Ortone e i piccoli Chi: un’analisi intersemiotica del racconto del Dr Seuss

Lo sciocco più sciocco nella giungla di Nullo

di Michela Canepari

dal numero di novembre 2014

Ortone_seussScopo di questo articolo è analizzare da una prospettiva intersemiotica il libro Horton Hears a Who (Ortone e i piccoli Chi, ed. orig. 1954, trad. dall’inglese di Anna Sarfatti, Giunti, Firenze 2002) di Theodor Seuss Geisel (1904-1991), meglio conosciuto come Dr Seuss, scrittore, poeta e vignettista americano che, durante la seconda metà del XX secolo, ha creato un piccolo universo abitato da strane creature in grado di dare vita a situazioni veramente spettacolari: il libro appartiene chiaramente al genere della letteratura per l’infanzia ma, in virtù della sua ricchezza, a livello formale, rientra anche nel genere poetico, in particolare in quello del poema narrativo.

Nel corso degli anni, Seuss ha esplorato la ricerca, da parte dei bambini, di un’identità all’interno della famiglia e della società, e con Horton crea una storia dalle forti sfumature filosofiche ed esistenziali, focalizzandosi sulla discussione della fallibilità della percezione sensoriale e sull’illegittimità di qualsiasi forma di discriminazione ed esclusione.

Horton pone in effetti in discussione l’universalità della verità proposta dalla scienza e da altre istituzioni e suggerisce l’effettiva esistenza di ­realtà altre. Il suo si pone quindi come un counter-discourse, proponendo l’idea che tutti i discorsi hanno la medesima dignità delle master narratives. Potremmo quindi dire che Horton si pone come un’allegoria della rivoluzione scientifica e filosofica, ricordando costantemente ai lettori che abbiamo sempre e solo accesso a versioni parziali della realtà e del mondo.

Tutto questo viene realizzato in un libro altamente poetico, scritto interamente in tetrametro anapestico, il che rende il lavoro del traduttore particolarmente arduo. Pur concentrandosi su singoli aspetti traduttivi, la mia analisi è incrociata: dopo aver rapidamente osservato in che modo il testo originale è stato tradotto in italiano, si procederà a discutere brevemente della sua traduzione intersemiotica eseguita per il film d’animazione realizzato da Jimmy Hayward e Steve Martino nel 2008, e delle strategie interlinguistiche adottate nella resa italiana del lungometraggio. Naturalmente, le osservazioni proposte sono solo preliminari, ma spero possano in ogni caso suggerire la complessità del testo e le difficoltà che la sua traduzione comporta.

Il racconto di Seuss narra la storia dell’elefante Ortone, che sente un debole suono provenire da un granello di polvere e, convincendosi che sia il lamento di un piccolo essere che vive sul granello, decide che è suo dovere proteggerlo. Dopo alcune difficoltà iniziali, ­riesce a comunicare con il sindaco della città di Whoville (tradotto, in italiano, come “Chissà”), ma gli altri animali della giungla, non riuscendo a sentire alcunché, non gli credono e cercano di eliminare il granello e, con esso, i suoi abitanti. Ortone si trova perciò a dover difendere la sua posizione epistemologica contro l’umiliazione e gli abusi (fisici e psicologici) inflitti dalla società cui appartiene, per difendere quella che lui riconosce come la voce di una vera e propria comunità.

360_horton_film_0311La storia inizia: “On the 15th of May, / in the Jungle of Nool, / In the heat of the day, / in the cool of the pool, / He was splashing… / enjoying the jungle’s great joys… / When Horton the elephant / heard a small noise” (“Era il quindici maggio, / nella Giungla di Nullo, / mentre fuori si bolle / e nell’acqua è un trastullo, / lui si sciacqua… / e si crogiola nelle gioie giunglevoli… / quando Ortone l’elefante sente un suon dei più fievoli”). La sequenza termina con la frase fortemente coesiva, reiterata più volte nel testo, che presenta, in nuce, il messaggio fondamentale dell’intero poema: “I’ll just have to save him. Because, after all, a person’s a person, no matter how small”, tradotta con “Io devo salvarlo. Perché questo penso, ognuno è importante, sia piccolo o immenso”.

Già da questi primi versi, si possono percepire le tendenze generali che hanno guidato il lavoro della traduttrice. Nella sua resa italiana di questo complesso poema narrativo, infatti, si vede immediatamente come Anna Sarfatti abbia privilegiato gli aspetti più formali del testo fonte, dando maggiore rilievo, fra le varie espletate dal libro di Seuss, alla sua funzione ludica e di intrattenimento. Così, “Horton stopped splashing”, viene reso in italiano con “Ortone si ferma”, omettendo il verbo in –ing per ragioni di metrica. Ritroviamo la stessa attenzione nella resa delle forme in rima che, nel rispetto della migliore tradizione della nonsense literature con cui il lavoro di Seuss condivide molte caratteristiche, porta alla creazione di neologismi come l’aggettivo “giunglevoli”, atto a sopperire all’assenza, nella lingua d’arrivo, del genitivo sassone che per ragioni di metrica difficilmente qui avrebbe potuto essere tradotto, affidandosi dunque, come spesso accade, a una strategia di espansione. In sostanza, dunque, la traduttrice fa ricorso principalmente a tre delle strategie che André Lefevere (1975) aveva indicato come utili, nella traduzione di poesia: la traduzione fonemica, quella metrica e quella rimata. Ma se a volte questa selezione non ha ripercussioni troppo importanti sul prodotto finale, talvolta, purtroppo, non è così.

Innanzitutto, credo sia opportuno riflettere brevemente sulla traduzione interlinguistica del titolo, che avrebbe in realtà beneficiato dell’applicazione di una strategia di equivalenza, riproducendo fedelmente gli elementi presenti nell’originale, piuttosto che di una strategia di omissione. Nel titolo originale, infatti, la presenza del verbo sottolinea l’azione principale del testo fonte e anticipa le sue essenziali implicazioni filosofiche e scientifiche. Tutto questo si perde chiaramente con l’omissione del verbo. Eppure, nel testo fonte, la distinzione fra la capacità e l’incapacità di sentire, di percepire sensorialmente una realtà, è alla base delle problematiche epistemologiche e ontologiche che il testo (seppur in forma poetica e adattata al target infantile) propone con forza. A livello epistemologico, infatti, il poema narrativo di Seuss interroga quello che, per secoli, è stato il modus operandi della scienza: come sostiene quella che viene definita “l’odiosa cangura”, personificazione dell’ortodossia e di un approccio “scientista” delle istituzioni che governano la società, se non si può vedere una cosa allora significa che non esiste. “‘Why, that speck is as small as the head of a pin. A person on that?… Why, / there never has been!’ / ‘I think you’re a fool!’ / laughed the sour kangaroo and the young kangaroo in her pouch / said, ‘Me, too! /You’re the biggest blame fool in the Jungle of Nool!’” (“‘Se è men di uno spillo quel mini granello! / Ci vedi qualcuno?… / Ma hai perso il cervello!’ (…) ‘Sei matto!’ lo deride l’odiosa cangura. ‘Matto!’ / le fa eco la mini creatura. / ‘Sei lo sciocco più sciocco della Giungla di Nullo!’”).

Il che ci porta alle considerazioni ontologiche che Dr Seuss propone, tese a interrogare i parametri secondo i quali dicotomie come io/altro, normale/anormale, umano/non umano vengono generalmente definite. Ed è proprio questa insistenza sull’umanità dell’altro, del diverso, e sulla sua accettazione a costituire il messaggio fondamentale dell’opera di Seuss poiché, come saggiamente ripete Ortone, “a person’s a person, no matter how small”. Anche in questo caso, la traduzione italiana “ognuno è importante, sia piccolo o immenso”, attutisce la forza del testo fonte, dove a essere chiamata in causa non è una generica importanza data alla persona e un’eventuale uguaglianza civile e sociale, ma la sua stessa umanità.

Horton_canguraNon solo, ma anche l’enfasi che la cangura pone, in italiano, sulla presunta follia di Ortone è strettamente collegata alla questione, poiché spesso ai malati di mente è stata assegnata la posizione di inferiorità nella dicotomia io/altro, umano/non umano, il che coinvolge lo stato ontologico dello stesso Ortone. Prendendo le mosse dalla figura della cangura, vorrei ora fare un breve riferimento alla traduzione intersemiotica dell’opera, una trasposizione che si distingue dalla maggioranza degli adattamenti, spesso opere di sintesi. Infatti, i registi e gli sceneggiatori hanno amplificato e arricchito il testo filmico e, per rimanere più fedeli allo spirito del testo fonte, lo hanno fatto in rima. È questo, per esempio, il caso di una delle scene iniziali, in cui la voce fuori campo non solo dà informazioni che nel libro verranno inserite successivamente, ma amplia notevolmente la descrizione della vita della città di Chissà creando innumerevoli versi rimati. A parte addizioni e cambi di struttura narrativa come questi, possiamo inoltre notare diversi cambiamenti a livello dei personaggi. Infatti, quelle che Algirdas Julien Greimas (1966) chiama isotopie, cioè quegli elementi testuali di coerenza che creano un rapporto fra testo di partenza (libro) e testo d’arrivo (film), subiscono una notevole trasformazione nel processo di traduzione.

L’esempio forse più evidente è rappresentato dalla cangurina che accompagna “l’odiosa cangura” e che, come abbiamo visto, nel libro è molto ostile e sposa completamente la presa di posizione della madre. Nel film, invece, il piccolo canguro (che in versione filmica è di sesso maschile, tanto nell’originale, quanto nella versione doppiata) appare fin dal principio come una vittima dell’autorità materna e sembra essere predisposto a mettere in discussione la visione del mondo che lei cerca di imporre a lui e agli altri animali della giungla, dimostrandosi timidamente propenso a riconoscere l’esistenza di una realtà altra. Un altro aspetto piuttosto sorprendente è che Ortone, nella versione doppiata, fa sfoggio occasionalmente di un accento meridionale, un aspetto naturalmente assente nell’originale.

Molto altro ci sarebbe da dire, ma spero che questo breve articolo possa suggerire, in ogni caso, che ogni progetto traduttivo dovrebbe essere concepito come unico e individuale e che, come sosteneva Lefevere, nella traduzione poetica non è possibile privilegiare una sola strategia piuttosto che un’altra, in quanto il legame fra significato e significante è imprescindibile e tutti questi aspetti devono essere resi nel testo d’arrivo con la medesima forza e le medesime funzioni (di intrattenimento, certo, ma anche educative) che espletavano nel testo fonte.

michela.canepari@unipr.com

M Canepari insegna lingua e traduzione inglese all’Università di Parma