Intervista a Omar Di Monopoli: “La rivisitazione antropologica del mio sud”

Una Puglia immaginaria da cui attingere storie cruente e corali

intervista a Omar Di Monopoli di Orazio Labbate

Che cos’è, secondo te, la letteratura?

Domanda impegnativa, direi. Mettiamola così: tra le mille possibili varianti riguardo all’argomento la prospettiva che con gli anni ho maggiormente interiorizzato è quella di considerarla come un tentativo (vano, ma eminentemente necessario) da parte dello scrittore di mettere ordine al caos. Al pari di ogni altra forma di espressione artistica, chi scrive cerca di decodificare coi propri mezzi ciò che lo circonda dando forma e compiutezza a storie e mondi possibili – nella piena consapevolezza, però, di non poter ambire a niente altro che a uno scampolo, illusorio quanto fugace, di chiarezza. Quando però la letteratura, accantonata ogni volontà di potenza del proprio creatore, è capace di restituire anche un solo intimo barlume di riflessione a chi legge, ebbene essa può rivelarsi una devastante arma di decostruzione delle convenzioni e quindi uno strumento di crescita, personale e collettiva.

Nella perfida terra di Dio (Adelphi 2017), il tuo ultimo romanzo, mi porta alla mente l’espressione letteraria migliore di quell’elemento violento, irreligioso, e infine impregnato di disarmante ruralità concettuale, che appartiene a una certa tipologia di narrativa southern gothic; mi riferisco a opere come Suttree di Cormac McCarthy; Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, e Fermento di luglio di Erskine Caldwell. Quanto hanno influito questi romanzi – e dunque questi autori – perché si fondasse l’idea del tuo nuovo lavoro?

La grande letteratura degli Stati Uniti del Sud è stata – ed è – elemento fondativo della mia formazione di scrittore (al punto talvolta da attirarmi qualche strale da parte di chi ritiene spericolato e forse un tantino pretestuoso l’accostamento di nomi altisonanti come quelli che hai menzionato a quelli di un autore del profondo tacco italiano), ma approfitto dell’occasione per specificare quanto non solo la genia di narratori che vede in Faulkner, il grande bardo del Mississippi, il proprio capofila, abbia influenzato e probabilmente continuerà a influenzare schiere di scrittori nell’ultimo secolo, ma inoltre che per ciò che mi riguarda il mio personalissimo sguardo fortemente rivolto oltreoceano è in realtà un percorso che dai campi di cotone dell’Alabama mi ha ricondotto alla mia terra, alle mie radici, facendomi (ri)scoprire ciò che la scuola mi aveva didascalicamente portato a snobbare: i monumentali Verga e Capuana, per esempio, così come la folta truppa di tuoi corregionali che della lingua e della crudeltà riarsa dal sole hanno saputo fare una tradizione anche contemporanea: Consolo, Bufalino, D’Arrigo. E poi Malaparte, Fenoglio, la grandissima Ortese, per arrivare infine, come in un nostalgico e straziante canto blues, al mio conterraneo Vittorio Bodini con le sue cattedrali barocche sulle quali si riversava un sole rosso sangue.

Da Uomini e cani (ISBN 2007) – l’esordio – fino a oggi. Parlami dell’evoluzione del tuo southern gothic, che basa la sua forza stilistica e ambientale sulle trame e sugli oscuri tentacoli gestionali di famiglie di delinquenti lungo un deserto scenografico pugliese di tuo conio.

Ecco, sicuramente dal gotico di matrice statunitense ho saccheggiato l’idea di un lirismo sanguigno e passionale, i toni biblici e ritmati che si sposano col registro basso del dialetto e della lingua meticciata e iperaggettivata (“gongorismo del Sud” veniva definito all’inizio con disprezzo quello di Faulkner). Ma è soprattutto l’idea di uno spazio geografico fittizio – la mia personale contea di Yoknapatawpha – che è una Puglia immaginaria da cui attingere storie cruente e dense di accadimenti, storie corali popolate di personaggi che s’incrociano, s’influenzano, si combattono spesso senza averne troppa contezza. Perdenti metaforicamente ciechi e bifolchi che caricano a testa bassa contro un destino infame e beffardo che non potrà che sopraffarli.

Nella letteratura southern gothic il predicatore è un personaggio essenziale. Quest’ultimo è il motore strampalato e anche spaventoso che permette un dialogo disperato con un Dio dei poveri il quale aleggia come un miraggio nei luoghi del Sud. Nella perfida terra di Dio, il predicatore, Nuzzo, è a metà tra l’ironia truffaldina e comica dei personaggi della O’Connor e la diabolicità intelligente, furba e biblica delle personalità dipinte nei libri di Cormac McCarthy. Qual è la sostanza del predicatore avanzato da Omar Di Monopoli?

Ho voluto questa volta approfondire un tema che già aveva fatto capolino nei miei precedenti lavori, quello della mercificazione del dolore e della religiosità estrema che, confinando con l’ignoranza, diventa superstizione malata. Qui il santone al centro della vicenda è affascinato non già dalla quantità di denaro che le sue pratiche miracolose truffaldine riescono a fargli incassare, quanto dal potere di influenzare il destino della gente. Ecco, il vero fulcro di questo romanzo, quello che in realtà fa muovere anche gli altri personaggi portanti (la badessa ammaliata dal Satanismo, il boss di piccolo cabotaggio Capumalata e perfino Tore Della Cucchiara, l’antieroe per il quale giocoforza – anche se a fatica – il lettore finisce per parteggiare) è la pura sete di potere. Un potere declinato in chiave stracciona, s’intende. Perché le mie sono storie di ultimi. Ultimi che finiscono per darsi la zappa sui piedi quasi senza rendersene conto.

Quali sono stati i classici che ti hanno iniziato?

Ovviamente di tutto un po’. Mi sentirei di eleggere Luce d’Agosto di William Faulkner come il libro che porterei con me su un’isola deserta, ma non ti nascondo che, ad esempio, i miserabili laidi e privi di qualsiasi epos disegnati nei romanzi di Erskine Caldwell mi hanno colpito e plasmato molto più, ad esempio, dei pur colossali personaggi di uno Steimbeck o di un Hemingway. E poi dell’esasperato gioco linguistico di Gadda mi pare non si possa fare a meno.

Parlami del tuo metodo di scrittura.

Poco metodo, tanto mestiere. Sono più di dieci anni che cerco di impormi scalette e schemini come consiglia Carlo Lucarelli prima di accingersi a stilare un romanzo. Ma io non sono quel tipo di scrittore: parto da suggestioni visive, da veri e propri “frame”, quasi dei quadri incompiuti, e poi lascio che i personaggi mi raccontino le loro storie. Non è sempre un metodo infallibile, se imbrocchi la strada sbagliata ti ritrovi a dover riscrivere interi capitoli. Però sono maniacale e ossessivo nella costruzione della pagina e – mi secca dare adito al più usurato dei cliché sugli scrittori – viaggio sovente col taccuino in tasca per segnarmi fonemi, sigle, sintagmi, idioletti, tutto quanto contribuisce a rafforzare la mia cifra espressiva.

I tuoi romanzi, a mio avviso, per essere scritti prevedono una fedeltà alla solitudine del Sud giacché leggo nel tuo periodare forze, e suggestioni, partorite urgenti soltanto grazie a una costante convivenza con quei territori dimenticati e trascurati. Mi sbaglio?

Non saprei dirti altro che il cono d’ombra, l’abbandono miserevole che talvolta mi abita vivendo come faccio io ai confini dell’impero è per me fonte necessaria e imperitura di stimolo creativo. Ho bisogno fisicamente di appartarmi, le mie storie sono il parto di una rivisitazione anche antropologica, se vogliamo, del mio Sud. Ma è un’ottica che parte dal dato empatico e dalla conoscenza profonda della vita di provincia. Non credo all’idea dell’intellettuale arroccato nella sua torre né tanto meno in quello che frequenta esclusivamente i salotti letterari. Lo scrittore deve sforzarsi di entrare nei bar, deve giocare a carte coi muratori e deve sentire il puzzo della sentina sulla pelle dei contadini quando si fermano coi loro apecar scatarranti a prendere un bicchiere di Stock84 alle sei del mattino.

Le divinità cattoliche invocate e discettate dai personaggi di Nella perfida terra di Dio nascono da una pressione interiore furente che affonda le radici nella ruralità esasperata di quegli animi corrotti, e abbandonati, dentro le diverse forme della loro miseria. Cosa chiedono a Dio i tuoi protagonisti?

Direi che se ne servono per scudarsi, per rivestire di una patina d’integrità le passioni violente che gli squassano l’animo. I miei personaggi sono sempre sul crinale dell’abisso, e come accade a molti cristiani nella realtà fanno di Dio, dell’idea di Dio, un uso strumentale, assai poco metafisico. Si ricordano della sua grandezza solo quando gli conviene, e ne approfittano per ammantare di giustizia – una giustizia invero ferale – le proprie malefatte.

Che cosa suggerisci a chi vuole approcciarsi alla scrittura? Come deve dunque interpretarla?

Risposta semplice: deve continuare a dedicarsi a essa con sincerità e passione senza guardare al soldo. Regola in fondo valida per qualsiasi forma d’arte, ma anche più in assoluto per ogni attività umana. Anche un buon idraulico, se aggiusta per bene i suoi rubinetti senza fregare i propri clienti cercando di smollargli merce scaduta, prima o poi si vedrà ripagato dal proprio lavoro. E se non lo sarà, potrà comunque andare a letto con la coscienza pulita sapendo di aver dato il massimo.

La tua è una scrittura assai cinematografica ma nel contempo intrisa d’accurata letterarietà. Vi ho scorto alcune pellicole di Martin Scorsese (per esempio The Departed; oppure Toro scatenato); così come la profondità dei concetti sociali e religiosi evocati ne Il petroliere di P.T Anderson. Vi leggo una tendenza all’azione che velocizza le scene, e l’opera risulta pertanto avvincente; e altresì una cogitazione attenta propria di quella scrittura che si esalta e brilla delle descrizioni. Come nasce questa mistione? E nei confronti di quali registi sei debitore?

La lista si farebbe infinita e direi che lascio al lettore il compito e la voglia – se c’è – di scorgerne i rimandi. Di sicuro mi ritengo uno scrittore molto visivo, assai poco dedito alla descrizione dei moti dell’anima in virtù di una rappresentazione invece molto iconografica (molto filmica, per l’appunto) dei miei personaggi: sono uomini che urlano, sparano, piangono, scopano, scoreggiano o pregano inascoltati. Sta poi al lettore farsi un giudizio morale su ognuno di essi.

Reputo che Nella perfida terra di Dio dia avvio a un’epica narrativa poiché la maturità del libro (strutturale e linguistica) è notevolmente sicura nonché compiuta. Ritroveremo i personaggi? Sono previste infine nuove opere?

La mia Puglia è, come dicevo, il mio serbatoio personale. Io ho infinite storie da raccontare, e sono storie che anche ora, mentre parliamo amabilmente, stanno accadendo perché continuano a farlo da milioni di anni. Basta armarsi di coraggio e volontà (e una discreta dose di medicinali antigastrite) per poi accomodarsi davanti a una tastiera. Ci saranno giorni migliori e giorni peggiori, ma la vita fluisce, e le pagine bianche sono fatte apposta per cercare di contenerla. E per far ordine al caos.

olabbate@gmail.com

O Labbate è scrittore