La maternità carsica di Grazia Deledda: intervista a Michela Murgia

Quasi Grazia di Marcello Fois: dal testo alla scena

Intervista a Michela Murgia di Mario Marchetti

dal numero di aprile 2018

La fascetta di Quasi Grazia (“il romanzo in forma di teatro” di Marcello Fois dal quale è tratto lo spettacolo) recita: “Grazia Deledda è una delle nostre madri e le madri – a differenza dei padri – non si uccidono: si perdonano”. Perché e di cosa perdonare Grazia Deledda?

Il tempo. I figli alle madri non perdonano di esserci state da prima. In genere ai più passa dopo i trent’anni questo malumore da figlio minore della storia (forse perché dopo i trent’anni siamo tutti dei sopravvissuti) ma prima le madri devono pagare il fatto di aver iniziato qualcosa a proprio modo. Quel modo è la colpa, perché inevitabilmente diventa eredità per chi viene, un vincolo dentro al quale la propria libertà nasce già troppo costretta a “somigliare”.

Da ottobre sei in tournée con Quasi Grazia: dicci qualcosa sullo spettacolo, sull’accoglienza che ha avuto in Sardegna e fuori della Sardegna. Hai avuto la sensazione che sia giunto il tempo di una rivalutazione di Grazia Deledda?

Lo spettacolo sta avendo un’accoglienza davvero calorosa, quasi sempre col tutto esaurito e con una risposta di affetto che non era scontato aspettarsi per un’autrice oggetto di una così scrupolosa cancellazione dalle antologie e dalle discussioni critiche. Tutto già visto: i critici l’avranno anche amata poco, ma il pubblico Deledda l’ha sempre capita e seguita. Se in questo affetto vogliamo però vederci una rivalutazione, ammetto di non essere così sicura di volerlo. Deledda è un geyser che ogni tanto lancia un effluvio violento di fuori per ricordare che sotto le apparenze si muovono energie violente che non vanno dimenticate mai del tutto. Non riesco a immaginare un inquadramento critico che non la riduca a qualcosa di già visto, impoverendola. Mi piace pensarla più come un poltergeist che di quando in quando appare e scuote le vettovaglie in una cucina polverosa.

In particolare, immettersi nel corpo di Deledda sul palcoscenico, che cos’ha significato per te?

Mi ha costretta a guardarla in quella dimensione intima, a tratti scomposta e irrequieta, che lei per tutta la vita ha protetto, escludendola dalla rappresentazione pubblica dove era suo punto d’onore quello di apparire sempre inappuntabile madre e moglie. Per farlo ho dovuto diventare amica della donna che ribolliva dietro quella facciata e questa è una faccenda di carne, di sangue, di desiderio, di rabbia. Confido che il corpo e la sua azione teatrale abbiano restituito a Deledda una verità che le parole, materia molto più controllata, hanno invece sempre saputo celare.

Michela Murgia: Quasi grazia

Deledda narratrice / Deledda donna: quali diversi rapporti hai avuto e hai con queste due facce del personaggio?

Leggere le lettere di Grazia Deledda è indispensabile per capire quanto la donna e l’autrice fossero inscindibilmente legate, ma certamente l’autrice domina su tutto. Deledda è romanziera sempre, quando scrive agli uomini che ama e quando comunica parcamente con l’editore, quando verga inferocite lettere ai direttori di giornali che la criticano e quando dialoga intimamente con i mentori che l’hanno protetta e accompagnata fino alla maturità. Mentre la leggi sai sempre che scriveva vedendosi scrivere, come puntualmente rileva Marcello Fois in Quasi Grazia. Deledda si vedeva eroina di un romanzo immenso che aveva per lingua la sua, meticcia e debordante, e per trama le storie intrecciate di una intera isola.

Alcuni studi recenti rivalutano, in particolare, di Deledda la capacità di crearsi un’autonomia, uno spazio, in un mondo culturale dominato dagli uomini. In tal senso Deledda potrebbe rientrare in una storia del femminismo italiano, pur se, personalmente, non ha mai fatto dichiarazioni particolarmente impegnate su questo piano (anzi è sempre stata molto attenta a dirsi, quasi stucchevolmente, devota al suo ruolo famigliare)?

Se contano i fatti, Deledda i fatti li ha messi in fila tutti. A partire dall’ambizione alla scrittura, perseguita con determinazione da kamikaze, fino alla natura modernissima del rapporto col marito, non c’è dubbio che la sua sia stata una vicenda di autodeterminazione – empowerment, diremmo oggi- a dispetto dell’enormità dei limiti in cui si è svolta. Ma non è solo per questioni di biografia che questo è vero. Nella letteratura di Deledda c’è un profluvio di figure femminili libere e liberanti, di figlie che si ribellano ai padri per inseguire il loro destino, di donne che si mantengono col proprio lavoro e di femmine che obbediscono al loro desiderio a dispetto delle convenzioni, anche pagandolo caro. Non c’è molto di rassicurante per le convenzioni patriarcali nella letteratura di Deledda.

Deledda scrittrice ha avuto un difficile rapporto con la critica italiana, e non solo con Pirandello, e non solo ieri. Si diceva, tra l’altro, che scrivesse male. Possederebbe invece, secondo te, i numeri per entrare in un ipotetico canone dei narratori italiani del Novecento?

Che nella fase iniziale della sua carriera Deledda scrivesse male è nelle cose, avendo la quarta elementare ed essendo diventata perfettamente italofona solo dopo i trent’anni. Alla lingua italiana Grazia è arrivata da straniera migrante, troppo laterale per i tempi in cui ha vissuto, ma già vicina all’oggi, dove quelle stesse sporcature sarebbero considerate una preziosità. Quanto al canone, è difficile immaginare che Deledda ci possa entrare con i criteri attuali, che ancora la leggono attraverso il filtro del folclore regionale o le appiccicano addosso improbabili etichette di verismo o di decadentismo. Non si capisce Deledda confrontandola con Capuana o con Verga, ma con Brontë e Shelley. Se lo si fosse fatto a suo tempo, ritengo sarebbe già chiaro che la sua letteratura è forse la sola che l’Italia possa avvicinarsi a considerare come il proprio gotico.

Circoscrivendo di più il campo, è pensabile una narrativa sarda del Novecento − e ancora di oggi − senza la figura ingombrante, ma forse ineludibile, di Grazia Deledda?

Senza dubbio no. Deledda è archetipica per la letteratura sarda, vieppiù per quelli che tengono a puntualizzare con maggiore forza le distanze dal suo immaginario. Penso solo alla sua inclinazione a inventare i nomi dei luoghi d’ambientazione, che è diventata la matrice di un topos a cui nessuno di noi autori sardi è più sfuggito. Certo, non tutti gli scrittori che usano toponimi inventati sono sardi, ma gli scrittori sardi li usano tutti almeno in una delle loro opere, rivelando un rapporto tra spazi immaginati e verità geografica che si presta a gustose letture di natura psicanalitica, oltreché critico-letteraria. Ma è uno solo dei mille possibili esempi della maternità carsica in cui Deledda continua a ri-generarci.

Ho letto contemporaneamente Quasi Grazia e il tuo Ave Mary. Di quest’ultimo libro, a parte gli interessanti aspetti teologici, mi colpisce la volontà di trovare in Maria un’autonomia che l’immagine usuale certo non suggerisce. C’è in te una linea di ricerca – consapevole o inconsapevole – volta a far emergere nei comportamenti femminili storici o tradizionali un bisogno di indipendenza, di autodeterminazione che sceglie particolari vie nel contesto di divieti, tabù, prescrizioni, ingiunzioni, disposizioni, consegne che ha sempre circondato il ruolo della donna.

Se volevi sfuggire al destino di sposa di un uomo che non avevi scelto e che non amavi, deformata dalle gravidanze e impedita in ogni aspirazione che non fosse eterodiretta, il monachesimo restava l’unica possibilità e apriva insperati spazi di libertà non solo sociale, ma anche religiosa. In un mondo ecclesiale dove il sacerdozio femminile non esiste, le abbazie di sole donne erano strutture di potere parallelo, sempre sotto controllo ma comunque presenti, dove era possibile agire con creatività i pochissimi margini di libertà a disposizione.

Potremmo concludere con una domanda che riprende il titolo di una raccolta di saggi dedicati nel 2010 alla scrittrice: Chi ha paura di Grazia Deledda?

Tutti quelli che dovrebbero ammettere la colpa di averla ignorata per mero pregiudizio di genere e – temo – anche per insipiente provincialismo. In una visione ancora novecentesca del canone letterario Deledda risulta periferica, difficilmente collocabile a tutt’oggi, e costringe a ripensare troppi dei criteri con cui ci siamo immaginati andasse organizzata la comprensione della letteratura italiana. Non vale solo per lei, ma per lei vale due volte, perché Deledda, oltre che italiana per lingua scelta, resta anche sarda in modo ineludibile, soprattutto quando capisce che è solo attraverso l’italiano che potrà raggiungere la fama e il numero dei lettori che sogna di avere. Il marchio dell’esotismo, quell’essere “speciali” che è lo stigma di tutte le letterature postcoloniali, su di lei ha scintillato come una sentenza. In un mondo dove il maschile è la norma, alla letteratura di Deledda è toccato di subire la stessa riduzione simbolica che le donne che cercano di emergere in ambiti di prestigio ben conoscono: finché si è discusso se fosse più di questo o meno di quello, è rimasto impossibile vedere quanto fosse semplicemente altro. Che si tratti di Deledda o di noi tutte, forse è il tempo di cambiare sguardo.

m.ugomarchetti@gmail.com

M Marchetti è traduttore


Un romanzo in forma teatraleMario Marchetti commenta Quasi Grazia di Marcello Fois