Abhijit V. Banerje ed Esther Duflo – Una buona economia per tempi difficili

Passione civica e dedizione intellettuale

di Elena Granaglia

Abhijit V. Banerje ed Esther Duflo
Una buona economia per tempi difficili
trad dall’inglese di Fabio Galimberti
pp.472, € 24, Laterza, Roma-Bari 2020

Una buona economia per tempi difficili : Banerjee, Abhijit Vinayak, Duflo,  Esther: Amazon.it: Libri“Abbiamo scritto questo libro per aggrapparci alla speranza. Per riepilogare la storia di quello che è andato storto e del perché è andato storto, ma anche per ricordarci di tutto quello che possiamo fare per rimettere insieme il nostro mondo, se riusciremo a fare una diagnosi onesta. Un libro che racconta dove ha fallito la politica economica, dove ci siamo fatti accecare dall’ideologia, dove non siamo riusciti a vedere delle cose ovvie, ma anche un libro che racconta dove e perché la buona economia è utile soprattutto nel mondo di oggi”. Inizia con queste parole il bel libro appena uscito per Laterza dei due premi Nobel Abhijit Banerjee e Esther Duflo. Di questi tempi, sono parole poco usuali da parte di economisti, ma tanto necessarie. Dimostrano umiltà: molto è andato storto. Dimostrano passione civica: come economisti bisogna prestare attenzione a tutto quello che si può fare per migliorare il nostro mondo. Dimostrano dedizione intellettuale: per cambiare bisogna capire, e l’economia ha un grande ruolo da giocare se è una buona economia, ossia un’economia “che parte da fatti problematici, fa qualche supposizione basandosi sulle cose che già conosciamo del comportamento umano e delle teorie che altrove hanno dimostrato di funzionare, usa i dati per verificare queste supposizioni, affina (o modifica radicalmente) la sua linea di attacco e alla fine, con un po’ di fortuna, arriva a una soluzione”. Il libro si legge come un romanzo non solo perché la prosa è accessibile a tutti, anche a chi economista non è, ma perché chi legge è avvinto dalla storia, una storia radicata in esperienze concrete di uomini e donne, che si affaticano e sperano, che spazia incessantemente fra i tanti territori del mondo in cui Banerjee e Duflo hanno vissuto, in primis, Stati Uniti e India, e che sempre mette in discussione luoghi comuni. A quest’ultimo riguardo, alcuni esempi fra i tanti. Incominciamo con l’immigrazione. Se usiamo la classica logica economica, più immigrazione implica più offerta di lavoro, più offerta di lavoro implica uno spostamento verso il basso della curva di offerta e uno spostamento verso il basso di tale curva implica un livello più basso del salario di equilibrio. Dunque, l’immigrazione danneggia gli autoctoni. Come scrivono gli autori, “la logica è semplice, seducente e sbagliata”. La ragione è che un ragionamento siffatto “nasconde sotto il tappeto diversi fattori rilevanti”. Innanzitutto, più persone ci sono, più aumentano i consumi e più si sposta a destra la curva di domanda di lavoro, il che va nella direzione di un incremento del salario. Inoltre, l’offerta di lavoratori immigrati potrebbe rallentare il processo di automazione, permettendo anche riorganizzazioni del lavoro che favoriscono lavoratori autoctoni a bassa qualifica.

Oppure, si consideri la sicumera con cui tanti oggi richiedono politiche per la crescita che sarebbero immediatamente perseguibili se solo non si opponessero politici incapaci o cittadini che chiedono sempre assistenza. Il problema, non da poco, è che, nonostante la mole di studi sul tema, ancora non sappiamo esattamente cosa serva a una crescita persistente. Banerjee e Duflo smontano una dopo l’altra tante certezze. L’istruzione, ad esempio, è spesso invocata come la bacchetta magica. L’istruzione, però, sembra spiegare ben poco dell’incremento della produttività del lavoro: il grosso appare attribuibile alla produttività totale dei fattori. Ma cosa è tale produttività? È il nome che gli economisti hanno attribuito alle variabili che non sono in grado di misurare. D’altro canto, è assai plausibile che se una buona istruzione conta, i paesi che sono in grado di assicurarla sono anche in grado di offrire altro e magari è questo altro che favorisce la crescita. Dobbiamo allora restare immobili? Certamente no. Banerjee e Duflo uniscono sempre alla critica indicazioni propositive. La via prospettata è abbandonare l’obiettivo della crescita e occuparci di come sono utilizzate le risorse, contrastando le fonti più eclatanti di spreco grazie a “interventi dai contorni ben definiti” e con “obiettivi misurabili” e dunque valutabili. Fra questi sono centrali gli interventi finalizzati al benessere di chi sta peggio.

Il capitolo sull’assistenza dovrebbe, poi, essere una lettura obbligata per tutti coloro – e sono tanti nel nostro paese – che sono intrappolati nel luogo comune dei percettori del reddito di cittadinanza come irresponsabili sdraiati sul divano, divoratori di risorse da altri generate con fatica. Come argomentano con forza Banerjee e Duflo, un tale convincimento viola la dignità umana: l’assunto soggiacente è che gli altri non siano uguali a noi, sono parassiti che ci sfruttano. Lo stesso vale per i comportamenti sempre più imposti per contrastare il parassitismo. Se tali comportamenti sono perseguibili e fondati, le persone, nella stragrande parte dei casi, li seguirebbero. Se non li seguono, è perché non possono. Il rischio peraltro è anche quello di generare effetti perversi, favorendo sia la disaffezione alla cooperazione sia il non accesso ai trasferimenti, pur in condizione di bisogno, per evitare stigma e emarginazione. Gli esempi potrebbero continuare. Mi limito a un’ultima battuta sul libero scambio. Gli economisti da Ricardo in poi ne esaltano i vantaggi, mentre la gente comune ne sottolinea spesso gli aspetti negativi. Si chiedono gli autori: “La gente è semplicemente ignorante o qualcosa è sfuggito agli economisti?” Il lettore avrà ormai desunto la risposta, ma rimando al libro per i dettagli.

Certo, su singoli aspetti del libro si può discordare. Il libro delinea soprattutto interventi di modificazione nelle dotazioni individuali di risorse, siano esse reddito, istruzione e/o formazione. Personalmente, sottolineerei di più la necessità di interventi tesi alla regolazione delle opportunità per tutti disponibili. Cosa possiamo fare delle dotazioni individuali dipende, infatti, da come è organizzata la struttura sociale complessiva. Si considerino, ad esempio, le indicazioni fornite per le aree caratterizzate da declino economico. Una è risarcire le imprese affinché non licenzino i dipendenti nonostante le valutazioni di redditività privata spingano in questa direzione. Un’altra è sussidiare la mobilità/la migrazione verso aree dove è maggiore la domanda di lavoro. Lo strumento privilegiato è sempre un trasferimento individuale di denaro: alle imprese per mantenere lavoratori o agli individui per andarsene. La questione della modificazione della struttura (sociale) delle opportunità presenti in quelle aree resta sottovalutata. Al riguardo, perché non fare leva su politiche strutturali di sviluppo basate sui luoghi (place-based policies) che, mettendo in circolo le domande e le conoscenze dei diversi soggetti coinvolti, cerchino di migliorare le opportunità offerte? Perché non fare leva su politiche strutturali di democrazia economica dove i lavoratori e la comunità possano esercitare la propria voce, ad esempio, rispetto a possibili riorganizzazioni della produzione? Peraltro, sussidiare chi si ne va potrebbe peggiorare ulteriormente le condizioni di vita per chi resta. Pure laddove si potrebbe essere in qualche disaccordo, Banerjee e Duflo ci aiutano comunque, mostrando l’importanza di un pensiero critico in grado di connettere attenzione agli individui, empatia e rigore analitico. È anche grazie a contributi come il loro che l’economia può tornare a essere un elemento indispensabile della cultura democratica.

elena.granaglia@uniroma3.it

E. Granaglia insegna scienza delle finanze all’Università di Roma 3