Mariana Mazzucato – Il valore di tutto | Libro del mese

Disorientamenti politici di massa

dal numero di marzo 2019

di Franco Rositi

Mariana Mazzucato
IL VALORE DI TUTTO
Chi lo produce 
e chi lo sottrae nell’economia globale
ed. orig. 2018, trad. dall’inglese
di Luca Fantacci e Giovanni Passoni,
pp. XVIII-364, € 20,
Laterza, Roma-Bari 2018

Mariana Mazzucato, nata in Italia (1968), ha seguito la famiglia in America a 4 anni, e qui ha compiuto la gran parte del suo apprendistato accademico. È ora direttore dello Institute for Innovation and Public Purpose allo University College di Londra ed è membro di vari comitati economici in alcuni paesi europei. È stata Visiting Professor dell’Università Bocconi dal 2007 al 2009. Dal 2015 è consulente del partito laburista guidato da Jeremy Corbyn. Circola la voce che i grillini pensassero anche a lei per un dicastero nel governo giallo-verde del nostro paese e che lei abbia declinato l’offerta: di sicuro c’è che la Mazzucato è fra gli economisti più frequentemente citati dai leader 5 stelle, a dimostrazione del fatto che condividere qualche buona idea con studiosi eccellenti non fa capacità di governo. E che la direzione di questa fase critica del capitalismo richiede piuttosto il coordinamento paziente di molte buone idee e di minuziose competenze. “Capitale paziente” è una delle locuzioni centrali nel discorso teorico di Mazzucato. Con essa ci si riferisce a detentori di capitale che possiedano l’attitudine a investire anche quando le prospettive di realizzo siano a lungo termine. Costoro oggi sono diventati molto rari, sostituiti da amministratori delegati e da operatori finanziari eccitati dalla ricerca di guadagni a breve termine, i primi occupati a inseguire l’effimero successo dei rendimenti azionari (maximizing shareholder value), i secondi a realizzare ardite (blitz-) speculazioni in borsa e in altre sedi del mercato finanziario. Lo short-termism è la malattia acuta e contagiosa del capitalismo attuale. Si pensi soltanto al fatto che negli Stati Uniti il tempo medio degli investimenti azionari era di 4 anni nel 1945, poi 8 mesi nel 2000, 2 mesi nel 2008 e infine 22 secondi nel 2011, quando sono entrati nel gioco gli algoritmi di potenti computer che vendono e comprano ingenti stock di azioni al ritmo di microsecondi (high frequency trading): si immagini quale razionalità possa un giorno venir fuori se ego e alter di tutte le transazioni finanziarie fossero soltanto questi campioni meccanici che combattono “guerre di astuzia” (Keynes), l’uno contro l’altro, alla velocità della luce. Su siffatte alchimie del finanz-capitalismo il lettore italiano ha già buone informazioni da libri di notevole valore come quelli di Luciano Gallino e di Rosaria Ferrarese (mai citati da Mazzucato: resta ancora difficile che un economista legga dei sociologi).

Come vedremo, Il valore di tutto iscrive tale fenomenologia entro il capitolo teorico della rendita e del capitale improduttivo, capitolo cruciale in tutta la storia del pensiero economico, a partire dalle preoccupazioni di Adam Smith per lo spreco di ricchezza di una classe sociale dedita, a quei tempi, “a mantenere un gran numero di servitori e una moltitudine di cani”. Inoltre la Mazzucato è convinta che si possa uscire dalla malattia del “breve-terminismo” sia per le evidenze fallimentari del finanz-capitalismo sia per la riattivazione del “capitale paziente” da parte di stati e di unioni di stati. Qui si riprendono i temi del fortunato precedente libro Lo Stato innovatore (2013, tradotto da Laterza nel 2015): già nel 1987 Robert Solow ha mostrato che l’80 per cento della crescita economica dipende normalmente dalla tecnologia, ora Mazzucato mostra che le più importanti e recenti innovazioni tecnologiche (in biotecnologie, nella farmaceutica, nell’informatica, nella robotica e nelle nanotecnologie) sono dovute a investimenti statali di lungo termine. Tra l’altro investimenti e rischi non remunerati, dal momento che investitori privati intervengono nell’ultimo tratto della ricerca innovativa, si appropriano pressoché gratuitamente delle sue conclusioni e le traducono in beni o servizi per il mercato di massa: socializzazione dei rischi e privatizzazione degli utili. Rispetto alle ricette keynesiane, Mazzucato va oltre: gli interventi dello stato sono necessari non solo per rimediare le temporanee basse propensioni a investire da parte dei privati, ma per sostenere in modo continuativo l’innovazione tecnologica. Ne derivano elogi per nazioni come Stati Uniti, Germania e Francia i cui stati hanno investito in ricerca e sviluppo anche in periodi di crescita economica; e viceversa qualche giudizio sconsolato, consegnato in varie interviste e conferenze, sullo spreco delle grandi potenzialità di ricerca in Italia.

Gli accenni finora fatti possono incentivare la curiosità per la grande messe di informazioni che sono presenti in Il valore di tutto. Ma ciò che in questo libro è più importante è nella polemica che vi si dipana contro le basi del pensiero economico mainstream. Sarà sufficiente dire che la polemica è molto meno contro il neo-liberismo e molto più contro gli assiomi della teoria marginalista (o neoclassica), che nasce nell’ultimo quarto del XIX secolo e che è ancora oggi la teoria con cui vengono iniziati agli studi economici centinaia di migliaia di studenti. In fin dei conti, soprattutto in “grandi” autori come von Mises e Hayek, il neo-liberismo non è che la sublimazione filosofica e la celebrazione apologetica delle virtù eroiche che deriverebbero a chi accetta gli assiomi di base del marginalismo (prezzi determinati dall’incrocio di domanda e offerta da parte di attori con informazione perfetta, con preferenze incomparabili a livello inter-individuale e perfettamente coerenti a livello individuale, in un mercato di concorrenza perfetta).

Non si tratta solo del fatto che la teoria marginalista ha immaginato il mercato in modo irrealistico. Essa ha cancellato la tensione fra valore e prezzo che ha caratterizzato l’intera tradizione di pensiero economico europeo, dalla tradizione tomistica fino all’economia politica di Smith, Ricardo, Marx e parzialmente Mill. L’unico ente noto in questo “moderno” pensiero economico, che per fortuna non esaurisce la nostra cultura economica, è il prezzo. L’aforisma di Oscar Wilde, che Mazzucato ricorda, definisce il cinico come colui che conosce il prezzo di ogni cosa, ma non conosce il valore di niente: potremmo così concludere non che il marginalismo abbia introdotto il cinismo nelle transazioni economiche, ma che lo abbia reso legittimo, cercando di addomesticarlo entro pacifiche abitudini mercantili (e tale addomesticamento, si sa, non è neppure pienamente riuscito). Chi legge questo libro dovrebbe convenire che esso non introduce alcuna sublimazione idealistica del concetto di valore. Si tratta semplicemente di giustificare i prezzi, compreso il prezzo del lavoro e compresi non solo i prezzi troppo alti, ma anche quelli troppo bassi, sulla base di una qualche idea su quale “ricchezza delle nazioni” sarebbe per noi desiderabile. Si tratta dunque di cercare criteri da condividere per la definizione di ciò che è socialmente produttivo, di ciò che è “valore pubblico”, e non si vede la ragione per escludere tale prospettiva dalla ricerca scientifica.

Si può discutere sull’ottimismo di Mazzucato riguardo alla possibilità di un rinnovarsi del “capitale paziente”. A tale riguardo sarebbero necessarie forme e sostanza di un governo politico altrettanto paziente, quella “intelligenza direttiva” di cui ha parlato Keynes: una speranza che è difficile coltivare davanti allo spettacolo di tanto affannoso tatticismo del ceto politico attuale (in particolare in Italia). È pur giusta la polemica della Mazzucato contro le teorie della public choice che enfatizzano le diffidenze verso il sistema politico e che sono divulgate da tanti economisti mainstream: esse rischiano di rendere irrimediabili e cronici i fallimenti degli interventi statali e del resto sottovalutano i market failures. Tuttavia, resta il problema di una migliore “intelligenza direttiva”. Ma intanto uno dei punti di attacco può essere la lotta contro le impalcature ideologiche del pensiero economico dominante, forse già diventate “buon senso” in molta parte della popolazione e forse alla base di disorientamenti politici di massa. In fin dei conti può essere vero quel che ha detto lo stesso Keynes: “Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto”.

rositi@unipv.it

F. Rositi è professore emerito dell’Università di Pavia

Leggi anche l’articolo di Filippo Barbera su Il valore di tutto, il nostro libro del mese di marzo.