Richard Ford e il probabile ritorno di Frank Bascombe

Donald Trump conta come Donald Duck, per quel che scrivo

Richard Ford a colloquio con Ennio Ranaboldo

dal numero di maggio 2017

Richard Ford, classe 1944, nato nel Mississippi, di casa in Maine e professore alla Columbia University, torna a conversare con “L’Indice”, dopo la nostra intervista del novembre 2015 dedicata al suo ultimo romanzo, Tutto potrebbe andare molto peggio, felicemente accolto anche in Italia da pubblico e critica. È la quarta puntata del ciclo narrativo che ha per protagonista Frank Bascombe: quattro racconti lunghi ispirati dalla devastazione post uragano (Sandy, nel 2012); storie di desolazione e di redenzione, la cui irrituale autenticità e compassione sono misura di verità, mentre i tristi opposti di sentimentalismo e cinismo non hanno  casa. Sono vicende legate tra loro dalla voce narrante di Frank, testimone tanto rigoroso quanto empatico, in cui la scrittura di Ford si manifesta come tra le più vibranti della narrativa americana a cavallo tra i due secoli del nostro tempo.

Con caratteristico understatement, Ford espone spesso una sobria ma altissima concezione del proprio mestiere, con un fondamentale senso di gratitudine verso una casualità benigna che gli ha consentito di trovare e dispiegare la propria vocazione.

Un altro grande scrittore del Novecento, Kurt Vonnegut, non la pensava molto diversamente: “Quanto importanti siano i miei libri, o quelli di chiunque altro, non lo so. Non penso siano terribilmente importanti. Penso che soddisfino le persone mentre vengono letti. E questo ha un qualche valore, prendersi cura di qualcuno per un paio d’ore. Ci saranno sempre dei magici intrattenitori che conforteranno le persone durante la storia di Giobbe che è la vita di ognuno di noi. Per questa ragione onoro la mia professione”.

Frank Bascombe si è ritirato dalle scene, o ci sarà un altro suo romanzo? Più in generale, anzi il più specificatamente possibile, a cosa sta lavorando?

Ho i rudimenti per un nuovo romanzo su Bascombe; raccolgo materiali da un paio d’anni. So già quale sarà il titolo, ne conosco la struttura, so cosa succederà e di cosa tratterà. L’unica cosa che devo trovare è l’energia per scriverlo. Ho anche un altro romanzo in una simile forma rudimentale. E questo è persino più difficile da contemplare; sebbene, tra i due, mi farebbe più felice, credo, scrivere quest’ultimo. E tuttavia non so se lo farò.

Ho letto che non crede nelle anime, ma in “qualcosa” che chiama il linguaggio in azione: ci dica di quel “qualcosa” e di come opera dentro e sulla pagina.

Anima? No. Niente anima. Almeno, per quanto mi riguarda, non ho prova ve ne sia una. E non riesco proprio a pensare a qualcosa di preciso, nel fondo di noi stessi, che possa sostituirla. Ci sono le nostre azioni e la nostra inaccurata, e spesso opportunamente conveniente, memoria delle azioni altrui; abbiamo finalità individuali, desideri e bisogni e quello che ci occorre per rappresentare queste cose. Possiamo osservare – con un po’ di fortuna – quello che facciamo. Possiamo anche avere regole in base alle quali cerchiamo di vivere, fare il minor male possibile, ad esempio. Ma tutto questo non sostituisce davvero l’anima, o la mancanza di un’anima. Né dovrebbe. Voglio dire, non c’è l’anima, l’anima non c’è, vero?

Sembra sfidare l’idea stessa che persone e personaggi possano mutare nel tempo, e sostiene – cito da un’altra intervista – che cambiamento e sviluppo altro non siano che “costrutti fabbricati contro lo smarrimento del caos della vita”…

Credo che quell’idea spieghi a sufficienza. Che noi umani si cambi sostanzialmente è una nozione acquisita, una verità convenzionale. Tendo a non accettare la maggior parte delle verità convenzionali a meno che non possa – come dice Keats – sentirne io stesso il polso. Non è neppure che io pensi che non si muti o non si possa mutare. È solo che non sottoscrivo l’intera concezione del cambiamento – che lo si agisca effettivamente – sulla semplice fiducia. Forse cambiamo. So che un mucchio di sciocchezze si fondano su quell’idea. Un’amica recentemente mi ha detto: “Sono radicalmente cambiata”, e io ho pensato, beh, lascia che sia io a giudicare.

Il suo memoriale Tra loro sta per uscire in libreria con Feltrinelli. Può darcene un saggio?

Credo che la Postfazione sia sufficientemente breve e ben formulata da poter essere condivisa in questa sede. Il libro esce quest’anno in Italia, nella traduzione del mio stimatissimo amico, Vincenzo Mantovani. Una grande fortuna per me averlo. Ecco il testo: “Il fatto che vite e morti passino spesso inosservate ha ispirato specificamente questo piccolo libro sui miei genitori e definito il suo compito. Le vite dei nostri genitori, anche quelle avvolte dall’oscurità, sono per noi la prima, forte assicurazione che gli eventi umani contano. Noi siamo qui, dopo tutto. Il futuro è imprevedibile e pericoloso, ma le vite dei nostri genitori ci confermano e ci aiutano a distinguerci. La mia convinzione nell’irrevocabile mancanza di trascendenza della vita vissuta mi spinge sempre a pensare ai miei genitori. Nei momenti difficili, molto tempo dopo la loro morte, ho sentito spesso il più sincero e ardente desiderio di averli con me: il desiderio della loro attualità. Così, scrivere di loro, non voltare le spalle, non è solo un mezzo per esaudire il mio desiderio immaginandoli vicini, ma è anche puntare verso quell’attualità, che – ancora una volta – è il punto dove inizia la mia comprensione dell’importanza”.

Ci dica del suo insegnamento alla Columbia University, quest’anno: il programma del suo corso, gli studenti che lo seguono…

Insegno letteratura, a Columbia, presso la School of the Arts. Le persone a cui insegno vogliono essere tutti scrittori; ma io non insegno loro a scrivere, piuttosto a leggere. Metto insieme dei seminari e dei programmi che impongono a me e agli studenti di leggere molto attentamente, di aprire le nostre menti ad ampie interrogazioni dei testi. Non c’è nessuna teoria coinvolta in queste letture. Il mio convincimento è che se uno scrittore diventa un buon lettore, lui o lei trasferiranno queste abilità sottili nella valutazione e nel miglioramento del loro stesso lavoro creativo. Non è nulla di più complicato di questo.

Citando di nuovo “Donald Trump conta in relazione a quanto io scrivo più o meno come Donald Duck”, viene da pensare che quello sia tra i commenti più esilaranti su quell’uomo e sull’attuale ciclo politico.

Semplicemente penso che noi scrittori si debba essere liberi di scrivere ciò che vogliamo. La presenza cancerogena di Donald “Duck” Trump nella coscienza nazionale non dovrebbe farci pensare di abdicare all’abituale sovranità sulle nostre scelte. Qualcuno “userà” Trump come argomento o come provocazione, ma molti altri scriveranno brillantemente – com’è giusto che sia – su cose con le quali il presidente Trump non ha nulla a che fare. Gli scrittori dovrebbero fare quello che vogliono. Il loro lavoro migliore sarà utile nella conversazione pubblica generale, a prescindere dal suo argomento specifico. Abbiamo già così poca scelta, in questo mondo.

Ha detto: “Credo sia un privilegio scrivere libri. Una vocazione alta. Penso mi abbia permesso di sfruttare pienamente chi io sono, con il caos che ho in testa”.

 Cosa posso aggiungere? C’è forse una mente che non sia anche una brulicante confusione? Bisogna guardarsi dalle menti ordinate. E per quanto riguarda il privilegio della vita di uno scrittore, cos’altro potrebbe essere? Sei libero di scrivere quello che vuoi. Libero di dispiegare te stesso a nome degli altri. Libero di tentare di resuscitare la nostra lingua, sempre troppo stanca. Uno fa quello che Čechov faceva. Credo di patire un poco quando avverto, di altri scrittori con cui entro occasionalmente in contatto, che si sentono sfruttati, o che sentono di avere dei diritti, o di essere in qualche modo speciali. Io lo so di non essere speciale. Sono solo fortunato. Qualcuno mi ha insegnato a leggere, e tutto il resto ne è venuto di conseguenza.

ennioranaboldo@gmail.com

E Ranaboldo è saggista