Le sfide dell’Antropocene alla letteratura

Ecologia new weird

di Alessandro Combina

“Sono qui per mostrarti come finisce il mondo”. È con questa dichiarazione di intenti che si apre la discesa agli inferi dell’Antropocene narrata nel nuovo libro di Jeff VanderMeer, Colibrì Salamandra, un ecothriller dal ritmo serrato che afferra il lettore con irruenza per trascinarlo in un groviglio inestricabile di responsabilità collettive, obiettivi occulti e spiegazioni mancate. Qualcuno fa in modo che Jane Smith, un’analista specializzata in cyber security, ritrovi in un magazzino un colibrì imbalsamato di una varietà ormai estinta e un biglietto che riporta le parole “Colibrì… Salamandra. Silvina”. Questo evento è il germe (o un principio di metastasi, dipende dai punti di vista) da cui si sviluppa una trama complessa e intricata, ambientata in un futuro prossimo ipertecnologico e in cui le agenzie di controllo agiscono in modo sempre più pervasivo. Un mondo pre-apocalittico in cui le catastrofi ambientali si susseguono senza tregua giorno dopo giorno. Su questo sfondo si staglia il testa a testa in absentia tra Jane e la suddetta Silvina – presunta ecoterrorista – un inseguimento, una caccia al tesoro che non tarda a diventare un’ossessione per la protagonista del romanzo, e che la porta a rischiare ogni cosa: la famiglia, il lavoro, la propria identità individuale.

Colibrì Salamandra, uscito in Italia per i tipi di Einaudi nel giugno 2022, è un romanzo sconcertante, e il lettore potrebbe uscire frustrato dal vano tentativo di rintracciare coerenti relazioni di causa ed effetto tra gli avvenimenti della trama. Le intenzioni dei personaggi, comprese quella della protagonista, non sempre appaiono così chiare e si perdono in un susseguirsi di eventi frenetico e vorticoso. Sono elementi che dal punto di vista della tecnica narrativa potrebbero apparire come gravi difetti, ma che, per avere un quadro esaustivo, bisogna far reagire con la materia concettuale con cui VanderMeer si confronta e con cui di fatto tenta di fare i conti dall’inizio della sua carriera: l’estremo contemporaneo nei suoi aspetti più urgenti e ambigui. Tutto ciò è rilevante perché senza ombra di dubbio viviamo in un mondo sempre più strano. Un mondo magmatico e stratificato in cui è sempre più difficile sistemare logicamente gli eventi – mediatici o reali – che ci sfilano davanti agli occhi. Viviamo, per utilizzare la fortunata espressione del filosofo inglese Timothy Morton, nel mondo degli iperoggetti. Quest’ultimi sono “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo”, macrostrutture o fenomeni che si sviluppano su più piani e su scale temporali e spaziali troppo grandi per poter essere abbracciati in modo coerente dalla mente umana, troppo pervasivi e viscosi perché ci si possa districare efficacemente al loro interno. Nel periodo storico in cui ci troviamo gli iperoggetti stanno esercitando una inquietante egemonia sulle nostre esistenze. Alcuni di essi esistono dall’alba dei tempi e la contemporaneità non ha fatto altro che portarli alla luce, altri sono stati direttamente creati dall’uomo moderno: per fare qualche esempio, potremmo considerare iperoggetti entità come il sistema solare, l’inconscio, il capitale, l’evoluzione, il web, ma soprattutto la crisi climatica, per Morton l’iperoggetto per eccellenza.

È innegabile allora che una realtà di questo tipo stia presentando delle sfide tutt’altro che banali alla letteratura del nuovo millennio. E forse la poca coesione, il ritmo convulso e l’eccessiva complessità di Colibrì Salamandra non sono semplicemente delle carenze, ma piuttosto i tratti rivelatori di un’acuta consapevolezza delle dinamiche che muovono la realtà contemporanea. D’altronde, il cognome VanderMeer è ormai da un po’ di anni associato a una recente tendenza letteraria afferente alla speculative fiction che proprio con la suddetta realtà tenta di confrontarsi, il new weird. Sorto negli anni novanta, questo strano contenitore di oggetti narrativi non identificati mira, attraverso una programmatica ibridazione dei generi – soprattutto fantascienza, horror e fantasy, ma non solo – e a un esibito rifiuto delle regole e dei cliché, a una libertà espressiva priva di costrizioni e preconcetti. Il new weird, aggiornando il weird classico di inizio Novecento – quello dell’orrore cosmico lovecraftiano, per intenderci – fa leva su un’estetica dell’ineffabile e dell’indicibile per proiettare nella mente del lettore mondi immaginari costruiti su alterità assolute, radicalmente non umane. È un genere che, pur appartenendo al macrofilone della letteratura non mimetica, si propone di gettare uno sguardo, come già si è detto, su molteplici aspetti della realtà in cui viviamo (cfr. “L’Indice” 2019, n. 5). Alla luce di queste considerazioni, sembra che il new weird sia nato apposta per normalizzare e fronteggiare gli iperoggetti di Morton: più la realtà diventa improbabile, più il ruolo della letteratura non realistica si fa rilevante.

Anche in Italia sembra che ci si sia resi conto dell’importanza di questo tipo di letteratura, lo dimostrano le recentissime traduzioni di due testi di Jeff VanderMeer e di China Miéville, i due campioni del new weird internazionale, già autori dei romanzi che hanno ormai assunto uno statuto paradigmatico ai fini della definizione di questo nuovo genere: la Trilogia dell’Area X Perdido Street Station (rispettivamente Einaudi, 2018 e Fanucci, 2003). Dell’ultimo romanzo di VanderMeer, Colibrì Salamandra, si è già parlato. Basti aggiungere che questo libro presenta una collocazione anomala nella produzione dello scrittore statunitense. Esso sembra infatti sconfessare la vocazione new weird del suo autore per tutta la prima parte, ma solo per ritornare, nel finale, alle tematiche e agli stilemi cari al genere in questione: l’ibridazione, la ricerca di un legame con l’alterità, il non umano, il limite tra naturale e culturale.

A Jake, con amore è invece un racconto lungo di China Miéville estrapolato dalla raccolta del 2005 Looking for Jake e pubblicato in Italia dalla piccola casa editrice Moscabianca, in un libretto corredato delle suggestive illustrazioni di Simone Pace. Come è scritto sul retro di copertina, il testo riproduce “una lettera perduta durante un’oscura apocalisse”. Le strade di Londra non sono più sicure, le persone scompaiono, ma la minaccia rimane impalpabile, incomprensibile: in questo scenario un ragazzo scrive al suo amico Jake, e lo fa esprimendo le proprie paure, la propria instabilità esistenziale generata dalla catastrofe, le sue facoltà cognitive che brancolano nel buio. Probabilmente Jake non lo rivedrà più, probabilmente la lettera non raggiungerà mai il suo destinatario: il mondo continua a esistere, eppure ha smesso di funzionare come dovrebbe. A differenza degli altri lavori di Miéville questo racconto fa della sottrazione il suo principale elemento espressivo, a livello tanto stilistico quanto concettuale: la prosa è scarna, e gli eventi, per quanto terribili, sono ammantati da un’aura di impalpabile e attonito stupore. A Jake, con amore presenta la fisionomia dell’allegoria vuota, è un contenitore narrativo che lascia al lettore la possibilità di riempirlo come meglio crede. Ma allo stesso tempo, alcune soluzioni interpretative appaiono più tangibili di altre. Per fare un esempio, è difficile col senno del poi non vedere nella reclusione forzata dei protagonisti la recente epidemia di Covid-19.

Ma andando ancora più a fondo, quello di Miéville è un testo che certamente risente delle sfide che la crisi climatica (connessa alla pandemia per mezzo del fenomeno dello spillover) sta lanciando alla letteratura negli ultimi anni. E non sono certamente sfide di poco conto, vista la natura dell’oggetto con cui ci si vuole confrontare: “Il cambiamento climatico è una concatenazione di fenomeni in larga parte invisibili, i cui nessi di causalità sono spesso difficilmente discernibili per i non addetti ai lavori, a cui è complesso attribuire manifestazioni direttamente percepibili, e soprattutto che avviene su scale geografiche e temporali talmente vaste da sfuggire al nostro consueto modo di pensare la storia e gli eventi”. Come raffigurare efficacemente un iperoggetto del genere? Se lo chiede Marco Malvestio nel suo illuminante saggio del 2021, Raccontare la fine del mondo, da cui è tratta la precedente citazione. E infatti, col progredire dell’emergenza ambientale, si avverte con sempre maggiore evidenza una desolante mancanza di voci capaci di adempiere a questo compito. Anche Amitav Ghosh si è occupato del legame tra cultura e crisi climatica in un saggio dal titolo eloquente, La grande cecità (cfr. “L’Indice” 2017, n. 7/8). E le sue considerazioni, che risalgono al 2016, non sono incoraggianti: “Questa cultura, così intimamente legata alla storia del capitalismo, è stata capace di raccontare guerre e numerose crisi, ma rivela una singolare, irriducibile resistenza ad affrontare il cambiamento climatico”. E in effetti non è semplice restituire narrativamente fenomeni come la desertificazione, o l’acidificazione degli oceani. Quasi sempre la crisi climatica e ambientale viene resa in letteratura e (soprattutto) al cinema attraverso narrazioni apocalittiche in cui un’improvvisa catastrofe ha il potere di spazzare via in un tempo ristretto milioni di vite. Questo tipo di narrazione rispecchia il bisogno umano di conferire a eventi altrimenti difficilmente inquadrabili una maggiore visibilità e contestualizzazione. Eppure, come spiega Malvestio, “inscrivere il global warming in un paradigma apocalittico porta di fatto a ignorarne manifestazioni molto importanti”.

Alcuni autori new weirdperò, sembrano insolitamente attenti a queste dinamiche e mostrano una singolare consapevolezza nel tentare di evitare le semplificazioni sopra descritte. La catastrofe del libro di Miéville, ad esempio, non è né rumorosa né caotica. Quando poco dopo “l’evento” il protagonista chiede al capotreno cosa sia successo, questo non è in grado di riferirglielo: “Era tutto molto approssimativo. Ma non gliene faccio una colpa. È che è stata un’apocalisse molto approssimativa, questa”. Una consapevolezza che lo scrittore inglese esprime lucidamente quando, verso la fine del racconto, chiama in causa Gli uomini vuoti di Eliot: “È così che finisce il mondo, hai detto. Non con un boato, ho continuato io, ma con un… Ci abbiamo pensato su. … con un sospiro profondo? Hai suggerito”.

Eppure, il problema della resa di una “catastrofe silenziosa” non è l’unica sfida che l’Antropocene lancia alla cultura contemporanea. Per invertire di segno questo “fallimento immaginativo e culturale” – l’espressione è di Ghosh – servirebbe una letteratura in grado di abbandonare l’immaginario individualizzante in cui siamo intrappolati per abbracciare le sorti della collettività. Una letteratura capace di muoversi su scale di tempo e di spazio straordinariamente ampie. E ancora, una letteratura che non arretri intimorita di fronte all’agentività del non umano e che sappia riassegnare al mondo naturale l’importanza che merita. Sono sfide che, a differenza della cosiddetta letteratura seria, il new weird sembra accettare di buon grado. E la posta in gioco è più cruciale di quanto possa sembrare.

alessandro.combina@libero.it

A. Combina è laureato in culture moderne comparate