Fruttero & Lucentini – Opere di bottega | Primo Piano

Quel romanzesco balzachiano che Barthes aveva dato per morto

di Mariolina Bertini

Fruttero & Lucentini
Opere di bottega
a cura di Domenico Scarpa,
2 voll., pp. CLXXIII-1524+1445, € 140,
Mondadori, Milano 2019

Come ci ricorda Domenico Scarpa nel suo saggio introduttivo alle Opere di bottega, una delle più belle recensioni mai dedicate a Fruttero & Lucentini è quella che Natalia Ginzburg pubblicò, a proposito della Donna della domenica, sulla “Stampa” del 7 maggio 1972. Su quel quotidiano aveva già salutato il romanzo con simpatia Luigi Firpo, recensore davvero inatteso per un romanzo poliziesco; ma Natalia Ginzburg tenne a intervenire a sua volta, per dire quanto l’avevano piacevolmente stupita le qualità apparentemente antitetiche di quel libro, la sua “libera allegria” e la sua “estrema precisione”. “Le persone – scrisse – sono in questo romanzo spiate da vicino (…) ma anche guardate dall’alto e come se fossero piccolissime (…). Sui delitti e sugli intrighi dei singoli e sul torvo brulicare della città, l’allegria dello sguardo che li spia e li insegue è come un fiammifero acceso, e noi a nostra volta inseguiamo la fiamma canzonatoria di questo fiammifero per vicoli e vicoletti oscuri e tortuosi, ed essa volteggia e ci canzona incessantemente, canzona insieme noi che leggiamo con rapita attenzione, e la gente della vicenda e tutti i loro torvi intrighi, e alla fiamma di questo fiammifero gli intrighi e i delitti della vicenda non ci sembrano meno drammatici e meno reali, ma noi ci ricordiamo continuamente che li ha pensati una fantasia allegra (…). L’essenza della gioia con cui leggiamo La donna della domenica è la gioia vitale, corroborante e feconda di avvicinare e incontrare gente e luoghi, finalmente, non cifre e spettri”. Parla da lettrice comune, qui, Natalia Ginzburg, ma si coglie, nelle sue parole, l’apprezzamento della narratrice esperta, incantata da un racconto che varia continuamente i punti di vista senza mai disorientare il lettore, e in più gli offre il conforto di uno humour dickensiano in totale controtendenza rispetto alle convenzioni della narrativa del tempo.

Per il lettore che si avvicina o si riavvicina oggi alla Donna della domenica, soprattutto se appartiene a quella fascia cui l’età consente di aver memoria dei primi anni settanta, la gioia di cui parla così bene in queste righe Natalia Ginzburg è come offuscata da un’ombra luttuosa. Da quanti anni, si chiede quel lettore, non esiste più il  negozio di abiti per bambini sul cui bancone in noce l’anziana commessa dai capelli bianchi sottopone ad Anna Carla i vestitini estivi per la piccola Francesca? Come resistere alla fitta di struggimento che provoca la costante circolazione, pagina dopo pagina, di tanti oggetti un tempo familiari, gettoni telefonici, biglietti da diecimila lire, macchine da scrivere, lettere abbozzate a penna su fogli azzurrini che finiscono, appallottolati, nel cestino della carta straccia? Certo, funzionano ancora alla perfezione i ben calibrati colpi di scena, e il viscido architetto Garrone e la temibile signora Tabusso mantengono, a distanza di più di cinquant’anni, la proterva vitalità dei personaggi di Molière. Ma su tutto il mondo che li circonda si stende una patina di melanconia che rende  difficile percepire quella “gioia vitale, corroborante e feconda” da cui si sentiva investita, come da un vento salutare, l’autrice delle Piccole virtù.

Gli apparati del “Meridiano”, cui ha lavorato Domenico Scarpa con  passione di critico e fiuto di detective, offrono però un efficace antidoto alla tristezza sprigionata dai frammenti di tempo perduto disseminati nella novecentesca epopea del commissario Santamaria. Ci introducono nel retrobottega di F&L e ce li mostrano al lavoro, “felici e disperati”, per usare una coppia di aggettivi cara a Liala. Disperati per le mille difficoltà delle complicatissime trame cui danno forma partendo da scalette e abbozzi in continua trasformazione; ma anche felici, di una vulcanica, fattiva  felicità  che ci contagia irresistibilmente, come quella che accompagna le invenzioni di Archimede Pitagorico. 

Quanto può essere noiosa la Cultura con la maiuscola, costretta di continuo ad adeguarsi alle ultime novità dottrinali e metodologiche?  Forse, chi lo sa meglio di tutti è il professor Monné, primo, remoto abbozzo dell’americanista Bonetto, che in una versione poi abbandonata della Donna della domenica si uccide non per aver perso (come dapprima credono gli inquirenti) un concorso universitario, ma per averlo vinto, condannandosi così a una lunga carriera all’insegna del tedio e dell’intrigo. Agli antipodi del sapere ufficiale dei Monné, dei Bonetto, del prolisso e sistematico professor Calamassi di A che punto e la notte, Fruttero & Lucentini concepiscono l’esplorazione di ogni angolo della Biblioteca di Babele al tempo stesso come un viaggio straordinario alla Jules Verne e come la perlustrazione attenta di un fornitissimo magazzino di utensili, da saccheggiare con la calcolata sagacia con cui Robinson Crusoe saccheggia il relitto messo a sua disposizione dalla Provvidenza. Da scrittori, la felicità che sperimentano è quella degli artigiani di genio, premiati dall’impeccabile funzionalità degli oggetti che vanno fabbricando; ma questa felicità ne presuppone un’altra, precedente, la felicità dei lettori onnivori capaci di apprezzare Dickens e Beckett, il feuilleton e la lirica cinese, per non parlare di quella “straordinaria miniera di informazioni” che è la “Gazzetta Ufficiale”. Che questa duplice felicità sia poi  al tempo stesso la molla e il coronamento di un’attività professionale molto ben retribuita, è per i nostri due eroi un esplicito motivo di orgoglio, che li riscatta da ogni sospetto di snobistico dilettantismo o di tardiva dedizione alla causa dell’Arte per l’Arte.

C’è sempre, nella felicità con cui F&L affrontano i compiti più ardui, anche un certo gusto della sfida: è una scommessa  introdurre in Italia generi come la fantascienza e la ghoststory oppure riproporre al grande pubblico, in pieno boom industriale, le avventure di Fantomas, con il loro inequivocabile sentore di belle époque. Ma la più audace delle sfide è certamente quella dei due romanzi torinesi, che trasformano la meno pittoresca delle città d’Italia in uno scenario in grado di rivaleggiare con la Londra di Dickens e di Stevenson. Quel romanzesco balzachiano che Roland Barthes aveva dato per morto, e fatto oggetto di  istruttive e crudelissime autopsie, per Fruttero & Lucentini non è morto per niente: circola nelle vene della moderna metropoli, trasfigura i ponti innevati della Dora in un paesaggio dostoevskiano, scava passaggi segreti tra i più prestigiosi uffici dei dirigenti Fiat e infime catapecchie che trasudano il delitto. Nessuna concessione, in questi nuovi Misteri di Torino, alla paccottiglia dell’esoterismo di bassa lega: né La donna della domenica A che punto è la notte concedono il minimo spazio ai simboli massonici iscritti nelle fontane, al satanismo aleggiante su Piazza Statuto, all’influsso nefasto dei tre fiumi. Il male, come in Balzac, si annida in realtà quotidiane e prosaiche: nei polverosi e labirintici uffici del Comune, nella squallida osteria periferica della “Penna nera” con i suoi tavoli di fòrmica e le sue luci al neon. È sempre una facciata di  normalità a dissimulare le anomalie della Torino segreta di F&L, stupefacente per tutti ma non per loro che ne conoscono, come Montaigne di Parigi, “ogni verruca”.

Nel 1980 lavoravo in Rai alla trasmissione Finito di stampare, di Guido Davico Bonino. Era uscito da poco A che punto è la notte e Davico  invitò i due autori per intervistarli. Venne soltanto Fruttero. Fresca della lettura del  libro, approfittai di una pausa per chiacchierare un po’ con lui. Pensavo di avere un asso nella manica, una rivelazione che lo avrebbe sbalordito. Lui e Lucentini avevano inventato di sana pianta l’itinerario ideologico di don Pezza, che dal marxismo si converte alle dottrine gnostiche; ma io conoscevo un dottissimo bibliotecario dell’Università che, senza  somigliare in nulla al losco parroco di Santa Liberata, aveva seguito esattamente lo stesso percorso, ed era passato dal più rigoroso “socialismo scientifico” – quello di Amadeo Bordiga – a una fervida militanza gnostica, attestata anche da una raffinata plaquette di versi manichei. Un pittoresco cenacolo si riuniva per approfondire, sotto la sua guida, i rapporti tra gnosi e sufismo; gli eoni e il pleroma erano il  pane quotidiano degli adepti. Mi pareva una palese dimostrazione dell’assunto di Oscar Wilde per cui è la vita a imitare l’arte; come avrebbe potuto lo scrittore restare indifferente davanti a quei libreschi fantasmi che  per una pirandelliana magia avevano preso vita e circolavano nella Torino del 1980? Ma non avevo tenuto conto del fatto che non c’era sfaccettatura della nostra città che potesse stupire quello che Lucentini chiamava, affettuosamente, “il vecchio Fruttero”. “Eh  – mi disse con un sorriso amabilmente elusivo  – sa, cosa vuole, fosse un’altra città… ma a Torino, sono cose che capitano”.

mmaria.bertini@unipr.it

M. Bertini ha insegnato letteratura francese all’Università di Parma