A colloquio con Tracy K. Smith, nuova poetessa laureata d’America

Esplorare i nostri abissi alla ricerca di quello che ci fa più umani

intervista a Tracy K. Smith di Ennio Ranaboldo

Amanda Gorman

Amanda Gorman

Il 13 settembre, Tracy K. Smith, la 22a Poet Laureate Consultant in Poetry degli Stati Uniti, la cui missione istituzionale consiste nel diffondere e promuovere la conoscenza dell’arte poetica, ha condotto la sua lecture inaugurale nel Coolidge Auditorium della Library of Congress di Washington, dando anche inizio alla stagione letteraria 2017-2018. Il reading della Poetessa Laureata è stata preceduta da una lirica, molto sonora e fortemente militante, composta dalla prima National Youth Poet Laureate della storia, la diciannovenne Amanda Gorman, nata a Los Angeless e studentessa del secondo anno a Harvard. Qui l’evento: www.youtube.com/user/LibraryOfCongress

Quarantacinque anni, nata in Massachussets, cresciuta in California, con profondi legami famigliari con il Sud del paese e con l’Alabama in particolare, Tracy K. Smith ha vinto il Pulitzer nel 2012 per il suo volume di poesie Life on Mars; ha pubblicato altri due libri e un acclamato memoriale, Ordinary Light (2015) il cui centro pulsante è la madre e che si legge come un appassionato e dolente romanzo di formazione. Tra i poeti più amati e riconosciuti come influenti sulla sua opera, Emily Dickinson, Elizabeth Bishop, Robert Frost, Philip Larkin, Sheamus Heaney e Yusef Komunyakaa. Madre di tre bambini, Smith vive a Princeton, New Jersey, nella cui prestigiosa università insegna e dove dirige il programma di scrittura creativa.

La Bibliotecaria del Congresso, Carla Hayden (intervistata dall’Indice all’inizio del suo mandato), ha definito Tracy K. Smith nella motivazione della sua nomina una “poetessa di ricerca, la cui opera viaggia nel mondo catturandone le infinite voci, vivificando la storia e la memoria. Facendo leva sul potere della letteratura come della scienza, della religione e della cultura pop, Smith si confronta con il cielo ed esplora i nostri abissi alla ricerca di quello che ci fa più umani”.

L’Indice ha intervistato Tracy K. Smith in diretta poche ore prima del suo reading a Washington.

Tracy K. Smith

La Poetessa Laureata Tracy K. Smith firma il Poetry Office’s historic guestbook prima della conferenza inaugurale del suo mandato 2017-2018. Credits Shawn Miller.

Quali sono le sue priorità come Poetessa Laureata, e come conta di conciliare il suo incarico a Princeton, la scrittura e il ruolo istituzionale?

Credo nella diffusione capillare della poesia sul territorio, nella sua fruizione anche in aree geografiche e ambienti tipicamente non “serviti” dalla poesia. Recarmi in quei luoghi e in quelle comunità, organizzare reading poetici, avvicinare la poesia al pubblico, senza steccati, servirà anche a liberare la poesia dall’aura di oggetto inavvicinabile, ostico, di un’arte riservata agli specialisti. Fondamentalmente credo nella funzione di guida della poesia, per ognuno di noi. Una funzione illuminante per le domande che ci assillano, rilevante per ogni aspetto e riflesso della nostra esistenza, anche – e forse soprattutto – in condizioni estreme e nei luoghi meno aulici, come prigioni, ospedali, così come di reale nutrimento e conforto nella fase del fine vita, nelle case di riposo e di cura. La poesia fornisce il vocabolario alle nostre emozioni.
Come concilierò il tutto è una domanda che faccio spesso a me stessa. Fortunatamente, a  Princeton sono felicissimi della nomina e mi consentono di non insegnare per la durata del mio incarico. Sarò spesso in università ma senza obblighi di aula. In un certo senso, adesso sarà l’intera nazione a diventare la mia aula!

Nel memoriale – il riferimento è alle sue idee di poco più che ventenne – rievoca: “Volevo scrivere il tipo di poesia che la gente legge e ricorda, e per cui vive; i versi che avevo dentro di me di momento in momento, in un giorno qualunque”. Considera quel convincimento ancora al centro del suo fare poetico?

Devo onestamente riconoscere che quella preoccupazione “pubblica”, da giovane scrittrice, non la vivo più nei termini di allora. Quello che mi preme oggi è la lucidità che la scrittura poetica mi consente: il tempo è come se rallentasse, e posso concentrarmi profondamente sull’osservazione, sulla memoria e sulle questioni che affollano la mia mente, tentando, grazie alla poesia, di imbrigliarne il senso. Naturalmente, in quanto autrice spero ci sia un pubblico di lettori interessato a quello che scrivo, ma quello che davvero conta per me, il processo attraverso cui tutto ciò diviene posia accade nella mia sfera intima: la mia voce, le mie domande, e quanto altro immagino di stare ascoltando; sono queste le cose di cui sento il bisogno.

Un verso da Life on Mars: “È Dio essere o forza pura? Vento o la cosa che lo comanda?”. Religione e fede sono centrali, nella sua biografia, e mi chiedevo quanto, cito ancora, “l’impulso verso il divino” influenzi la sua poesia.

Sono a mio agio con l’ambiente e le esperienze della mia giovinezza [la madre era una battista profondamente devota, ndr], ma quello che ho cercato di fare, da quando ho sviluppato la mia voce e il mio vocabolario, è trovare un modo di incanalare quella fede naturale in qualcosa di più profondamente soddisfacente. E questo per me ha a che fare con il mondo reale e con le sue complessità, con l’assoluto rigore nel linguaggio che la letteratura stimola e impone. Questo significa non formulare domande semplicistiche e accontentarsi di risposte superficiali e pre-confezionate, che è quello che ero in parte incoraggiata a fare e accettare quando ero bambina e andavo in chiesa. La poesia mi permette invece di esplorare e di formulare domande complesse. Non ci pensavo certamente allora, ma credo che Life on Mars sia stato per me il tentativo di creare una teologia personale, compatibile con la mia esistenza di persona nel ventunesimo secolo. Molti scrittori definiscono il proprio lavoro in termini di ricerca spirituale: quello che si cerca di fare è rimanere sensibili a qualcosa situato al di fuori di se stessi, dare un nome a ciò che si percepisce esistere oltre il controllo razionale della conoscenza, qualcosa che sia più intuitivamente proficuo, più illuminante. Non faccio fatica a connettere questo ascolto con il divino ma sono anche del tutto persuasa che il divino viva in luoghi dove non se ne sospetta l’esistenza.

ennioranaboldo@gmail.com
E. Ranaboldo è saggista