Sandro Veronesi – Il colibrì

Impiegare tutte le energie per restare fermo

di Matteo Fontanone

Sandro Veronesi
Il colibrì
pp. 366, € 20,
La nave di Teseo, Milano 2019

Scrivere dell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi a più di sei mesi dalla sua uscita significa includere nella riflessione su Il colibrì in quanto opera letteraria anche un discorso ulteriore, più pragmatico ed editoriale, su Il colibrì in quanto favorito alla prossima edizione del Premio Strega, covid-19 permettendo. Posto che delle dinamiche sotterranee e dei giochi di potere che determinano il risultato dello Strega non importa a nessuno se non al pubblico interessato degli addetti ai lavori, è un dato di fatto che il libro vincitore del Premio goda, nei mesi successivi, di un cono di luce che ne moltiplica tirature, vendite ed esposizione mediatica, proiettandolo là dove un normale romanzo italiano – se si escludono le superstar dei gialli – finisce di rado, sugli scaffali dei supermercati e negli autogrill. Per ambire alla vittoria, il romanzo candidato allo Strega deve per forza di cose presentare ai blocchi di partenza un certo tipo di pedigree, una somma di ingredienti che, salvo eccezioni, collochiamo senza difficoltà nell’orbita di quel fenomeno culturale definito masscult da Dwight Macdonald. Il potenziale vincitore deve piacere ai lettori esigenti ma allo stesso tempo parlare anche a chi di solito legge poco o niente, possedere buona parte di quelle cifre che mettono d’accordo la critica letteraria – le stesse che convincono il grande pubblico di trovarsi di fronte a un’opera importante – e insieme cercare di semplificarle e renderle accessibili, sciogliendone i nodi di senso più complessi e tenendo a bada le impennate troppo alte. Il romanzo ideale dev’essere articolato ma rassicurante, ben scritto ma d’intrattenimento, colto al punto giusto ma fluido nel ritmo, bilanciato tra qualità del ragionamento e potenza della storia. L’aderenza di un’opera a questo identikit si fonda su un insieme disordinato di cause, il cui allineamento non sempre è facile da prevedere: le buone quotazioni dell’autrice o dell’autore candidato, l’accoglienza delle firme che contano e le vendite delle prime settimane, l’adattabilità commerciale del libro, la sua capacità di intercettare il dibattito pubblico in quell’esatto periodo storico. In questo senso, allora, Il colibrì è il libro giusto nel momento giusto, e risponde perfettamente a ognuno dei requisiti elencati poco sopra.

Il colibrì è Marco Carrera, figlio prediletto di una buona famiglia della borghesia fiorentina, oculista esperto, marito di una ex hostess psicopatica che lo attira a sé con un inganno, padre di una figlia amatissima. Ad affibbiargli questo strano soprannome è la madre, quando Marco, ancora bambino, manifesta un problema di crescita che fa tanto discutere i genitori ma si risolve con una semplice terapia ormonale. Oltre a essere aggraziato e ben proporzionato, il colibrì è l’unico uccello che impiega tutta la sua energia nel volo per restare fermo, esattamente lì dov’è: al protagonista lo rivela Luisa Lattes, la donna amata da sempre e per sempre. Da qui, le similitudini con la figura di Marco: la sua esistenza è segnata dalla morte, che si manifesta per la prima volta in una notte d’estate, al mare, nella bella casa di famiglia tra i pini. In futuro, ed è questo lo schema fisso del libro, la tragedia ritornerà spesso, troppo, accanendosi sistematicamente sulle persone che ama e condannandolo per un’ovvia simmetria letteraria a una vita molto lunga. Da quell’episodio in poi, come il colibrì resta fermo anche Marco Carrera, che affronta i lutti inventandosi homo probus, cercando di diventare un perno per gli altri, di conservare una certa stabilità, di farsi scialuppa di salvataggio e centro di gravità per chi resta. Il dolore e la sua inevitabilità sono forse i nuclei intorno a cui si addensa tutto il romanzo, accompagnati da una lingua – una voce, la chiamano i professionisti dell’editoria – intimistica e calda, costruita, chissà se intenzionalmente o meno, come un congegno che scava nel lettore e presto o tardi porta in superficie un certo sentimentalismo. Un esempio plastico di questa estetica è il capitolo in cui Veronesi racconta le ansie notturne di un genitore qualsiasi, mentre il figlio non rincasa e si staglia sempre più consistente il fantasma di “quella” telefonata.

È certamente un libro di trama, capace di commuovere chi legge con una frequenza quasi sfibrante, ma soprattutto è un libro di struttura. Il colibrì è sorretto da un’architettura complessa, che scompone il romanzo secondo un ordine diverso dallo scorrere lineare del tempo e lo fraziona in tanti segmenti che si reggono in piedi come per un gioco di prestigio, aiutati da puntelli fissi della narrazione (le lettere di Marco a Luisa e di Luisa a Marco, oltre a quelle che Marco invia al fratello senza mai ottenere risposta) disposti con intelligenza dall’autore. La vicenda del colibrì, con tutto il suo bagaglio di cause e conseguenze, punti interrogativi e momenti di svolta, si chiarifica gradualmente lungo il libro, frammento dopo frammento, seguendo un’oscillazione irregolare eppure armoniosa e ordinata, avanti e indietro attraverso tanti decenni e fasi della vita. Si diceva che un buon candidato al Premio Strega deve saper corteggiare sia il pubblico dei cosiddetti lettori forti che quello degli occasionali: ecco, Veronesi offre ai primi un impianto complesso da smontare e analizzare, e conquista i secondi con la forza di una storia che proprio grazie a quest’impianto e alla sua tensione emotiva raggiunge una dimensione di struggimento, di epica quotidiana. Poi ovviamente c’è la scrittura in sé e per sé, ma su questi aspetti non è quasi il caso di indugiare. Anche nei suoi libri meno riusciti, Veronesi si è sempre dimostrato uno degli autori italiani più a suo agio con le insidie della forma, dotato com’è di uno stile avvolgente e capace di grande intrattenimento, genuinamente predisposto a quelle frasi fulminanti da sottolineare con la matita tanto quanto alla profondità del pensiero complesso. Soltanto una menzione veloce ai dialoghi: difficilmente, nell’ambito della narrativa a larga diffusione, se ne leggono di così rotondi, ritmati, credibili.

Per ambientazione sociale e parabola del protagonista, il nuovo libro di Sandro Veronesi può essere inquadrato come la tappa più recente del filone contemporaneo del romanzo borghese, i cui interpreti sono quasi sempre scrittori uomini che mettono in scena le considerazioni di un io maschile sul proprio stare al mondo, sulla sessualità, sull’invecchiamento e le altalenanti soddisfazioni di una vita privilegiata.

Basti pensare, a campo largo e riferendoci soltanto a romanzi usciti nel passato prossimo, ai lavori di Missiroli, Starnone, Piccolo, all’ultimo Bontà di Walter Siti (Einaudi, 2018). A differenza dei loro protagonisti, però, Marco Carrera è un personaggio meno muscolare: la sua, ridotta ai minimi termini, è la semplice vicenda di un uomo buono che prova a tenere insieme i suoi affetti mentre fuori soffia la bufera. La sua chiave di volta, infatti, Marco la trova nel mettersi al servizio degli altri, nel farsi custode della memoria dei genitori e scortarli con tenerezza verso la morte, nel tentativo cocciuto di ricucire lo strappo col fratello, nel prendersi cura prima della figlia e poi della nipote. Certo, la prospettiva del libro rimane maschile, ma siamo a distanza di sicurezza da certi scenari con cui forse la letteratura di oggi convive fin troppo serenamente. In molti hanno contestato all’autore le ultime pagine, una deriva utopista che in effetti sembra fuori fuoco e poco accordata con il resto della narrazione. È vero, se ne poteva fare a meno: possiamo leggerle come il tentativo un po’ maldestro di Veronesi, il cui impegno politico è cosa nota, di immaginare una via d’uscita da un mondo che sembra irreparabilmente intrappolato nel cinismo, nelle logiche del profitto, nello scacco mortale tra ambiente e posti di lavoro. Il tentativo, a differenza del romanzo, non è riuscito, ma consola sapere che nonostante tutto la letteratura continua a provarci.

matteo.fontanone@gmail.com

M. Fontanone è italianista e consulente editoriale