Le dimissioni di Calvino dal PCI condannate dal C.D. di Torino

in «L’Unità», 7 agosto 1957

1956: l’incomoda singolarità di Italo Calvino tra partito e racconto fantastico

Massimo Cuono ricostruisce il contesto storico, culturale e politico nel quale è maturata la decisione di Italo Calvino di lasciare il PCI. Il destino rampante di un vecchio lupo di mare

Lo scrittore torinese Italo Calvino ha inviato la seguente lettera alla Segreteria della Cellula «G. Pintor» e della seconda sezione «A. Gramsci», Torino; alla Segreteria della Federazione torinese; alla Segreteria del Partito comunista italiano e alla direzione dell’Unità:

Cari compagni,

devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito.
Ho rinnovato la tessera del ‘57 manifestando un dissenso: questo dissenso non si è affatto attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa, perché ogni mio atto politico non avrebbe potuto non portare traccia del mio dissenso, e cioè costituire una nuova infrazione disciplinare dopo quelle già rimproveratemi.

Insieme a molti compagni, avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, e in questo fervore creativo ritrovasse il vigore rivoluzionario e il mordente sulle masse. Sono stato tra chi sosteneva che solo uno slancio morale impetuoso e univoco potesse fare del 1956 veramente l’anno del rinnovamento e rafforzamento del Partito, in un momento in cui dalle più diverse parti del mondo comunista ci venivano appelli al coraggio e alla chiarezza. Invece, la via seguita dal PCI nella preparazione e in seguito all’VIII Congresso, attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo l’accento sulla lotta contro i cosiddetti «revisionisti» anziché su quella contro i dogmatici, m’è apparsa (soprattutto da parte dei nostri dirigenti più giovani e nei quali ponevamo più speranze) come la rinuncia ad una grande occasione storica.

In seguito ho sperato che il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato Centrale è particolarmente grave perché il momento poteva essere particolarmente propizio a un passo in avanti e nulla si è mosso e la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di Giovanni Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna solidarietà) mi ha tolto ogni residua speranza di poter svolgere una funzione utile pur ai margini del Partito.

Ho fiducia nel movimento storico che porterà il socialismo, da una forma di organizzazione accentrata e autoritaria, a forme di democrazia diretta e di partecipazione funzionale della classe lavoratrice e degli intellettuali alla direzione politica ed economica della società. È su questa via che il movimento comunista mondiale è spinto a risolvere i suoi problemi, con o senza soluzione di continuità a seconda della capacità di rinnovamento dei Partiti comunisti dei vari paesi. È in questo senso che intendo continuare a volgere i miei orientamenti politici.
La passione del nostro dibattito interno e le prospettive dell’avvenire non mi hanno fatto dimenticare la gravità dell’attuale situazione politica italiana. La mia decisione di abbandonare la qualifica di membro del Partito è maturata soltanto quando ho compreso che il mio dissenso col Partito era diventato un ostacolo ad ogni mia partecipazione politica. Come scrittore indipendente potrò in determinate circostanze prendere posizione al vostro fianco senza riserve interiori, come potrò lealmente (e sempre conscio dei limiti di un punto di vista individuale) rivolgervi delle critiche ed entrare in discussione. So benissimo che l’«indipendenza» è termine che può essere illusorio ed equivoco, e che le lotte politiche immediate sono decise dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole idee degli intellettuali; non intendo affatto abbandonare la mia posizione di intellettuale militante, né rinnegare nulla del mio passato. Ma credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica, sia più efficace fuori dal Partito che dentro.

Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero.
Che questo mio atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può essere garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori.

Vorrei che, considerata la ponderatezza di queste mie dimissioni, mi si evitassero i colloqui previsti dallo statuto, che non farebbero che incrinare la serenità di questo commiato.
Vi chiedo di pubblicare questa lettera sull’Unità perché il mio atteggiamento sia chiaro ai compagni, agli amici, agli avversari.

Vorrei rivolgere un saluto ai compagni che nei loro settori di lavoro lottano per affermare giusti principi, e anche a quelli più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi e al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano, dei quali continuerò a considerarmi il compagno.

ITALO CALVINO

 

Il comunicato della Federazione

Il Comitato direttivo della federazione torinese del P.C.I. ha preso conoscenza della lettera di dimissioni dal Partito di Italo Calvino. Mentre spetta alla cellula «G. Pintor» la decisione sul merito, il Comitato direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione. Tali argomenti si sviluppano attorno alla affermazione secondo cui il nostro Partito non avrebbe nella realtà adempiuto ai compiti di rinnovamento che si era esso stesso preposto.

Nessuno contesta a Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l’unica misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave conclusione di lasciare il Partito.

Vi è qui un evidente allontanamento dal metodo di valutazione marxista, per il quale dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive del Partito, ma non possono pretendere di sostituirsi ad esse, senza negare la funzione del Partito medesimo nella società moderna e di fronte agli odierni compiti del proletariato.

Era conoscendo questa funzione insostituibile che Italo Calvino aveva ad esso aderito, e questa posizione che egli confusamente ammette quando riconosce che «l’indipendenza è termine che può essere illusorio ed equivoco, e che le lotte politiche immediate (e non soltanto queste, diciamo noi) sono decise dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole idee degli intellettuali».

Sicché le sue dimissioni rappresentano un arretramento rispetto a quelle posizioni che Calvino stesso aveva raggiunto e risultano in significativa contraddizione con talune affermazioni stesse contenute nella sua lettera. Di fatto, nel gesto di Calvino e nella sua lettera si esprime l’abbandono di una conquista fondamentale del pensiero marxista e del movimento operaio in generale: la necessità del Partito politico della classe operaia come forma suprema di organizzazione e unità delle masse sfruttate nella loro lotta per l’emancipazione e per costruire una società socialista. A tale conquista storica della Classe operaia Calvino sostituisce oggi formule confuse ed ambigue sul terreno ideologico e politico, là dove parla di una sua azione come «scrittore indipendente» (indipendente da chi? e da cosa?) e di «un tipo particolare  di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore»: formule che propongono una inaccettabile rinuncia – e proprio nel momento attuale – alla piena partecipazione dell’intellettuale al momento più alto della lotta rivoluzionaria, un cedimento rispetto alle sue responsabilità verso la classe operaia, un abbandono delle posizioni marxiste.

È da respingersi con fermezza l’opinione che il P.C.I. sia andato attenuando i propostiti rinnovatori in un sostanziale conservatorismo.

Il nostro Partito è stato tra le forza più avanzate del movimento operaio internazionale nel raccogliere gli insegnamenti del XX Congresso e ciò non per caso ma in quanto per la sua precedente politica, per il modo con cui esso aveva già individuato le caratteristiche sostanziali della via italiana al socialismo, era tra i più preparati ad accoglierli, sicché l’VIII Congresso ha veramente rappresentato l’opera conseguente per portare avanti l’elaborazione della nostra via al socialismo, nella lotta contro ogni riserva ed ogni impaccio massimalista, settario e dogmatico. Nessuno può scordare che molto resta ancora da compiere sulla via indicata dall’VIII Congresso, affinché tutto il Partito ne assimili e ne arricchisca ulteriormente gli insegnamenti; ma si tratta di un’opera che esige il contributo fattivo e combattivo di tutti. Così è da respingere l’affermazione che il Partito abbia posto l’accento sulla lotta contro i «revisionisti», anziché su quella contro i dogmatici, poiché il Partito lotta con eguale fermezza contro le posizioni degli uni e degli altri, a seconda di come si manifestano, e l’VIII Congresso è stato in realtà una grande battaglia contro il dogmatismo e il massimalismo, condotta senza nulla concedere a chi chiedeva un allontanamento dai principi conquistati dall’avanguardia operaia attraverso decenni di elaborazione teorica e di azione politica.

Italo Calvino può anche non essere d’accordo con questi giudizi, ma non deve avere l’assurda pretesa che la sua opinione debba necessariamente prevalere, perché la sua presenza nel Partito continui ad essere possibile, poiché, in questo caso è proprio nella sua posizione che si manifesta quella intolleranza per l’opinione altrui che è incompatibile con il rinnovamento e il rafforzamento del Partito che impedisce lo svilupparsi della democrazia del Partito nel modo più ampio possibile.

[…]

I lunghi anni di fraterno lavoro e di lotte condotte in comune con Italo Calvino esigevano queste franche parole e anche la loro serenità, tanto più i quanto Calvino si propone di essere ancora al fianco dei comunisti in molte battaglie.

Condannando il suo gesto di dimissioni e criticando i suoi errori, noi non solo rimaniamo fedeli ai principi e alla linea del nostro Partito, ma intendiamo dare ancora un aiuto a Italo Calvino perché egli riesca a ritrovare la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante quale Calvino dichiara ancora di voler essere.

Il Comitato direttivo della Federazione torinese del P.C.I.