Speciale Primo Levi: i due mestieri di Levi

Speciale Primo Levi

Una voce, un’epica. Come nacque Il sistema periodico, di Martina Mengoni

I due mestieri di Levi, di Gian Luigi Beccaria

Anna Dolfi (a cura di) Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza, di Mariolina Bertini

Ian Thomson Primo Levi. Una vita, di Mario Porro

Roberta Mori e Domenico Scarpa (a cura di) Album Primo Levi, di Francesco Cassata

di Gian Luigi Beccaria

dal numero di aprile 2018

A Primo Levi sarebbe piaciuto fare il linguista. Era “l’altrui mestiere” che più gli andava a genio. Ricordiamo tutti certe sue sagaci note etimologiche; l’articolo sulle trappole linguistiche tese ai traduttori; il gusto divertito con cui fa la parodia di varie lingue speciali (burocratiche, scientifiche ecc.); gli articoli La lingua dei chimici I e La lingua dei chimici II; le pagine sul passaggio dal nome proprio al nome comune (la storia dell’ispettore Silhouette, la ghigliottina, il bagno-maria ecc.). Sono tutte testimonianze della felicità mentale con cui Levi frequentava dizionari, soprattutto gli etimologici; in particolare il più caro, quello piemontese, che gli dettò l’ariosissimo articolo Le parole fossili, preparato per rintracciare “diplomi di nobiltà” del suo dialetto, vale a dire la ricerca delle parole derivate dal latino senza “l’intermediazione dell’italiano”.

Gli piaceva molto occuparsi di storie di parole. Comparivano in articoli di terza pagina, dal taglio svelto e limpido, dove l’ilare leggerezza espositiva ravvivava la dottrina. E vanno citate poi le pagine sul giudeo-piemontese, quelle sullo yiddish, sul moldavo, o le pagine sul tedesco del Lager, o quelle sul linguaggio delle api; e poi le tante osservazioni su vari modi di dire (leggere la vita, fare l’erlo), sulla felicità di dare il nome alle cose, sull’italiano invidia e il francese envie, sul termine adrenalina, sulla storia “strana e ingarbugliata” di benzina, o quell’excursus sui nomi dello scoiattolo. Non c’è libro in cui Levi non apra di tanto in tanto glosse o parentesi linguistiche o digressioni su immagini e metafore, perdute insieme con l’arte da cui sono state attinte: ventre a terra, mordere il freno dall’equitazione, mangiare a quattro palmenti dalla macinazione.

Levi avrebbe potuto fare il filologo, certamente il dialettologo, se penso alle attentissime simulazioni di lingua popolare e dialettale quando nella Chiave a stella dà la parola a Faussone, in un libro che non parla di paesaggi o di passioni ma di dadi, bulloni… Levi avrebbe potuto fare il filologo, certamente il dialettologo, se penso alle attentissime simulazioni di lingua popolare e dialettale quando nella Chiave a stella dà la parola a Faussone, in un libro che non parla di paesaggi o di passioni ma di dadi, bulloni, lastre di acciaio e di rame, ingranaggi, macchine. Faussone è uno che racconta le cose “che sui libri non ci sono”, e lo fa con puntigliosa minuzia e dovizia terminologica. Primo Levi fa parlare il protagonista con le parole sue. Sembra di entrare in officina. Sentiamo l’italiano piemontizzato di tornitori, fresatori, aggiustatori, elettricisti. Monti, Pavese e Fenoglio hanno dato alte prove di piemontese illustre di radice rurale. Levi propone, per la prima volta, un italiano popolare cittadino. Ricca e saporosa è la lingua di Faussone, con innesti continui di metafore prese dal linguaggio aziendale e di fabbrica. L’abilità di Levi sta nel far parlare Faussone con il suo corposo gergo corporativo anche quando deve accennare a un cielo stellato (“un cielo come io non l’avevo mai visto e neppure sognato, talmente pieno di stelle che mi sembravano fino fuori tolleranza”), o quando descrive l’erba di un prato (“nei campi intorno c’era un’erba nera, corta e dura che sembravano punte di trapano”), o quando parla a suo modo di letteratura (in dialogo a tu per tu sul mestiere di scrivere con Levi stesso, al quale spiega che quando uno “vuole raccontare, ci lavora sopra. Lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia”). Levi fa parlare l’uomo fabbro che si accende nel parlare delle cose che si possono toccare, vedere e concretamente descrivere. Usa la lingua degli uomini fabbri, una lingua tecnica e concreta.

A proposito di un Levi “linguista”, non posso tacere del tema di cui tanto s’è parlato a ridosso degli anni ottanta, quello dello scrivere oscuro, del “parlar facile” e del “parlar difficile”: dopo l’intervento di Levi su “La Stampa” (11 dicembre 1976) la discussione sul parlar difficile divenne tema diffuso, vi si cimentarono un po’ tutti. L’articolo di Levi era molto equilibrato, specie in confronto con interventi di altri che sull’argomento uscirono nei mesi successivi, e che mettevano sotto accusa i linguaggi letterari, che non si sarebbero preoccupati di “legare con le masse”: osservazione priva di senso, perché di questo passo avremmo dovuto sottostimare testi grandissimi come la Cognizione del dolore di Gadda, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, Il partigiano Johnny di Fenoglio a vantaggio di altri men che mediocri (noto di passata che a Levi piacevano molto scrittori così diversi da lui, gli irregolari e gli ibridi, i contaminati, da Rabelais a Belli e Porta, al citato Horcynus Orca, a Queneau. Leggo nel Sistema periodico: “Mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese”).
In quell’articolo Levi mostrava particolare fastidio per l’esibizione linguistica, per i venditori di gergo, per quanti cercano di dare prestigio scientifico a dei luoghi fumosi o comuni dissimulati con gerghi iniziatici. Cosa che non capita all’onestà, al chiaro e distinto della scienza, dove le parole devono corrispondere alle cose, come già aveva constatato sin dalle prime lezioni di chimica all’università. Fu certamente lo spirito pragmatico del mestiere di chimico a indirizzare il secondo mestiere di Levi (lo scrivere) verso quella caratteristica razionalità analitica e discorsiva, verso una lingua trasparente, concreta e comunicativa, priva di retorica e di pathos, chiara e concisa, come se il mestiere di scrivere fosse “un servizio pubblico”, non un gridare nel deserto. Provava diffidenza per il prosatore che scrive per pochi, o per il poeta che scrive solo per se stesso.

Pesare le parole

Levi ha trattato la lingua come un segno cristallino e transitivo, si è proteso a parlare al lettore con voce fraterna e familiare. Voleva che le sue parole fossero sempre “scelte, pesate, commesse a incastro, con pazienza e cautela”, e la sintassi del periodo schiarita, anche quando doveva misurarsi con la descrizione dell’ignobile (si può dire che tanto più terso era il suo periodo quanto più torbida era la realtà da descrivere). “Pesare le parole”, “non fidarsi delle parole approssimate”, dice nel suo Dialogo con Tullio Regge: e quel “pesare” applicato alla scrittura credo sia metafora presa dall’operazione di precisa pesatura con bilancetta del chimico che “divide, misura”. La bellezza della scrittura sta nell’ebbrezza di “cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte”, per descrivere le cose “col massimo rigore e il minimo ingombro”. Chimica e letteratura sono diventati per Levi parenti stretti: 1) perché con il minimo dei mezzi possono entrambe creare il massimo di effetti; 2) perché c’è una logica economica che governa i due mestieri, e che si trasfonde nella scrittura: Levi ribadisce più volte che l’“abitudine a scrivere compatto, a evitare il superfluo”, “la precisione e la concisione”, gli “sono venute dal mestiere di chimico”. Precisione e concretezza tra l’altro non avvicinano soltanto la prassi, ma l’etica del letterato e del chimico, dal momento che uno scrittore al pari dello scienziato dovrebbe perseguire il nitido riordinamento conoscitivo delle cose, perché lo scrivere risponde al bisogno di rimettere in ordine un mondo caotico. Mengaldo ha fatto in proposito le più acute osservazioni su precisione, chiarezza, e concretezza non solo come fine, ma anche come molla dell’invenzione della scrittura di Levi. E ne rilevava le metafore e le comparazioni “dominate da figuranti tratti dal mondo della tecnica e della scienza, che fungono assieme da stimolatori della fantasia e da concretizzatori” (es: “Emanava intelligenza e astuzia come il radio emana energia”; davanti a delle obiezioni “si incrudiva come una lastra di rame sotto il martello” ecc.). Questa tendenza traspare quando ritrae esseri umani: le sue descrizioni non sono psicologiche bensì totalmente “palpabili” (Mengaldo). Levi in dialogo con Regge confessava: “quando devo descrivere una moneta da due lire, mi riesce bene. Se devo descrivere qualcosa di indefinito, ad esempio un carattere umano, allora ci riesco meno bene”. In realtà, di un carattere, è maestro nel coglierne l’aspetto fisico (si veda nella Tregua il ritratto del Greco).

Ma fermiamoci soltanto su un suo capolavoro, Il sistema periodico, nato dal “doppio mestiere”, dove l’inestricabile mistura di chimico e di scrittore trovano una soluzione mirabile. La natura “anfibia” (la definizione è sua) di Levi scrittore trova qui una ricomposizione. Siamo sul discrimine, tra letteratura e chimica. La tabella degli elementi di Mendeleev è un artificio metaforico che muove da una condizione chimica per esplorare condizioni e vicende umane. Esemplare è Argon, l’Inoperoso, l’elemento che non produce reazioni con altri elementi, e serve a Levi per illuminare la condizione dei suoi antenati ebrei, “inerti (…) portati alla speculazione disinteressata”. Quegli antenati, al pari dei gas inerti, “non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento”. Come i gas nobili e rari, sono rimasti “al margine del gran fiume della vita”; col loro atteggiamento di astensione non si sono mescolati, non hanno modificato la loro natura; sono vissuti pigramente, non si sono intrisi di quel “groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere” che è l’uomo. Fisico e spirituale, appunto, scientifico e umano sono strettamente interconnessi. Gli elementi della materia hanno una fisionomia umana, un carattere antropomorfico. Il grigio e incolore zinco, scrive Levi, “è un metallo noioso”: “il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi”. Partner dello zinco è l’acido solforico, che al contrario “va soggetto a collere furibonde”.

Gli elementi sono, proprio come gli uomini, molto diversi l’uno dall’altro, ce ne sono alcuni “facili e franchi”, e “altri, insidiosi e fuggitivi”. Gli elementi si animano: “Ci sono metalli amici e metalli nemici”, “l’acido cloridrico (…) è uno di quei nemici franchi che ti vengono addosso gridando da lontano, e da cui quindi è facile guardarsi”; “I due partner, i due fornicatori dal cui amplesso erano scaturiti i mostri aranciati, erano il cromato e la resina”; il piombo è il “metallo della morte”, “che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più”; tutto il contrario è il fosforo, che non è affatto “un elemento emotivamente neutro”; lo è pure lo stagno, un metallo “amico”, dalla “bonarietà generosa”, mentre i cloruri sono “gentaglia”, anche il nichel è “elusivo e maligno”, e irrequieto come un folletto è il mercurio, “materia fredda e viva” che si muove “in piccole onde come irritate e frenetiche”, “sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto”, i barattoli riempiti di mercurio “a scuoterli sembrava che dentro ci si dimenasse un animale vivo”.
La Materia, dalle connotazioni intrinsecamente umane e anche “caratterialmente” difficili, conduce Levi nel Sistema periodico a raccontare le vicende biografiche del proprio mestiere di chimico come una sfida ininterrotta tra “due avversari disuguali”: da una parte la Materia “con la sua passività sorniona, vecchia come il Tutto e portentosamente ricca d’inganni, solenne e sottile come la Sfinge”, dall’altra “il chimico implume, inerme”: una sfida contro una Materia ora animata, ora inerte, neghittosa, opaca, ottusa, ora malevola, ora furiosa. Si è parlato opportunamente di “corpo a corpo con la materia”, di “partita a due” (Cases): nel Sistema periodico prevale non a caso un lessico guerresco: sfidare, sconfiggere, domare, guerriglia, scaramuccia, l’“interminabile battaglia”, “puntate estemporanee da guerra di corsa”, la “guerra di posizione”; la passività ostile della materia come “fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione”. Dicevo del materiale e dell’animato che si compenetrano, si specchiano l’uno nell’altro. Abbiamo ricordato appena sopra il mercurio come “animale vivo”. Ci sono altri momenti in cui l’autore coglie nella materia figuranti animaleschi. Nella materia da indagare o domare pulsa sempre la forza della vita (fa eccezione soltanto il solito piombo, che sembra morto: è “il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri, perché il suo stesso colore è smorto-morto”, è “un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la cenere di chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco”).

La forza della vita: la chimica è metamorfosi, trasmutazione (“per chi lavora, la materia è viva: madre e nemica, neghittosa e alleata, stupida, inerte, pericolosa a volte, ma viva”). Qui Levi sembra recuperare l’esperienza degli alchimisti (già lo osservava Philip Roth, 1986), che percepiva appunto significati umani nella materia. Nel capitolo Piombo arriva a dire che, come l’antico trasmutatore di metalli, il chimico è una sorta di mago, lo scopritore del fondo oscuro, dei misteri che la natura conserva, la sua ricerca è mossa da “qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido”. Nella materia pulsa un “cuore”: quello per esempio che la distillazione ricava. Levi ha scritto pagine bellissime sul distillare, che nasce da una purificazione che raccoglie il cuore della materia, la sua purezza, ripetendo “un rito ormai consacrato dai secoli, quasi un atto religioso, in cui da una materia imperfetta ottieni l’essenza, l’usía’, lo spirito”. È vero che “Levi non sente alcuna attrazione per gli angoli torbidi della coscienza” (Segre), “il pozzo buio dell’animo umano” (La ricerca delle radici), ma identica reazione egli non ha di fronte alla materia. Rileggendo con attenzione l’intera opera di Levi, si colgono insolubili contraddizioni tra la razionalità del Levi illuminista che celebra la sistemazione dell’ordine nel caos, e il Levi cui preme approfondire il tema del disordine, dell’oscuro e dell’ibrido. Nel Sistema periodico è difatti centrale il tema dell’impurità, della materia fermentante, fonte e origine di vita (“Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame”). E penso ad Azoto, racconto intorno all’idea quasi alchemica di ricavare un cosmetico da un escremento.

Il tema dell’ibrido: anche l’uomo è creatura ibrida, argilla impastata di spirito (rimando a pagine di Lilìt). Levi stesso si sente un ibrido, “un anfibio”, “un centauro”. L’idea dell’ibrido, dell’asimmetria primigenia della materia come motore di vita è un tema in lui quasi ossessivo. Soltanto la simmetria infranta, l’equilibrio rotto è condizione per la nascita della vita. La vita nasce dalle tensioni tra ordine e disordine. Diversi punti del Sistema periodico evidenziano l’aspetto della chimica come ordine e ragione contro il caos informe della materia. La tavola di Mendeleev mostra che la materia è ordinata, non disordinata; riporta il caos all’ordine, “l’indistinto” dà luogo “al comprensibile”. Ma ancor più rilevanti appaiono nel Sistema periodico i passi in cui Levi insiste sul tema del corruttibile come creazione, sull’irregolare e l’imperfetto che fanno parte dell’ordine vitale (“Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape”). Il Sistema periodico è stato giustamente definito un elogio dell’imperfezione. Lo mostra il germe che ha generato l’idea del libro, Carbonio, che è poi diventato il capitolo conclusivo del volume. Carbonio è il racconto della “promozione”, o storia dell’“ingresso nel mondo vivo” e non “agevole” di questo elemento, il carbonio appunto, inserito nella narrazione di una lunga catena che ha finito col formare la sostanza vivente, l’anidride carbonica, “la materia prima della vita”.

Il libro va letto come figura della complessità o se volete della contraddizione. Così come lo è del resto, e spesso, e contraddittoriamente, la scrittura di Levi: scrittura tersa, nitida e sobria che si concede però a coppie o terne aggettivali imprevedibili, e agli ossimori; l’asimmetria del mondo, il suo groviglio, si affratella per via retorica (lo notava già Cavaglion) con l’asimmetria stilistica per eccellenza che domina la scrittura del libro, l’ossimoro appunto, figura amatissima da Levi: è la sua “figura regia, per frequenza e qualità” (Mengaldo). Questa contraddittorietà, o complessità, non troviamo così rilevata negli altri grandi scrittori che hanno toccato temi di scienza: Gadda o Calvino. Si veda soltanto il racconto di Gadda dal titolo Azoto o altre sue pagine: in Gadda scienza e tecnica sono (lo ha scritto di recente ancora Mengaldo) “soprattutto un propellente linguistico, uno fra i tanti serbatoi del suo indistricabile ‘ghiommero’ (gomitolo) plurilinguistico”, in Levi invece la ricchezza terminologica e metaforica che gli offre la scienza serve, diversamente da Gadda, per creare un impasto totalmente antiespressionistico. O si prenda Calvino ultimo, che ha come perno del narrare la matematica e la geometria; in Calvino la scienza, annota ancora Mengaldo, “apre la strada al gioco, alla combinatoria, mentre il modello chimico apre la strada, in Levi, alla fantascienza” (basti pensare alla meravigliosa Quaestio de Centauris). La matematica in Calvino (lo scrive sempre Mengaldo) “logicizza la fantasia e la raffredda entro stampi compatibili con la ragione”, la chimica invece, in Levi, “ne stimola il vitalismo, la ricerca di tutti i possibili all’interno e all’esterno” del “mondo delle cose che esistono”. In Levi sia nei contenuti sia nelle forme della scrittura hanno convissuto il lucido razionalista e la persona groviglio di desideri, di sogni. Penso a quanta parte ha il fantastico nel Sistema periodico, proprio formalmente, nello stesso montaggio del libro, al quale Levi dà forma inventando cornici in cui incapsulare i due capitoli completamente favolosi, quelli centrali (stampati in corsivo), per chiudere ancora con la fantasia finale, dove il protagonista è un atomo. Fantasie e sogni, suggestioni poetiche promosse da un dato di partenza scientifico. Indicativo il capitolo Nichel, dove Levi rimanda al mondo fiabesco delle miniere: “Le viscere della terra brulicano di gnomi, coboldi (cobalto!), niccoli (nichel!), che possono essere generosi e farti trovare il tesoro sotto la punta del piccone, o ingannarti, abbagliarti (…); e infatti sono molti i minerali i cui nomi contengono radici che significano ‘inganno, frode, abbagliamento’”.

La saggezza del fare

In questa ricomposizione-contrapposizione tra fantasia e concretezza va rilevato ancora un aspetto centrale che caratterizza Il sistema periodico, libro autobiografico, che serba traccia evidente della concezione che Levi ha del lavoro di chimico e del lavoro di scrittore: entrambi i mestieri si svolgono sotto il segno della saggezza del fare, entrambi sono visti come lavoro pratico, manualità. Tesserà nella Chiave a stella le lodi della “mano artefice”, quasi di darwiniana memoria, che “fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano”. Lavoro pratico e scrittura, dicevamo, non sono mai stati per Levi attività distanti. Scrivere è un mettere insieme, cucire parole (ben nota la metafora del mestiere dello scrittore in Proust, che avvicinava chi scrive alla sarta che cuce un vestito, lavorando in modo meticoloso, costruttivo, “aggiuntivo”). E qui dovremmo riandare alle osservazioni sulla scrittura nel capitolo “Tiresia” della Chiave a stella, quando Levi raffronta i due modi del fare: il fare del tecnico Faussone montatore di gru e tralicci, che ama il lavoro fatto a regola d’arte, e il fare dell’autore-scrittore. Lo scrittore, dice Levi, al pari del chimico, e al pari dell’operaio valente e ingegnoso, deve pensare con le mani e con tutto il corpo, deve imparare a montare la sua creatura “piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo”, deve imparare a “conoscere la materia ed a tenerle testa”. Levi e Faussone: entrambi vogliono il compiuto, il fatto bene, in loro prevale il senso materiale, non estetico delle cose. Scrittore e uomo fabbro sono persone che vogliono creare una simmetria, “mettere qualcosa al posto giusto” (su questo punto fondante si rilegga la poesia di Levi dal titolo L’opera).
Scrivere, come lavorare, è un procedere da uomo-fabbro, è un incontro la concretezza e invenzione. Così come lo è stato l’incontro avvenuto nel Sistema periodico tra “le due culture”, in un libro che ha cercato di trasformare la scienza in letteratura (le tavole di Mendeleev sembrano a Levi addirittura celare una poesia con le rime: ma si veda su questo punto il dialogo con Regge). Con questo libro Levi cerca di colmare l’abisso tra scienziati e letterati, che non appartengono “a due sottospecie umane diverse, reciprocamente alloglotte, destinate a ignorarsi e non interfeconde”. Nel Sistema periodico Levi riuscirà a fare letteratura parlando della materia. Tenta un accoppiamento che nessuno aveva realizzato a quel modo, muovendosi in accordo con quanto enunciava uno scrittore per il quale Levi aveva mostrato particolare interesse, Queneau: “On parle du front des yeux du nez de la bouche / alors pouquoi pas des chromosomes pourquoi?”; e Levi: “C’è poesia nel ranuncolo e nella luna in primavera, ma anche nei vulcani, nel Calcio e nella funzione fenolo”; e Queneau: “On parle des bleuets et de la marguerite / alors pourquoi pas de la pechblende pourquoi?”: il minerale (l’uranite) è convocato da Queneau a ricordo – commenterà Primo Levi – della “fatica epica dei Curie, che dalla pechblenda ha condotto all’isolamento del Radio”, fatica che “aspetta invano il poeta che la sappia narrare”.

gianluigi.beccaria@unito.it

GL Beccaria è professore emerito di storia della lingua all’Università di Torino

Una versione estesa di questo testo è stata presentata all’interno del convegno “Cucire parole, cucire molecole. Primo Levi e Il sistema periodico”, svoltosi presso l’Accademia delle Scienze di Torino lo scorso 22-23 novembre, e sarà pubblicata nei prossimi mesi in un volume di Atti.