Sandro Montalto – Bianciardi. Una vita in rivolta

A  conti fatti, ogni vita è un naufragio

di Giovanna Lo Presti

Sandro Montalto
Bianciardi. Una vita in rivolta
pp. 144, € 12
Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018

Alla vasta produzione saggistica che si è occupata, negli ultimi decenni, della figura e dell’opera di Luciano Bianciardi si aggiunge ora il volumetto di Sandro Montalto (Mimesis, 2018) Luciano Bianciardi. Una vita in rivolta. Il titolo è di per sé programmatico: fa riferimento ad uno dei nodi centrali  che trovano sviluppo nell’indagine di Montalto, già presente in altre analisi dell’opera dello scrittore grossetano, volte a definire quale ne sia la posizione politica. Domanda cui non è facile dare risposta univoca, visto che ci troviamo di fronte ad un intellettuale che dissemina – e fa bene – la sua opera di contraddizioni, ad iniziare da quella dell’appartenenza geografica, lui grossetano di nascita e “milanese coatto”.  Però, così come è inutile star a discutere quanto di grossetano e quanto di milanese ci sia in Bianciardi (ce lo racconta, implicitamente ed esplicitamente, tutta la sua opera), in modo analogo definirne a contorni netti la posizione politica esige in primo luogo una lettura attenta dei suoi scritti ed una giusta considerazione delle sue scelte di vita. Bianciardi è, insieme, un anarchico che auspica una società basata sul consenso e non sull’autorità ed un uomo riflessivo che comprende il conformismo dei suoi tempi e lo rifiuta, a partire da una precisa istanza morale. È l’uomo che nel 1952 pubblica su Belfagor lo scritto Nascita di uomini democratici, in cui racconta, con parole toccanti, la sua formazione umana e culturale, prima sotto il fascismo, poi durante la guerra, infine nell’Italia repubblicana. È l’uomo che scrive, alla nascita del suo primo figlio: «Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo […]  così ho scelto di star dalla parte dei  badilanti e dei minatori della mia terra […] e ne sono orgoglioso; se in qualche modo la mia poca cultura può giovare al loro lavoro, alla loro esistenza, stimerò buona questa cultura». Ed è anche il teorico di una società futura, di un’utopia “disattivistico-copulatoria”. Che Bianciardi fosse o non fosse un rivoluzionario potrebbe essere considerato un tema spurio rispetto all’analisi critica di un’opera il cui tasso di letterarietà è altissimo, ma così non è. La questione non è da mettere tra parentesi e non è neppure dirimibile applicando allo scrittore categorie che non gli appartengono. A posteriori appare evidente quanto avesse ragione Cesare Cases, che lo definì un “toscanaccio ribelle” e che riteneva necessario che lo scrittore venisse accettato con le sue qualità ed i suoi limiti e non misurato con un metro di giudizio esterno, calandolo a forza in una griglia interpretativa che non gli apparteneva.

Sostanzialmente accademici risultano talvolta non solo i giudizi sulle posizioni politiche di Bianciardi ma anche le vivisezioni operate in sede critica sul tessuto linguistico bianciardiano. Per un lettore può certo essere utile cogliere gli infiniti rimandi ad altri testi racchiusi nelle sue opere – rimandi esterni ed interni, reminiscenze ed assonanze che, in un traduttore seriale (per numero di pagine tradotte) e raffinato (per formazione culturale) quale era Bianciardi non possono che essere tantissimi. Ma quand’anche le avessimo individuate tutte cosa ci direbbero, queste citazioni, della sfida stilistica, dello scarto che caratterizza la scrittura di Bianciardi? È questo l’interrogativo cui dar risposta, come  più di uno studioso ha cercato di fare: è una linea interpretativa che parte dal primo organico intervento di Rinaldo Rinaldi sul gaddismo di Bianciardi ed approda  al recente saggio di Carlo Varotti La protesta dello stile, opportunamente citato da Montalto. Luciano Bianciardi dichiara i suoi maestri: sono Giovanni Verga, le cui tracce continua ad inseguire, Carlo Emilio Gadda ed Enrico Molinari alias Henry Miller. I suoi punti cardinali sono quindi la concretezza (Verga), il lavoro paziente, raffinato, costante sulla lingua e sullo stile (Gadda) e il sesso come argomento eversivo per eccellenza (Miller). A ciascuno di questi aspetti Montalto dedica la sua attenzione. L’aspirazione alla concretezza è quella che consente  a Bianciardi di lasciarci alcuni ritratti di personaggi o descrizioni di situazioni che valgono un trattato di sociologia. Un esempio: il ritratto della redattrice che supervisiona, ne La vita agra, il primo saggio di traduzione del protagonista: «E ancora, più avanti, dove descrive l’alzabandiera a bordo. Lei ha tradotto, mi pare, i marinai si scoprirono, sì, si scoprirono ha tradotto lei, mentre il testo inglese diceva: The crew raised their hats. Vede l’inglese com’è preciso? La ciurma alzò i loro cappelli. Alzò, capisce, come a salutare la bandiera sul pennone».  Poi giù una gragnuola di correzioni offerte dalla distinta signora, una più sciocca dell’altra. Anche prima del suo romanzo più famoso Bianciardi aveva il dono di cogliere il tipico attraverso la descrizione concreta. Magistrale tra tutte la pagina de Il lavoro culturale sui tic che caratterizzano il linguaggio della politica: individuata la parola-chiave – il problema – dopo un’analisi tanto divertente quanto lessicalmente puntuale, lo scrittore  approda all’icastica conclusione: «A memoria d’uomo non si è mai saputo […] di un problema risolto; semmai superato, dalla situazione creatasi con o dopo. A volte poi si è scoperto che il problema, pur essendo concreto, non esisteva. In casi simili basta affermare che il problema è un altro».

Dopo il successo de La vita agra Indro Montanelli, ammiratore dello scrittore toscano, gli propone un collaborazione al Corriere, molto generosamente retribuita. Bianciardi rifiuta e  continua le  collaborazioni giornalistiche su testate minori, non evitando le proposte di riviste porno-soft “per soli uomini”.  Dopo il 1962 scrive su Le Ore, ABC, Kent, Executive, Playmen ed anche su   Il Giorno e il Guerin Sportivo; merito di Montalto è sia sottolineare l’importanza (e non soltanto la mole) della produzione giornalistica nell’economia dell’opera bianciardiana, sia fornire un’analisi ben strutturata della presenza del sesso come argomento in Bianciardi. La sua spregiudicatezza frutta allo scrittore due processi: il primo in quanto traduttore di Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno  di Henry Miller (uno dei tre “maestri” dichiarati di Bianciardi), il secondo per un racconto paradossale ed ironico, La solita zuppa, inserito in un volume collettivo. Ne La solita zuppa Bianciardi presenta una società di un futuro indefinito in cui il sesso è liberato da ogni vincolo: l’interdetto è invece caduto sul cibo. Arrivati ad una certa età si deve scegliere un cibo che si dovrà consumare per tutta la vita. Mangiarne un altro significa compiere una grave infrazione alle norme morali. Lo si può fare, ma di nascosto: i cibi diversi dalla “solita zuppa” circolano in un mercato parallelo e clandestino, che si può raggiungere con un certo pericolo. Guai a farsi scoprire, ne va della propria reputazione.

Dal complicato processo per La solita zuppa Bianciardi esce bene: il giudice riconosce che dove c’è satira non può esserci oscenità. Montalto ricostruisce questo momento con ampiezza di testimonianze e ricorda, a proposito del tema dell’oltraggio al senso del pudore, quella che per Bianciardi è l’unica, vera oscenità, l’oscenità della morte.«Io […]  non sono sessuofobo. Sono, guarda caso, tanatofobo. Mi turba l’immagine del capo della polizia sud-vietnamita che spara alla tempia di un prigioniero». Ed anche in questo Bianciardi è profeta: nell’intuire la spettacolarizzazione (quella sì, oscena) del sesso e della morte che avrebbe caratterizzato i decenni futuri. Ed ha pure, in qualche modo, profetizzato ne La solita zuppa la “pornografia gastronomica” dei nostri tempi, per effetto della quale, in ogni ora del giorno e della notte, c’è sempre un canale televisivo in cui si parla, oscenamente, di cibo. C’è un altro processo da ricordare, nella vita di Luciano Bianciardi, quello intentatogli per diffamazione dal suo amico operaio Otello Tacconi, che compare come personaggio, con cognome e nome, ne La vita agra. La querela ferisce profondamente lo scrittore. Tacconi Otello, nel romanzo, chiede al protagonista notizie del “torracchione da far saltare”, il grattacielo della Montecatini, l’azienda responsabile della tragedia della miniera di Ribolla che, nel 1954,  esplose, provocando la morte di 43 operai, tutti amici di Bianciardi. Otello Tacconi muore, a sua volta,  prima della conclusione del processo; la moglie prosegue l’azione giudiziaria. Bianciardi scrive, afflitto, all’amico Mario Terrosi: «Io mi chiedo che mondo è questo. […] Sarebbe meglio piantarla di scrivere».

Nel libro di Sandro Montalto trovano posto, oltre a rimandi bibliografici aggiornati e precisi, ancora altri tasselli, che costituiscono, nell’insieme, una bella introduzione all’opera di un autore che, agli albori della société de consommation e dell’industria culturale in Italia riesce non soltanto a vedere ma anche a tradurre in una scrittura originalissima ciò che vede, intuendone le conseguenze. Le caratteristiche del “nuovo romanzo” che Renato Barilli individua in un suo importante intervento a metà degli anni Sessanta (l’abbassamento della lingua letteraria,  la  scomparsa del protagonista d’eccezione, la dilatazione del quotidiano) sono maglie troppo larghe per Luciano Bianciardi, ci dicono poco della sua opera ma ne spiegano, in parte, la marginalità nel panorama letterario italiano. Quanto all’uomo  Bianciardi, aderente ma non confuso con ciò che scrive, provinciale che, come Leopardi dalla sua Recanati, ha avuto il privilegio di comprendere quando disumana fosse la modernità, scrittore  ribelle travolto dal successo e immesso in un vortice cultural-mondano malgré lui, uomo in rivolta contro la stupidità dei tempi, ci pare si possa concludere con una frase tratta dal Satyricon: Si bene calculum ponas, ubicumque naufragium est – a fare bene i conti, dovunque c’è un naufragio o meglio  (anche se la redattrice de La vita agra non approverebbe la libera traduzione), a conti fatti, ogni vita è un naufragio.