge dalla custodia della nonna e si addentra nella città addormentata, vede dietro a una finestra un uomo solo che guarda del porno. Ogni azione comporta una conseguenza, e le conseguenze di notte si amplificano.

Chi la legge spesso ha pensieri discordanti, su questo: il suo microcosmo rappresenta la tenerezza o la desolazione?

Credo che la tenerezza sia un bellissimo modo per calibrare il proprio sguardo. Se metto in piedi un personaggio mi sento responsabile per lui e per le sue difficoltà: ciò non vuol dire che non possa finire in tragedia, anzi, ma ai personaggi bisogna dare sempre dignità e anche un po’ di privacy, uno spazio in cui lo scrittore non deve intrufolarsi. Perché costruire un personaggio se poi devi trattarlo male? Certo, poi possono succedergli delle cose brutte, ma non deve mai mancare la speranza di attraversarle e arrivare dall’altra parte, come fa Lyris nuotando nel fiume. È il mio approccio, è un’attitudine nei confronti della vita che poi si fa letteratura.

L’interesse per la profonda provincia americana, in questi ultimi anni, sta crescendo esponenzialmente: il suo editore italiano è lo stesso che ha pubblicato Kent Haruf, ma penso anche al lavoro che sta portando avanti minimum fax con Pancake, Brautigan e Offutt: in che termini si spiega questa curiosità del pubblico?

Se si guarda all’oggi, gli Stati Uniti interessano per i risvolti politici della più stretta contemporaneità. È inutile ribadire quanto le cose non vadano bene: come possiamo uscirne? La letteratura, in questo senso, è una via di fuga preziosa. Dall’estero ci guardano per capire come stiamo cercando di reagire. A parte questo, in realtà, le belle storie hanno sempre il loro peso: se ci sono un bell’intreccio e dei personaggi riusciti, con tutta la loro rete di relazioni umane, successo e fallimento, commedia e tragedia, se questi personaggi riescono a diventare vivi, ecco, non importa da dove provengono le storie. Ma forse la tua è una posizione più privilegiata per dare una risposta.

Si potrebbe pensare che in ballo ci sia anche una questione estetica: l’esotismo del bicchiere di latte e del toast al burro d’arachidi, un certo modello di America meno battuto.

Un posto in cui la colazione è chiamata cena e la cena colazione! È importante scrivere di cosa fosse questo mondo, il tempo scorre in fretta e certi stili di vita verranno dimenticati. Se oggi mi guardo indietro e penso a cosa era il Midwest negli anni novanta trovo le stesse descrizioni della Fine dei vandalismi. Grouse County nasce sulla base delle mie sensazioni dell’epoca, ma soprattutto a partire dai ricordi di un’età ancora precedente, i seventies. Il gioco, per il me di quegli anni, era di scrivere una storia che fosse contemporanea ma potesse appoggiarsi a un immaginario che apparteneva già al passato.

Quali sono i suoi modelli narrativi?

Mia madre. Scriveva delle bellissime lettere. Poi c’è stata la scrittura umoristica e quella postmoderna, penso a Pynchon. Ma ho capito che avrei voluto fare lo scrittore leggendo le parole di mia mamma.

matteo.fontanone@gmail.com

M Fontanone è critico letterario


Exit strategy: sul numero di Dicembre 2017 Matteo Fontanone recensisce A caccia nei sogni di Tom Drury.