Femminicidio e narrazioni tossiche. Tre domande a Pina Lalli

a cura di Chiara D’Ippolito

Tre domande alla professoressa Pina Lalli, sociologa dell’Università di Bologna e curatrice del volume “L’amore non uccide” (il Mulino) che raccoglie i risultati della ricerca nazionale “Le rappresentazioni sociali della violenza di genere: il femminicidio in Italia”.

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L’amore non uccide raccoglie i risultati di un lungo lavoro di ricerca sul femminicidio e le rappresentazioni sociali della violenza di genere. Che cosa s’intende, davvero, con il termine femminicidio? Cosa vuol dire “uccidere una donna in quanto donna”?

La nostra ricerca parte dalla constatazione che il termine femminicidio sia entrato a far parte in Italia del linguaggio pubblico di molti media e delle stesse istituzioni politiche. Di recente è entrato persino nelle motivazioni della sentenza di un giudice di tribunale, seppure per negarne la valenza nel fatto specifico. A distanza di 45 anni dalla rivendicazione politica di Diana Russell circa l’esistenza di un crimine collegato alle disuguaglianze strutturali che riguardano la posizione attribuita dalla società patriarcale al genere femminile, ci chiediamo, come giustamente lei dice, che cosa possiamo farvi rientrare: tutti gli omicidi femminili compiuti per mano maschile sono forse un femminicidio? Nel volume, Lorenzo Todesco richiama una proposta a finalità statistica, per capire come possiamo rilevare quali e quante sono le uccisioni di una donna «in quanto donna»: oltre al sesso (anagrafico) di assassino e vittima, egli ricorda che occorre considerare la relazione vittima-assassino e il movente. Sarebbero dunque «femminicidi» quelli compiuti da assassini uomini legati alla vittima da una relazione di prossimità e per moventi come «prostituzione, passionali, affidamento figli, questioni di onore, molestie alle donne, omicidi a sfondo sessuale». Tuttavia, non è così semplice come può sembrare. Nella nostra ricerca, infatti, provando a verificare quali specificità abbiano gli omicidi femminili, abbiamo rilevato diverse intersezioni possibili. Certamente conta la dimensione di prossimità fra vittima e assassino (oltre due terzi delle donne sono uccise in contesto domestico o sessuale, a differenza di  quanto accade per gli uomini), ma le cose si complicano quando si considera il contesto relazionale e, vorrei dire, culturale e sociale in cui è maturato il movente: la considerazione del femminicidio può essere molto più ampia se accettiamo di collegare persino moventi economico-strumentali o di malattia alle aspettative sociali che si ritiene socialmente giustificato  attribuire ai ruoli femminili. Un esempio fra gli altri: l’anziano che uccide la propria la moglie invalida «perché non ce la fa più» (e i casi sono, purtroppo, numerosi) o il sofferente psichico che uccide la familiare donna possono indicare una motivazione sociale del gesto che rimane di tipo sessista poiché è al tempo stesso indizio dei difetti del nostro welfare state (che tanto deve alle donne care givers), e sintomo evidente dei modelli di socializzazione di genere prevalenti, che in qualche modo attribuiscono alle donne un compito di assistenza e di cura quasi-naturale che, nel caso dell’uomo, non sarebbe invece altrettanto «normale». Inoltre, se il termine femminicidio aveva una valenza in primo luogo politica per segnalare e contrastare il permanere di disuguaglianze di genere molto marcate, sarebbe riduttivo finire per considerare solo omicidi di donne per ragioni che gli assassini e alcuni media o qualche tribunale rappresentano come sentimentali-passionali. Abbiamo quindi proposto nel volume una «mappa di orientamento» in cui riportiamo i diversi tipi di omicidio femminile rilevati nel nostro database circa il triennio 2015-2017: suggeriamo collegamenti e intrecci possibili che evidenziano come il crimine femminicidio sia distinguibile in parte o in toto da  altri tipi di omicidio.

Nelle cronache giornalistiche, e alcune volte anche nel contesto giudiziario, è ancora molto presente una narrazione legata a stereotipi duri a morire, come quelli del delitto passionale o del delitto d’onore. Ma cosa c’entrano amore e gelosia con i femminicidi?

Nulla, gelosia e onore non c’entrano nulla, se non come facili coperture che legittimano sul piano sociale la giustificazione di comportamenti maschili fondati sul presunto diritto degli uomini di esercitare un irrefrenabile desiderio di possesso verso il corpo femminile, fino ad annientarlo fisicamente se qualcosa sia loro negato.   I moventi cosiddetti passionali o la presunta mancanza di controllo emozionale tappezzano le aule dei tribunali e le testate giornalistiche soprattutto nel caso dei femminicidi. Come ho provato a scrivere sul libro, anche l’invidia, ad esempio, o il desiderio di possesso materiale di beni di consumo potrebbero essere un’emozione che spinge al crimine: come mai non si parla di emozioni e passioni se un povero ruba ad un ricco perché invidioso o perché motivato dalle istanze consumistiche  tanto pubblicizzate? In tal caso si parlerà invece di rapina, di un crimine «vero», come se uccidere una donna che ti dice che la relazione con te è finita fosse meno «criminoso», o addirittura come se fosse, in fondo, colpa della donna che «si permette» di cambiare partner o preferire di rimanere da sola. Va detto, tuttavia, che dalla ricerca emerge un interessante cambiamento: di recente i media prestano maggiore attenzione a interrogarsi o a riferire di precedenti maltrattamenti subiti dalla donna: sebbene ciò si presti ad eventuali colpevolizzazioni indirette nel caso di mancate denunce, a nostro parere ciò è comunque un modo concreto di collegare il delitto ad una violenza  di genere con radici strutturali che vano al di là del singolo rapporto o delle specificità individuali di quella coppia particolare.

In Italia diminuiscono gli omicidi, ma i femminicidi rimangono per lo più costanti. Come mai?

È come se le istituzioni si fossero occupate di rimuovere alcune cause strutturali che caratterizzavano gli omicidi maschili combattendo meglio, ad esempio, la criminalità organizzata, ma abbiano sottovalutato le cause sociali e culturali che stanno alla base del femminicidio, quasi fosse un dato «naturale», su cui non era possibile intervenire. La rivendicazione politica partita dalla parola stessa e i movimenti e dibattiti femminili che si sono susseguiti negli anni hanno portato alla luce la valenza sociale delle violenze maschili contro le donne, di cui il femminicidio costituisce l’atto più estremo, mostrando come pregiudizi patriarcali, ruoli stereotipati di genere, disuguaglianze economiche e culturali fra uomini e donne nonché carenze di servizi adeguati fossero  cause di crimine e di violenza da imputare all’organizzazione della società e non a  presunte differenze biologico-naturali.  Come scrivo nell’introduzione al libro, il nostro auspicio è che anche questo lavoro di ricerca possa nel suo piccolo contribuire a mostrare qualche incrinatura nella superficie dei luoghi comuni sui delitti ritenuti passionali, fornendo spunti per riflettere meglio, piste per ideare linee d’azione utili a contrastare un fenomeno troppo spesso imputato ad un amore immaginario e immaginato, che di per sé non uccide, a meno – lo dicevo prima –  di non confonderlo con un’istanza di potere e di possesso degli uomini sulle donne.