Vademecum per perdersi in montagna: intervista a Paolo Morelli

Quel delirio che mi piace

di Camilla Valletti

Paolo Morelli pubblicò nel 2003 un piccolo libro, Vademecum per perdersi in montagna, che andava contro una certa maniera di concepire l’alpinismo come sfida. Il suo dizionario, dissacrante in termini flaubertiani, è un vero vademecum portatile per chi cerchi nel vagabondare in alta quota qualche cosa che vada oltre la fatica.
Morelli disegna un antimanuale per alpinisti che cercano di far “arieggiare la mente” corteggiando “un linguaggio rumorosamente silenzioso” piuttosto che rifarsi alle epopee del pensiero illuministico romantico dei Saussure, dei Daumal, dei Renard, pionieri del delirio verticalista. Morelli liquida tutto questo portato ambiguamente eroico sostenendo di trovarci “un senso di sfida, controverso, logorroico e segretamente omosessuale”.

 Il lettore troverà allora rovesciamenti inediti e spunti sempre divertenti. Abbiamo rivolto alcune domande al suo autore in occasione della sua più che opportuna ristampa.

Lei ha una voce del tutto atipica e in contrasto con la retorica, oggi imperante, dell’alpinismo alla Bonatti. Quali sono i suoi riferimenti letterari, a parte i narratori delle pianure?

In generale non vado pazzo per la letteratura di montagna, la trovo spesso noiosa, esibizionista, neanche buona come resoconto. Di solito chi la scrive non sa farsi carico del fatto che la letteratura è franca menzogna. E sono molto d’accordo con un recensore francese del Vademecum che dice che non di un libro per montanari si tratta, o almeno non solo. Del resto io ho cominciato a frequentare la montagna circa trent’anni fa, proprio quando ho cominciato a prendere sul serio la scrittura, mi pareva che facessero parte dello stesso esercizio e che anzi, la parte dell’arrampicata e delle terre alte fosse la parte più “mentale”, direi spirituale se non fosse una parola quasi impronunciabile, e lo scrivere il fatto più “fisico”. Per cui non saprei fare dei nomi appropriati, a parte forse Robert Walser, ma quello è l’Everest in ogni campo!
Cosa pensa del revival della stagione eroica dell’alpinismo con tutti i suoi cascami culturali e comportamentali?
Non so se esista veramente un revival del genere, in montagna si vedono sempre meno giovani, uno una volta mi ha detto che preferiva far salire il suo avatar! Comunque se esistesse sarebbe ridicolo come è sempre stato l’approccio “conquistatore”, “violatore”. C’è gente che si porta appresso, oltre allo zaino, tutti i gravami culturali che gli hanno imposto, non è astuta, non sa approfittare delle condizioni delle terre alte che continuano comunque a essere una grande scuola ma proprio al contrario, per imparare a non afferrare con la testa, a differire la soddisfazione del piacere, vale a dire quegli atteggiamenti mentali che ci verranno assolutamente necessari nel mutamento cognitivo e percettivo in atto.
Non trova che sarebbe necessario un antidoto al diffuso machismo alla Mauro Corona? Perché l’ironia sta sempre fuori dall’ambito alpinistico? E un libro come Alpinisti ciabattoni di Cagna non sarebbe da ristampare?

Cagna è proprio quel delirio che mi piace. Non mi piace per niente invece come delirio quello che ho sentito dire a Corona sere fa in tv: Io sono come Robert Walser, ha detto! Ma è chiaro che il problema non è rappresentato dallo stato mentale di certi personaggi, o pupazzi, ma da chi li ha scelti e continua a sceglierli, lì possiamo tornare nel razionale. A me il disegno pare chiaro: rendere la letteratura inefficace, al massimo un must, qualcosa per mettersi dalla parte giusta della società, quella che decide o crede di decidere. Come clienti beninteso. Per la stessa ragione bisogna imporre il diktat di una forzata drammatizzazione del reale, una pensosità patacca, ed evitare come la morte qualsiasi spunto di comicità vera, vale a dire quella che mantiene in sé tutto il tragico, perché la comicità sola può immaginare una via di fuga o di uscita, e lo fa col corpo. E chiaramente il discorso non vale solo per la letteratura di montagna.