Emmanuel Carrère: Hugo è l’oceano, Flaubert non mi fa affatto bene, Čechov suona sempre giusto

Intervista a Emmanuel Carrère di Agathe Novak-Lechevalier

dal numero di giugno 2017

Se le parlo del XIX secolo, a che cosa pensa spontaneamente?

Penso – non lo dico per farle piacere – che è il secolo che preferisco. È uno spartiacque: ho l’impressione che da una parte ci siano quelli che amano l’Ottocento e dall’altra quelli che amano il Settecento. È un antagonismo sul tipo di quelli che contrappongono tradizionalmente Voltaire a Rousseau, Balzac a Stendhal, Tolstoij a Dostoevskij. Per Léon Daudet, che ha lanciato la famosa espressione “lo stupido secolo XIX”, l’Ottocento è il secolo dell’imbecillità trionfante. Grandiosa, magnifica, geniale, ma pur sempre imbecillità, legata alla sciocca idea del progresso, a un amore un po’ belante per l’umanità al quale si contrapporrebbe la lucidità, arida e vivace, del Settecento. Ne conosco, di persone così, – ho un’amica che mi diceva: è evidente che il Settecento era un’epoca superiore, in cui erano tutti più intelligenti, più spiritosi, più brillanti… Ma, in fondo, il Settecento non mi piace veramente. No, insomma, mi piace Rousseau

Direbbe che è una questione di ritmo?

Un po’. Non sono musicista, ma amo molto la musica. E la musica che amo di più è la musica dell’Ottocento, preso proprio dall’inizio, includendo Beethoven e Schubert, e, al capo opposto, tutta la fine dell’Ottocento, Fauré-Debussy-Ravel per la Francia, e per la Germania e per il nord tutta la musica sinfonica post-romantica: Bruckner, Sibelius. La grande sinfonia tardoromantica è l’apogeo di quel che possiamo definire il ba-da-bum, il lato elefantiaco del XIX secolo, ma io lo adoro. Dirò una cosa sacrilega: in Mozart, c’è tutta una parte che non mi piace, ed è proprio la parte settecentesca, tutto quel che fa pensare alle parrucche, ai minuetti, ai rondò saltellanti, scritti evidentemente col pilota automatico: è roba che non fa per me. C’è un personaggio in Guerra e pace che incarna un po’ tutto questo: il padre del principe Andrej, una vera incarnazione del XVIII secolo, un omino secco secco, bisbetico, iperattivo, che continua a portare la parrucca incipriata quando non la porta più nessuno. L’amica di cui parlavo, quella che fa l’elogio del Settecento, ha una teoria. Dice che bisogna ridurre al minimo il tempo interstiziale, restare attivi, liberarsi dei tempi morti. Proprio come il vecchio principe Bolkonskij: fa molto Settecento, mi pare, quest’idea che non devono esserci vuoti. Nella mia visione dell’Ottocento, invece, ci devono essere dei tempi morti, delle zone piatte, degli spazi vuoti. È strano: si potrebbe dire che l’Ottocento è il secolo del pieno, anzi, del troppo pieno, ma io amo soprattutto le sue lande deserte, come la landa di Lessay in La stregata di Barbey d’Aurevilly. O Cime tempestose, o le ultime sonate di Schubert: così desolate, così rarefatte, credo siano in assoluto la musica che amo di più.

E tra gli scrittori, quali potrebbero far parte di quella che Florence Delay, che lei cita, definisce la famille insistante, la famiglia che non ci lascia mai?

Evidentemente c’è il grande blocco dei russi. Fanno davvero parte della cultura francese; poche letterature straniere si sono integrate nella cultura francese quanto il grande romanzo russo dell’Ottocento, lo hanno letto tutti. Tolstoj, Dostoevskij, Čechov, e anche Gogol’ e Turgenev, sono proprio nel cuore dei miei gusti letterari. Anche i romanzi inglesi: Dickens, Thomas Hardy, o anche Anthony Trollope, tutti quei romanzoni confortevoli, dove abbiamo voglia di installarci per passare delle lunghe giornate d’inverno, distesi su un divano, sotto una coperta. In questo genere, il massimo è Thomas Hardy: ci si immerge nei suoi romanzi, che pure sono profondamente tristi, sono forse tra i libri più tristi che esistano… Jude the Obscure, francamente non credo che esista un libro più triste. No, ce n’è uno che è più triste ancora, e che mi sbalordisce ogni volta, è Ethan Frome, di Edith Wharton. È breve, è quello che gli anglosassoni designano con il termine novella, ed è strano sia stato scritto da una romanziera specializzata nell’alta società newyorkese. È una specie di dramma rurale, aspro, tragico, taciturno. Al confronto, Cime tempestose sembra Tutti insieme appassionatamente. È il libro più sinistro del mondo, ed è un capolavoro assoluto. Lo rileggo ogni cinque-sei anni, sarò un po’ masochista, ma è pur sempre uno dei libri più straordinari che io conosca.

Dunque soprattutto romanzieri stranieri?

Ah no, tra i francesi adoro Hugo. Qualche anno fa ho riletto I miserabili, che mi era piaciuto molto ai tempi della mia adolescenza; non immaginavo che rileggendolo mi sarebbe piaciuto altrettanto. Mi ha letteralmente sbalordito. Pierre Michon, un giorno, ha detto davanti a me: “Hugo è l’oceano”. Proprio così, è il contrario del XVIII secolo. Tutto quel che si può dire di peggio sull’Ottocento, lo si può dire di Hugo: ne è veramente l’incarnazione, ne ha il lato geniale ma anche il lato “borghese con l’orologio da taschino che tocca il culo alla serva”. Resta il fatto che lo trovo grandioso, incredibilmente commovente, e che preferisco l’ingenuità spesso tutt’altro che ingenua di Hugo a tutta la pretesa scaltrezza di quelli che “non la bevono”.

Lei non cita Flaubert, che pure appare abbastanza spesso nei suoi romanzi.

Per me Flaubert costituisce un caso molto problematico. Lo adoro, desta in me una grandissima ammirazione e un sentimento molto forte d’essere a casa; ma non mi fa affatto bene, anzi, su di me ha una cattiva influenza. Si colloca all’opposto del ritmo sempre allegro, vivace e un po’ asciutto di Stendhal, un ritmo che in teoria mi seduce ma che leggendolo non ritrovo mai. Flaubert rivendica invece il suo stile incredibilmente laborioso, il modo in cui la sua frase resta di continuo come impantanata. In Flaubert, tutto ricade, tutto si impantana e si invischia, è l’argomento stesso dei suoi due grandi romanzi Madame Bovary e L’educazione sentimentale (non sono una di quelle menti perverse o particolarmente sottili che adorano Salammbô). Quella posizione da cui guarda sempre le cose dall’alto, e l’aderenza perfetta della frase, del ritmo, a questa sua visione di un mondo impantanato, in cui ogni slancio è destinato a fallire, mi sono essenzialmente nocive. Come se in quella prosa lì ci fosse una specie di bacillo: appena si insinua dentro di me, mi fa male.

Ci sono altre opere che le fanno lo stesso effetto?

Non per la lingua, ma in termini di visione del mondo, è una cosa che mi capita anche con Simenon. I libri di Simenon – devono essere almeno duecento – raccontano sempre la stessa cosa: la storia di un omino che cerca di uscire dai binari della sua vita. E appena comincia a farlo, Simenon gli schiaffa un coperchio sulla testa e lo spappola. I libri di Simenon non raccontano mai altro, ma sempre con la stessa straordinaria forza, con la stessa umanità , incredibile in un autore così disilluso, così cattivo, addirittura. Anche a Flaubert piaceva raccontare sempre la stessa cosa – salvo quando scriveva i suoi polpettoni in costume, una cosa che non ho mai capito. La cosa più stupefacente è che lui aveva l’impressione che quel che veramente gli piaceva era scrivere i polpettoni in costume, che era per scrivere qualcosa d’altro che si doveva sforzare. È quel che dimostra la famosa storia della lettura di La Tentazione di Sant’Antonio a Bouilhet e a Du Camp, convocati per tre giorni interi. Alla fine i suoi due ascoltatori, che sono due veri amici, costernati, gli dicono: “No, davvero, proprio non va, questa roba devi lasciarla perdere. Scegli una storia banalissima, invece, e vediamo cosa viene fuori”. E Flaubert scrive Madame Bovary. La adoro, questa storia, fa parte delle grandi storie della storia letteraria.

In L’avversario (Adelphi, 2013), a un certo punto lei rinuncia a scrivere il suo romanzo perché , dice, “l’io suona falso”. Che cosa le permette di valutarlo? Di sentire se l’io suona falso oppure no?

Credo di avere un buon orecchio, per i miei scritti e anche per quelli degli altri. Non glielo saprei spiegare: in realtà, è quasi una questione morale. Una frase – non soltanto in termini flaubertiani di eufonia, ma anche in rapporto a quel che cerca di raccontare – suona giusta o stonata? Per me è il criterio essenziale, anzi, l’unico. E, per strano che possa sembrare, ho l’impressione di accorgermi sempre se una cosa viene dal profondo, o se è una cosa detta così per dire, che non ha radici, che non è davvero sentita: quelle cose che uno scrive per fare il furbo, o perché è uno scrittore e allora bisogna pur che scriva qualcosa, o per far funzionare in qualche modo la narrazione. Come lettore, ho l’impressione di accorgermene, è una questione di orecchio, ma so che del mio orecchio, su questo, mi posso fidare.

Ci sono autori che hanno particolarmente contribuito a educarle questo “orecchio”?

Molti. Tutti gli autori che mi piacciono, mi piace che suonino giusto. L’autore per eccellenza di cui si ha l’impressione che suoni sempre giusto, è Čechov. Non c’è mai una piccola distorsione, mai: gli viene praticamente naturale. Penso che sia una virtù, una posizione morale.

Dei modelli negativi?

Ce ne sono un sacco, anche tra gli autori importanti e riconosciuti come tali. Nella mia giovinezza ho amato appassionatamente Nabokov: era davvero il mio eroe letterario. Adesso non lo è più per niente: trovo che si sente sempre qualcosa di un po’ forzato in quella sua prosa, d’altronde così incredibilmente duttile e flessuosa. Una sorta di pedanteria, quella posizione di chi guarda dall’alto che mi disturba moralmente. Non è un fatto legato alla semplicità o alla complessità della frase: per esempio, Proust, trovo che suona sempre giusto, anche se le sue frasi sono incredibilmente ingarbugliate. Ha una particolarità, per me: nonostante la proverbiale lunghezza delle sue frasi, della loro complessità grammaticale, io trovo che Proust è un autore molto rapido. È un autore che va sempre al dunque, come se, nonostante tutto, visto quel che aveva da dire, avesse trovato il modo più rapido di farlo. Quello che ha da dire è complicato, quello che ha da dire è fluttuante, deve passare attraverso una serie di tappe, ma non trovo che la tiri in lungo, che diluisca. Il risultato è abbastanza spiazzante.

Lei ha scritto un romanzo di ispirazione fantastica, Baffi; ha reso omaggio a Philip K. Dick in Io sono vivo, voi siete morti (Adelphi, 2016); in uno degli articoli di Propizio è avere ove recarsi (Adelphi, 2017), dice di Lovecraft che l’ha conquistato per sempre. Che posto occupa la letteratura fantastica nella sua biblioteca personale?

 Da quando mi sono imbattuto, nella biblioteca dei miei genitori, in un libro di Lovecraft, il fantastico è stato una delle grandi passioni della mia vita di lettore. È un campo in cui, posso dirlo senza esagerare, ho una cultura enciclopedica. Questo ci riporta all’Ottocento: è allora che il fantastico si è staccato dalla fiaba e dalla leggenda per diventare un genere letterario a sé. Su questo, c’è un altro aneddoto che adoro: quella riunione in riva al lago Lemano dove c’erano Byron, il suo medico Polidori, Shelley e Mary Shelley, che Shelley aveva rapita e che doveva avere diciassette o diciotto anni. Byron era la rockstar assoluta dei suoi tempi, e quella era una specie di riunione di hippy di lusso. Andavano molto in barca sul lago. Un giorno si è messo a fare brutto, bisognava trovare qualcosa da fare. Uno di loro ha lanciato la scommessa di scrivere una storia fantastica: erano la novità del momento, le storie che facevano paura. E Mary Shelley ha scritto Frankenstein. Così tipico del XIX secolo: maldestro, enfatico, grossolano. Ma quella ragazza di diciotto anni ha scritto un libro che sarà letto finché esisteranno i libri, un libro eterno, un capolavoro, un libro che mi piace infinitamente.

Leggendola e ascoltandola, si sente l’importanza che lei attribuisce a un certo primato del racconto, molto caratteristico del romanzo dell’Ottocento.

È una cosa che apprezzo e alla quale sono molto sensibile. Poco tempo fa ho riletto L’idiota di Dostoevskij. Non mi ricordavo una cosa, la prima parte del romanzo, una prima parte che occuperà all’incirca trecento pagine. Racconta ventiquattr’ore, comincia su un treno. Delle persone si incontrano, non hanno dormito, sono stravolte, febbrili, parlano: a partire da lì non si ferma più, non c’è una pausa, un’ellissi. Seguiamo come in tempo reale le ventiquattr’ore del principe Myškin, vediamo le dozzine di personaggi secondari che incontra e le anticamere dove si trovano tutte queste persone… senza interruzioni. È una cosa di una forza incredibile in termini di propulsione narrativa, ed è una cosa che ammiro enormemente. C’è un equivalente contemporaneo, trovo, ed è Hergé, in L’affare Girasole. Le prime venti pagine di L’affare Girasole sono un’unica sequenza, anche quella senza interruzioni. Siamo a Moulinsart, c’è il professor Girasole che fa i suoi esperimenti, il capitano Haddock che vorrebbe vivere la sua vita tranquilla da castellano alcolista, i Dupont che arrivano, e poi Séraphin Lampion con i suoi contratti da assicuratore, e poi le spie della Borduria e della Syldavia che si appostano nel parco e dicono quella frase che adoro: “Per i baffi di Pleksy-Gladz, c’è già qualcun altro che lo sorveglia”. È una cosa folle. È cucina letteraria, ma quella forza di propulsione che parte, e che, una volta partita, è un treno che sappiamo che nulla potrà più fermare , io la adoro. Adoro gli autori che ti acchiappano così e non ti mollano più.

In che misura pensa che queste letture romanzesche abbiano influenzato le sue scelte e la sua vita? C’è un passo molto divertente in Limonov (Adelphi, 2014) in cui lei spiega come i suoi genitori hanno scoraggiato le sue ambizioni di diventare fiociniere su una baleniera, nate dalla scoperta di Ventimila leghe sotto i mari

È vero, ma non c’entrava solo il libro, c’era anche il film di Richard Fleischer, che devo aver visto a nove o dieci anni. C’erano dei grandi attori: il meno noto è Paul Lukas, che faceva il professor Aronnax, ma c’era Kirk Douglas come Ned Land, James Mason come capitano Nemo, e Peter Lorre, il famoso Mostro di Düsseldorf, che interpretava Conseil, il cameriere del professor Aronnax. Naturalmente, pochi bambini decidono di identificarsi con il cameriere. Però c’era una bella scelta: il ribelle assoluto, Nemo; l’uomo di scienza, Aronnax; e poi l’avventuriero plebeo, Ned Land. E io che ero un bambino piuttosto gracile, con gli occhiali, io sognavo di essere Ned Land, il fiociniere. Non so perché avevo lasciato perdere Nemo, che pure era il personaggio più affascinante; forse, in fondo, non l’avevo mica poi tanto lasciato perdere. In ogni caso, a un certo momento, mi sono detto che, se non potevo diventare fiociniere, sarei diventato un uomo di scienza; e, come il capitano Aronnax, ho deciso di scrivere un libro sui grandi fondali sottomarini. E l’ho fatto! Ho comprato un quaderno, ritagliavo delle figure di pesci e ce le incollavo sopra. Ma siccome ero ignorantissimo, in quei grandi fondali sottomarini c’erano la carpa, il ghiozzo: un sacco di pesci d’acqua dolce.

Lei ha parlato di Flaubert come di un autore che le è profondamente nocivo; ce ne sono altri che invece le sono salutari?

Per fortuna ce ne sono, anzi gli autori salutari sono più numerosi di quelli nocivi. Dickens, per esempio. Non solo David Copperfield o Grandi speranze fanno parte dei libri che amo di più al mondo, ma è proprio Dickens che mi fa bene. È soccorrevole, generoso più di quanto si possa dire. Anche a proposito di lui c’è una storia che adoro. Dickens stava scrivendo un romanzo che usciva come feuilleton, a puntate, non ricordo quale. Quando usciva un feuilleton di Dickens, era come oggi quando esce un nuovo Harry Potter: la gente faceva la coda davanti alle edicole dalle cinque del mattino. In quel romanzo, Dickens parlava di una donnina che viveva nella provincia inglese: era nana, era gobba, faceva la pedicure ed era un personaggio estremamente negativo, malvagio, una specie di ragno che tesseva la sua tela, tirava i fili e stava per causare i peggiori disastri. Si sentiva che Dickens aveva in pugno il suo personaggio. E poi, mentre il libro sta uscendo a puntate, tra le moltissime lettere che Dickens riceve ogni giorno, ce n’è una di una signora che gli dice: “Senta, io abito in una cittadina di provincia e sono, per mia disgrazia, nana, gobba e pedicure. E davvero stanno cominciando tutti a guardarmi male; lei mi ha rovinato la vita”. Dickens non è stato a pensarci su: nella puntata successiva, il personaggio è diventato un angelo di bontà, totalmente positivo. Io trovo che sia uno dei gesti letterari più belli che si possano immaginare. È il contrario di quella posizione per cui l’autore ha tutti i diritti, quella che parte dal principio che la letteratura è la cosa più importante di tutte. Mettere sottosopra il piano di un libro per non far dispiacere a una donnina in fondo alla sua provincia sperduta, è una cosa, davvero, che mi riempie di rispetto e d’amore. Su questi problemi della responsabilità letteraria, è la storia che preferisco; ed è la posizione che più mi piacerebbe essere capace di adottare, se un giorno mi trovassi in quel tipo di situazione. In realtà questi problemi sono molto importanti per me, e credo siano tipici del XIX secolo.

C’è effettivamente tutta una parte della sua opera che poggia su una fortissima dimensione empatica, e Vite che non sono la mia (Einaudi, 2013) ne costituisce probabilmente il punto più alto. Potrebbe affermare che siano stati i romanzi dell’Ottocento a formarla a questa dimensione della letteratura?

È molto complicato. Questa domanda affronta la questione del mio ideale in letteratura e del mio ideale umano, che si confondono completamente. Per me, sono la stessa cosa. Non ho affatto l’ossessione della letteratura in sé, ho l’impressione di far letteratura per cercare di progredire come essere umano, vorrei semplicemente che mi aiutasse a diventare un pochino migliore.

Però mi sento incessantemente diviso tra due opposte possibilità. Da una parte, c’è in me una grandissima aspirazione a quello che lei descrive, cioè a quella sorta di empatia che può esprimersi attraverso forme di generosità un po’ ingenue, l’empatia che fa piangere: è un criterio anche quello, perché non è mica una cosa da nulla, far piangere. E dall’altra c’è qualche cosa di estremamente egocentrico, quasi autistico, una sorta di incapacità assoluta di andare verso gli altri, come se ci fosse in me un ometto arido, ingeneroso, meschino. È una specie di confidenza che le faccio, ma ho l’impressione che la mia vita trascorra in questa tensione, tra l’ometto che diventa cattivo a forza di aver paura, quell’odioso bambino spaventato che sta in fondo al mio io, e un’aspirazione verso l’esatto contrario, verso quel che permette di uscire da sé, di andare verso gli altri, di condurre una vita migliore, non solo in senso morale, ma una vita più interessante, più viva…cosa alla quale aspiro veramente e alla quale mi è accaduto di avvicinarmi.

È con Vite che non sono la mia che mi ci sono avvicinato di più; so che è il mio libro migliore, non ci sono dubbi in proposito. È un libro in cui si trova incapsulato quel che vorrei essere come scrittore. E in tutto questo, effettivamente, c’è qualche cosa che sta dalla parte di quella specie di slancio di generosità, di altruismo che mi sembra tipico del XIX secolo. È lo slancio che troviamo, in particolare, nell’Hugo dei Miserabili, ne accetto volentieri anche il carattere un po’ sciocco e ingenuo. Fa parte del mio ideale letterario più della “Bianchezza” dei seguaci di Blanchot e degli ammiratori del Bartleby di Melville; ed è questa probabilmente la ragione principale che fa del XIX secolo il mio secolo preferito.

L’intervista è stata pubblicata, in versione più ampia, con il titolo Forces de propulsion du XIX siècle, sulla rivista “Le Magasin du XIX siècle” (n. 6, 2016) che ringraziamo per la gentile concessione. Traduzione dal francese di Mariolina Bertini.

A Novak-Lechevalier insegna letteratura francese all’Università di Parigi X Nanterre