Anna Wiener – La valle oscura

Giovani carini occupati, monetizzati e controllati

di Cinzia Schiavini

Anna Wiener
La valle oscura
ed. orig. 2020 trad. dall’inglese di Milena Zemira Ciccimarra,
pp. 309, € 19
Adelphi, Milano 2020

Che cosa può esserci di oscuro sotto il sole scintillante della California, in una delle aree anagraficamente più giovani e dinamiche del paese, con un’economia in espansione esponenziale che promette non solo ricchezza a cinque zeri, ma anche di lavorare seguendo le proprie passioni? Un mondo fatto di ambienti informali e non gerarchici, confortevoli come spazi domestici e invitanti come stanze dei giochi; un mondo che trasforma le case in uffici; un luogo in cui la continua nascita ed espansione di startup genera sempre nuova domanda e – apparentemente – mai surplus di lavoratori, o adepti? Che cosa c’è di oscuro lo illustra Anna Wiener in un racconto che è finzione solo in minima parte, come ci avvisano la quarta di copertina e il sottotitolo dell’originale (A memoir), e che resta in bilico fra romanzo e cronaca in ogni riga e a ogni pagina delle oltre trecento che lo compongono. A guidare il lettore è la voce di una insider che per il sogno della Silicon Valley ha lavorato e vissuto cinque anni, prima di decidere di mollare tutto andando contro ogni logica materiale e economica, e di raccontarne il dietro le quinte.

La valle oscura descrive certo l’alienazione di esseri umani spesso isolati nelle loro case e davanti a schermi, soggetti che interagiscono solo via chat, messaggi e videoriunioni, e la cui intensità emotiva e relazionale resta minima anche quando abbandonano lo schermo e si ritrovano fisicamente insieme, nei medesimi, enormi spazi delle startup. Wiener racconta la dissoluzione fra pubblico e privato; racconta soprattutto i labili margini delle identità individuali in contesti che spingono all’identificazione con la propria azienda, con il suo nome e il suo logo, ben oltre i confini del tempo e dello spazio lavorativo. Racconta di come, attraverso l’involucro rassicurante dell’informalità e dello svago, i dipendenti siano assorbiti per intervalli di tempo sempre maggiore nel sistema di produzione immateriale della Silicon Valley, fino a dimenticare l’esistenza di un altrove reale, materiale e incarnato, in cui vivere. Racconta la dematerializzazione del lavoro stesso, che qui perde la sua connotazione di “fare” per divenire scambio virtuale nella risoluzione dei problemi degli utenti, ma anche comunicazione frenetica fra gruppi e colleghi, elemento fondativo di un’identità virtuale collettiva che osmoticamente vive i successi e le crisi aziendali come crisi del soggetto, in simbiosi con il suo involucro aziendale.

Non è semplice capire, dal racconto di Wiener, che cosa in realtà venga fatto, in termini lavorativi, nelle startup, e forse meno ancora cosa faccia la protagonista-voce narrante, lì catapultata da un mondo agli antipodi della Valley, come quello grigio e feroce della piccola editoria newyorkese, imploso sull’onda lunga della Grande recessione, dove lei aveva trascorso i primi anni dopo il college. Reclutata prima da un terzetto di ventenni per un progetto sinergico di ebook realizzati nella Grande Mela (in cui la protagonista non troverà una propria collocazione), farà poi il grande salto verso San Francisco e, umanista fra i tecnici, si troverà costantemente a dover dimostrare di non valere meno di loro, lavorando in vari ambiti marginali alla progettazione e creazione vera e propria, primo fra tutti l’assistenza clienti in una startup di analisi dei dati, ma con gratificazioni economiche e una libertà sconosciuta e inebriante. Retrospettivamente, però, quella libertà si rivela tale solo sotto condizione, cioè dipendente dalla produttività, come nota amaramente la protagonista: “Finché eravamo produttivi potevamo essere noi stessi; o meglio, la versione di noi stessi che voleva l’azienda – leali, e pronti al sacrificio di ciò che non era compatibile con essa”.

Quello che però via via emerge, al di là delle vite individuali fatte di cene di delivery, di attività ricreative aziendali finalizzate a creare lo spirito di gruppo, di (finte) immersioni nella natura sul lago Tahoe, di party in appartamenti condivisi con vista sulla baia e di cacce al tesoro in giro per la città organizzate come dopolavoro dall’azienda stessa, è il mondo che si cela sotto l’ostentata celebrazione di creatività e libertà: un mondo esclusivo ed escludente, non solo verso la diversità demografica di San Francisco, scalzata da affitti troppo cari da sostenere, ma anche verso la ricca diversità culturale di una città dalla gloriosa storia sociale, ora ridotta a campo di gioco di ambiziosi postadolescenti sicuri di sé da cui dipendono milioni di dollari e in cui un’intera società crede. E le cose non vanno meglio all’interno delle startup della Valley, prima di tutto nei confronti delle donne – una parte esigua e raramente valorizzata, quando non discriminata –, e poi delle minoranze etniche, oggetto di attacchi di gruppi di haters o, più sottilmente, strutturalmente esclusi da agghiaccianti logiche “razionaliste”. Soprattutto, emerge l’enorme potenziale dei big data come sistema che, profilando e trasformando in obiettivi di marketing gli utenti del web, costituisce uno strumento formidabile non solo di crescita consumistica, ma anche di controllo sociale e di polarizzazione politica. Ne sono esempio lo scandalo della talpa alla National Security Agency e la fuga di notizie sull’impiego dei big data da parte del governo, a cui la narratrice allude lasciando intravedere l’intreccio sotterraneo (e da tenere ben nascosto) fra controllo politico e nuove tecnologie “democratiche”, mostrando il labile confine fra presunta libertà e sorveglianza di stato all’interno di un mondo virtuale sempre meno libero – in cui la stessa vita umana, come ogni altra cosa, deve essere ridotta “alla versione più semplice e patinata di se stessa (…) ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata e controllata”.

Quello raccontato da Wiener è, infine, un mondo da cui non è facile evadere, come la narratrice scopre decidendo di cambiare lavoro e di trasferirsi in una start up open source, nonostante il de-mansionamento e la riduzione di stipendio, nella speranza di trovare un ambiente e un lavoro più etici e un più sano equilibrio fra pubblico e privato nella gestione dei big data. Ma anche qui, sotto la rassicurante patina edonistica e l’informalità scanzonata di un’azienda arredata e progettata come la Casa Bianca, in cui i dipendenti sono invitati a prendersi cura di sé e del proprio benessere, si cela una visione distorta del rapporto fra l’individuo e la compagnia, che fa del corpo stesso un elemento da ottimizzare secondo la prospettiva del biohackingcioè la pratica di cambiare la chimica e la fisiologia del corpo, di migliorarne le prestazioni, modificando lo stile di vita – in un’ottica che effettivamente riduce il corpo a una piattaforma da migliorare artificialmente. Il corpo e la vita stessa diventano sempre più immateriali, anche perché sempre più la vita scorre online per lavoro, per svago, per noia, e – constata Wiener – il tempo vola senza parlare con nessuno, nemmeno quando si lavora in ufficio. Con un fardello psichico che cresce togliendo energie ed entusiasmo, sono così in tanti a sfogare i propri desideri e sogni sull’agire materiale sul “costruire” qualcosa – dall’artigianato alla creazione di una città, a seconda delle possibilità e megalomanie individuali.

Se nel mondo della Sylicon Valley si inizia a fare strada la coscienza delle disparità e delle storture di un impianto economico che crea enormi ricchezze, è comunque difficile tracciare la linea che divide chi è sfruttato e chi sfruttatore, in un sistema in cui tutti i partecipanti sono privilegiati, benché in misura diversa. Analogamente difficile è porre questioni etiche in un mondo che si autorappresenta come tecnologicamente all’avanguardia e progressista, ma da cui affiorano le crepe di una microrealtà nella quale ogni innovazione è a misura di business, in cui tutto può essere comprato e venduto.

L’immagine che più somiglia alla Silicon Valley descritta da Wiener è proprio quella di un impero a forma di grande bolla, speculativa ma anche ideologica, che si gonfia in un processo di autoalimentazione, sebbene non si possano ignorare i canali di lavoro e ricchezza che la legano alla realtà politica ed economica esterna, e in qualche modo la alimentano. Una bolla dentro cui vivono ventenni che sembrano restare sempre tali; “un mondo di Peter Pan”, lo definisce una amica neoquarantenne della voce narrante, in cui non si diventa mai adulti se non bucando la membrana (finanziaria? autocelebrativa? ideologica?) che lo protegge e che protegge tutti coloro che sono all’interno. Ma da cui, se si trova il coraggio di uscire, ci si ritrova più grandi, adulti, maturi… e forse anche felici.

cinzia.schiavini@unimi.it

C. Schiavini insegna letteratura angloamericana all’Università di Milano