Incontro con Richard Ford: Terra desolata del dopo uragano

Il quarto capitolo del ciclo romanzesco di Frank Bascombe, il testimone partecipe

Una conversazione con Richard Ford di Ennio Ranaboldo

dal numero di novembre 2015

“Il mondo diventa più piccolo e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo”: è Frank Bascombe a dirlo, alla sua quarta apparizione nel ciclo romanzesco di Richard Ford, Tutto potrebbe andare molto peggio (ed. orig. 2014, trad. dall’inglese di Vincenzo Mantovani, pp. 215, € 17, Feltrinelli, Milano 2015). Frank torna a raccontare e a raccontarsi. Ha adesso sessantotto anni: padre di famiglia, al secondo matrimonio, ex marine, aspirante scrittore, giornalista sportivo e agente immobiliare di successo; in remissione da un cancro alla prostata e, da qualche anno, riflessivamente, in pensione. È l’ultimo lavoro, quattro tableaux vivants senza soluzione di continuità, dello scrittore nato a Jackson, in Mississippi, nel 1944. Frank Bascombe vive nell’inventata, ma perfettamente situabile, Haddam, in New Jersey, e l’anno è il 2012, nell’autunno tetro del dopo uragano Sandy. Bascombe incarna, a questo punto della sua vita, una visione riduzionista, la vita vera, per eliminazione progressiva del fare e dell’avere, ma, essendo una creatura di Ford, è invece sensibilissimo alle corde dell’essere. Tutt’altro che disaffezionato o cinico, Frank rimane aperto, senza narcisismo o attesa escatologica, alla “possibilità che qualcosa d’interessante venga svelato prima-che-cali-il-sipario-e-tutto-piombi-nel-buio”. Un americano il cui desiderio turistico, per così dire, riflette un ethos pragmatico e compassionevole: “Il sogno della mia vita è sempre stato quello di visitare l’Alamo, orgoglioso monumento a un’epica sconfitta e un’epica resistenza”. Ed entrambe queste dimensioni sono traslocate, nel romanzo, dalla storia alla microstoria, pervadendo la trama delle esistenze individuali dei personaggi (e dello stesso Frank), messe a dura prova, di volta in volta, dall’uragano, dall’omicidio innescato dalla follia, dalla malattia invalidante e dalla morte imminente (o remota, ma sempre presente, come quella del figlioletto Ralph, di cui si narra in The Sportswriter, 1986) che sono gli altri protagonisti dei quattro episodi. Ma non di solo dolore si tratta, anzi: va componendosi, in ognuna delle storie, una misura dell’individuale argine umano contro la sventura.

E Frank sarà davvero del tutto “franco”, come ammicca il gioco di parole del titolo originale del romanzo, anche perché non ha smarrito la fiducia nel linguaggio di fabbricare senso; al contrario, il linguaggio Frank lo vorrebbe mondare del trito, dello spurio e degli eufemismi sdruccioli e mendaci: “Nelle ultime settimane ho iniziato a compilare un inventario personale di parole che, a mio avviso, non si dovrebbero più usare: nella conversazione o in qualunque forma. Questo, nella convinzione che la vita sia materia di sottrazione graduale, che punta ad un’essenza solida, più-quasi-perfetta (…) Una scorta più ridotta di parole migliori potrebbe servire, credo, per un più lucido ragionare”.

Ford è un raro scrittore contemporaneo il cui registro parodico, o deliberatamente umoristico, non mina, anzi in qualche modo illumina e dilata, la profondità della riflessione; e alimenta il tentativo, mentre scardina le retoriche e i pii convincimenti della cultura di massa, di decantare un nucleo irriducibile di verità, individuale e universale, e pertanto autentico. Nella narrazione in soggettiva, e qui la difficoltà oggettiva del tradurre, quella di Frank è una voce impastata di materia colloquiale e di dialoghi (per i quali Ford mostra il solito orecchio assoluto, il giusto grado di intensificazione stilistica che imprime veridicità), di espressioni gergali la cui sonorità e ritmo sono difficili (e qualche volta impossibili) da traghettare convincentemente in un’altra lingua.

Per fortuna del lettore, Richard Ford non ha dato seguito al proposito annunciato, dopo la pubblicazione di Canada nel 2012, di abbandonare il genere.

Racconta lo scrittore a cui abbiamo chiesto di aiutarci a trovare alcune chiavi del romanzo:

L’uragano è stato lo stimolo. Avevo davvero ‘deciso’ di non scrivere un altro lungo romanzo, e di non dissotterrare Frank. Ma la devastazione provocata da Sandy mi ha profondamente toccato. Cominciai a interessarmi a quali potevano essere state le conseguenze dell’uragano ignorate dai mezzi di informazione; conseguenze che potevo inventare o immaginare. E visto che Sandy ha colpito la New Jersey Shore di cui Frank Bascombe è un abitante, almeno virtuale, mi si è presentato nuovamente come il narratore ideale di queste storie”.

Frank fa del volontariato, un programma radiofonico per non vedenti, dove legge V.S. Naipaul, e accoglie senza troppa convinzione i militari statunitensi di ritorno dalle guerre oltreoceano, ma soprattutto osserva e racconta i segni del passaggio del tempo (meteo e cronologico); analizza e ricompone i segni da esso lasciati sulle persone e sulle cose. La Jersey Shore, devastata e ingombra di macerie semisepolte dalla brutale tempesta, è il paesaggio, fortemente antropizzato ma anche violentemente naturale, a cui fanno da specchio la deriva e i detriti esistenziali dei personaggi. Invecchiamento e malattia sono nella biografia e nell’ambiente intorno a Frank. Come Carnage Hill, la casa di cura dove vive la ex moglie, affetta da Parkinson ma aggressivamente orientata a resistere al male con tutti i ritrovati della moderna geriatria, e l’aiuto del feng shui: “L’obiettivo di Carnage Hill è rinnovare l’immagine della vecchiaia in modo tale che essa possa essere considerata un fenomeno altamente desiderabile”. Frank osserva su se stesso, incuriosito e distaccato, i segnali del corpo e della mente, e i racconti abbondano di “preannunci di mortalità, al punto da poter leggere il romanzo come un’ode all’impermanenza, e all’immanenza: “A mio avviso, noi abbiamo solo ciò che abbiamo fatto ieri, ciò che facciamo oggi e ciò che potremmo fare ancora. Più quello che pensiamo di tutto ciò”.

Tuttavia, per Ford sembra che conti, soprattutto, la vulnerabilità aspramente esposta dall’uragano, le conseguenze intime e durevoli che corrono sotto la traccia effimera della cronaca:

Non ho mai pensato che questi quattro racconti fossero particolarmente centrati sulla morte, il morire e l’invecchiare, se non per quanto riguarda i postumi di Sandy. Nella misura in cui invece lo fossero effettivamente, si tratta di una coincidenza. Che non vuol dire che, io stesso, non pensi a queste cose normalmente e spesso, e senza troppa trepidazione. Accetto di buon grado quello che sarà. È la stessa cosa per Frank Bascombe? Non credo proprio di sapere la risposta”.

Nel secondo episodio, il panorama del disastro collettivo, l’uragano, lascia posto alla tragedia privata, famigliare: una donna, Ms. Pines, ritorna sulle tracce dello sterminio della propria famiglia rivelando all’attonito, e a tratti ilaremente goffo, Frank la storia segreta avvenuta nella sua stessa casa, una storia di morte ma anche una testimonianza di durata, di rimessa in sesto delle ragioni del vivere, e della vita, per quanto minate le prime e stravolta la seconda. E a proposito della “sistematica distruzione di felicità” in America, di cui parla Ms. Pines citando un articolo del “Time”, Frank Bascombe, liberal e dolentemente patriottico a un tempo, risponde con leggera ironia: “L’ho letto… Era un qualche triste est-europeo dal vestito puzzolente. A quelli non piace mai nulla”. A questo lettore, la mite e meditante opposizione di Frank alla disgrazia suggerisce un potente antidoto al cinismo, al tracimare distruttivo del tempo.

Ford replica:

È una lettura speranzosa di queste storie, che condivido completamente. Penso che la felicità di ognuno sia sempre un lavoro continuo, e davvero si può essere felici senza esserne del tutto consapevoli, proprio come si può essere infelici, e allo stesso modo non saperlo. Credo ci si debba inventare la propria felicità, e che una parte costitutiva di essa abbia più a che fare con il conseguire la propria indipendenza che non con la contentezza; non temere la morte, vivere con una persona che si ama; riconciliarsi con il proprio passato; non fare danni; aiutare gli altri. Cose abbastanza comuni, a pensarci bene. Quello che non è così comune è la misura in base alla quale ognuno è responsabile per la propria felicità, piuttosto che aspettarsi che sia qualcun altro a dovergliela offrire.”

Le case non sono solo state il mestiere di Frank ma sono un complesso e ricorrente paesaggio fordiano: case vendute, acquistate, rimodernate, rase al suolo, abbandonate. Case che confortano e che ossessionano, come appunto la stessa abitazione di Frank. Un andare e venire di occupanti e di ombre (nulla mai si estingue), rispecchiante la mutevole dinamica sociale, razza, censo e status, la fluida società dei suburbs, luoghi eterni nell’immaginario della letteratura americana del Novecento (si pensi a Cheever, Carver e Updike per non citare che i giganti): “Il denaro arriva, il denaro se ne va. Solo le case – la loro imponenza, silenzio e valore, testimoniano le vite che le hanno attraversate”, commenta Frank a proposito della dimora fuori misura dell’amico morente, da cui è stato chiamato per una sorprendente quanto acida confessione.

Ford sottolinea:

Sì, le case sono importanti, ma soprattutto nel senso più comune, come rifugio. La funzione delle case come barometro della stabilità emotiva ed economica, e di come riflettano l’idea di futuro di ognuno, tutto questo dipende da quella prima funzione. In questo senso, credo, le case sono esse stesse avvenimenti”.

E la vita di uno scrittore, come i suoi libri, e come l’amore, “non (sono) una cosa, dopo tutto, ma una serie infinita di singoli atti”. Frank Bascombe potrebbe non avere scritto la parola fine sulla sua vicenda e, meno ancora, Richard Ford sulla sua carriera:

Sono piuttosto sicuro che scriverò un altro romanzo; ce ne sono un paio che sembrano vivi, nei miei quaderni di appunti. Non do mai per scontato che scriverò un altro libro; mi limito a cercare di essere disponibile a farlo. Scrivere non è un mestiere per me. Piuttosto – in americano – la si chiamerebbe vocazione, qualcosa che scorre lungo le stesse linee della propria vita”.

ennioranaboldo@gmail.com

E Ranaboldo è saggista