Elif Shafak e il potenziale inespresso della Turchia

Non è un paese per intellettuali

Intervista a Elif Shafak di Francesca Del Vecchio

 Autrice turca, tradotta in 40 Paesi e 30 lingue, Elif Shafak è diventata famosa in Italia con La Bastarda di Istanbul (Rizzoli, 2007). Conosciuto è anche il suo impegno civile in difesa dei diritti del popolo turco. Ma soprattutto delle donne. Poliglotta, e intellettuale, ha inaugurato la quinta edizione del Bookcity Milano, ricevendo il sigillo della città dalle mani del neo sindaco, Giuseppe Sala. Il 10 dicembre è uscita per Rizzoli con una storia contemporanea sulla Turchia – e le sue complessità – dal titolo Tre figlie di Eva. «Aggregarsi e andare avanti è sempre stata la mia filosofia. Credo molto nella sorellanza. Se le donne vogliono vincere devono unirsi altrimenti saranno le prime a perdere». 

Ha definito questo libro come un romanzo che parla di potenzialità inespresse. Cosa intende?

È la Turchia ad avere un potenziale inespresso: avrebbe potuto essere una meravigliosa combinazione, una sintesi di democrazia pluralistica occidentale liberale e storia orientale. Ma questa capacità non è stata espressa.

È questo che l’ha spinta a scegliere Londra per vivere?

Mi sono trasferita sette anni fa. Fin dall’infanzia e per tutta la vita, ho vissuto in varie città: Strasburgo, Ankara, Madrid, Istanbul, Boston, Michigan, Arizona, Londra. Sono una nomade nell’anima. Quando mi chiedono quale sia la mia casa, rispondo sempre che io ne ho diverse. Quando sono a Istanbul, mi sento soffocare dalla società e dalla politica, è così opprimente che mi viene voglia di scappare. Ma quando sono lontana mi manca la vecchia città, le sue strade. Mi manca la sua gente. Bisogna sempre ricordarsi che il popolo turco non va accomunato con gli uomini che lo governano. Sarebbe un errore. Nonostante questo, ho scelto questo esilio londinese, che definirei volontario.

La Turchia non è un paese per intellettuali: più che una domanda è una constatazione.

Sta diventando sempre più difficile essere giornalista o scrittore o vignettista in Turchia. Io difendo la libertà di parola come ho sempre fatto. Difendo l’indipendenza dei media, la libertà di stampa e la libertà accademica. E trovo del tutto inaccettabile che il governo perseguiti i suoi scrittori. C’è un clima di paura e intimidazione: ci sono più di 130 giornalisti in carcere. Molti studiosi hanno perso il lavoro. Le università non hanno libertà. Menti illuminate della Turchia contemporanea sono sulla lista nera del potere. La democrazia è a rischio e le prime a perdere saranno le donne.

Nel libro s’incontrano tre anime femminili, metafore dell’eterogeneità della società turca, possono davvero andare d’accordo?

Shirin, Mona e Peri, sono tre prototipi che esistono in tutto il mondo musulmano: dalla Turchia al Marocco, dall’Egitto all’Iran, fino al Pakistan. Si fanno chiamare la credente, la peccatrice, e la confusa. Sono accomunate dall’obiettivo di vincere la misoginia. Tutte e tre hanno bisogno di farsi domande sulla propria fede, sull’identità e sulla propria libertà. Le donne non possono dividersi: in quella faglia s’installa il patriarcato. Per questo dobbiamo parlare sempre più forte di certi temi. Per quanto riguarda la fede, abbiamo bisogno di creare un nuovo linguaggio che vada oltre il dibattito ateo-teista: non sono una persona religiosa e non sono nemmeno una credente. Affatto. Ma solo molto interessata a Dio e alla sua filosofia. Preferisco coltivare il dubbio, piuttosto che essere immersa nelle certezze come molti credenti. La fede senza interrogativi diventa dogma, e i dogmi sono sempre molto pericolosi, non solo nella religione.

Mona e Shirin ricordano tanto altre due donne: Mona Eltahawi, femminista egiziana, e Shirin Ebadi, nobel per la pace iraniano. Si è ispirata a loro?

É una domanda interessante. A dirla tutta non ci avevo mai pensato prima d’ora. Mona è una cara amica, conosco e apprezzo molto il suo lavoro. Non conosco di persona Shirin Ebadi, ma la rispetto per le sue importanti battaglie. Posso dire di aver scelto i nomi delle protagoniste casualmente, ma forse nel mio subconscio mi sono ispirata a loro.

I suoi libri vogliono sempre raccontare qualcos’altro, oltre alla storia. In Tre figlie di Eva qual è il messaggio?

Non cerco di insegnare nulla; voglio solo dare voce a coloro che sono stati messi a tacere. Più che di messaggi, quindi, parlerei di interrogativi: mi piace fare domande, domande difficili su questioni taciute come i tabù sessuali, quelli politici e culturali. Cos’è il lavoro dello scrittore se non quello di porre le domande? Al lettore il compito di trovare le proprie risposte.

Possiamo definire la sua letteratura, femminile?

Le racconto una cosa: per la copertina dell’edizione turca di un mio romanzo, anni fa, scelsi una foto di me vestita da uomo. Venni pesantemente attaccata nel mio Paese. Ma ho portato avanti la mia dichiarazione contro i codici di genere comunemente accettati. Quindi la risposta alla sua domanda è sì e no: sono una femminista; dare voce alle donne è molto importante perché ho sempre lottato per la parità di genere. Ma allo stesso tempo, credo che gli scrittori abbiano in sé un’energia sia femminile che maschile. Per questo quando scrivo un romanzo m’immedesimo in ogni personaggio: sono un uomo e una donna. Ed è per questo che scelsi la mia foto vestita da uomo per quella copertina.

Esiste una terza via tra il laicismo di Ataturk e l’islamismo di Erdogan?

L’assenza di categorizzazioni, laico, islamico: questa sarebbe la terza via. Io sono un individuo. Sono io e basta. Sia chiaro, ho grande rispetto per Ataturk, soprattutto come donna, perché so quello che ha fatto per il nostro Paese. Nonostante ciò non voglio che ci sia un’identificazione così netta. Non voglio appartenere a una società collettivista che ci vuole tutti uguali. Per questo, come per il laicismo imposto, sono molto critica con il governo dell’AKP, che cala le sue ideologie islamiche dall’alto.

È l’Europa la causa dell’isolazionismo turco, come di quello britannico post Brexit?

L’isolazionismo è sempre un male: estingue le persone, le culture, le nazioni. In tutto il mondo c’è stato un aumento pericoloso di populismo, xenofobia e “tribalismo”. In Turchia un’ondata di nazionalismo e conservatorismo religioso sopiti si è alzata. Sono convinta che i democratici in tutti i paesi debbano lavorare insieme per raggiungere un obiettivo comune. Sono una grande sostenitrice dei valori europei, ma c’è urgenza di riformare l’Unione. Altrimenti il rischio è un gigantesco passo indietro. Se la democrazia liberale crolla, paese dopo paese, il mondo diventerà un posto ancora più buio e violento.

La Turchia può salvarsi? E se sì, in che modo?

Quando guardo i politici turchi mi sento molto pessimista: la situazione sta peggiorando. Poi guardo le persone, i giovani, turchi, curdi, aleviti, armeni, ebrei e mi sento più ottimista. La forza della Turchia è il suo popolo. Non dobbiamo dimenticarcene.