La traduzione: bella, fedele e irraggiungibile?

Ricchezza e complessità del senso

di Norman Gobetti

Fin da quando, ormai quasi vent’anni fa, ho cominciato a fare il mestiere di traduttore letterario dall’inglese all’italiano, mi è parso che ci fosse qualcosa che non andava nell’onnipresente e veneranda teoria-boutade secondo cui, se una traduzione è bella, allora dev’essere infedele, mentre se è fedele, allora sarà sicuramente brutta. Ci ho sempre sentito aleggiare intorno l’eco di un’antropologia delle relazioni amorose vetusta, rozza e (spero) ormai superata, quella secondo cui, ad esempio, esistono due tipi di donne, la moglie che ti aspetta a casa ma ti delude a letto e l’amante che a letto fa faville ma come compagna di vita sarebbe un disastro, o anche due tipi di uomini, quello affidabile ma noioso e quello seducente ma traditore. Mi è sempre sembrato che le cose non fossero così semplici, che dalla vita, e dalla traduzione, si potesse pretendere qualcosa di più.

Dietro l’idea della traduzione bella e infedele c’è ovviamente la consapevolezza delle difformità fra le lingue, che rendono le operazioni compiute dal traduttore letterario qualcosa di diverso dalla semplice ricerca di un corrispondente nella propria lingua per ogni vocabolo della lingua di partenza, ma c’è anche, mi sembra, un’inaccettabile semplificazione di che cosa significa cercare di essere fedeli. Chiunque abbia mai provato a trasportare un testo letterario da una lingua a un’altra sa benissimo che la fedeltà che si va cercando non è quella che consisterebbe in una sorta di riproduzione fotostatica del testo di partenza, ma è la fedeltà al senso del testo di partenza. Solo che, trattandosi qui di testi letterari, cogliere e restituire il senso dell’originale non significa evidentemente coglierne e restituirne il “contenuto” (o men che mai il “messaggio”) come se una tale cosa fosse scindibile dalla forma che lo trasmette, ma cogliere e restituire anche lo stile (il ritmo, il timbro, il registro, le figure retoriche, eccetera), e poi i sottointesi, le allusioni, i rimandi, e insomma tutto ciò che distingue un romanzo o un racconto da un manuale di istruzioni di un elettrodomestico o dal bugiardino di un farmaco.

Certo, essere fedeli al senso così inteso, trasportare da una lingua all’altra ogni singola sfumatura di ogni singola frase non è un compito facile, anzi nella maggior parte dei casi è un compito pressoché impossibile. Ogni volta bisogna fare delle scelte, decidere se sacrificare questo o quello, il suono o l’allusione, il ritmo o il registro, un gioco di parole o un riferimento letterario, ed è proprio per questo che non esistono traduzioni perfette, che non esistono traduzioni “giuste”, e che, di generazione in generazione, si continuano sempre a ritradurre i libri che ancora val la pena di leggere. Ma se a chi è alle prese con questo difficile compito si toglie il principio guida della fedeltà, che cosa gli resta per orientarsi, per capire se sta facendo bene o male, meglio o peggio? Le sue narcisistiche idiosincrasie in fatto di scrittura? I suoi “mi piace” e “non mi piace”? Le aspettative sulle aspettative della casa editrice? Vaghe idee riguardo a ciò che il lettore “capisce” o “vuole”?

Da tempo insegno traduzione e, ogni volta, c’è qualcuno che mi chiede: quanto è lecito allontanarsi? (Io rispondo: per andare dove?) Oppure: bisogna essere più author-friendly o reader-friendly? (Come se, fra autore e lettore, esistesse un’insanabile inimicizia, una sorta di contesa che il traduttore si trova ad arbitrare.) Eppure la mia esperienza mi ha insegnato che non c’è dove altro andare se non il più possibile vicino al testo originale. E che di solito il lettore non si considera affatto un nemico dell’autore, ma il suo migliore amico.

Per questo a me sembra che quello del maggior grado di fedeltà al senso del testo di partenza in tutta la sua ricchezza e complessità letteraria sia di fatto l’unico criterio che permette di stabilire se una traduzione sia migliore di un’altra. Dopodiché ogni traduttore non può non provare un senso di inadeguatezza rendendosi conto che il testo che va producendo non riesce a essere del tutto fedele, sia perché la sua comprensione del senso originale non può mai essere assoluta, sia perché le difformità fra il sistema linguistico d’arrivo e quello di partenza costringono sempre a lasciare indietro qualcosa.
Ma credo che liberarsi di questo senso di inadeguatezza dicendosi che la bellezza della traduzione va cercata nell’infedeltà sia una scappatoia poco proficua, che crea più problemi di quanti ne risolve.

Norman Gobetti è traduttore e insegna traduzione a Pisa