La lotta contro il senso. Intervista a Franco Cordelli

Intervista di Massimo Castiglioni a Franco Cordelli

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Un libro di racconti, ammesso che Tao 48 lo sia davvero (e in effetti nella Nota alla fine tu dici che i testi raccolti non sono né racconti né novelle), sembra coprire una specie di lacuna nella tua bibliografia, dove troviamo romanzi, saggi, testi teatrali e anche un libro di poesie. Sempre in quella nota dici che non hai una particolare predilezione per questa forma, ma è un po’ difficile crederlo dopo aver letto questo libro.

Quella nota direi che va intesa quasi soltanto nel senso che leggere un libro di racconti è difficile, mentre leggere un romanzo è più facile. Leggere racconti vuol dire passare da un racconto all’altro, e il passaggio da una storia in sé compiuta a un’altra in sé compiuta è difficile. Io mi riferisco solo a questo aspetto psicologico e pratico. Probabilmente bisogna imparare a leggere questi libri: leggere un po’ di racconti, poi smettere e riprendere dopo. Ma non ho nessun elemento concettuale per poter sostenere questa “predilezione”. Tant’è vero che proprio dopo aver scritto questa nota, mi sono chiesto: “Ma perché devo essere così stupido?”. Mi sono detto di provare a leggere libri di racconti che non ho letto, e in effetti ci riesco usando questo sistema di leggere uno o due racconti, non di più, mettendo poi il libro da parte, e prendendo quello di un altro autore. Certo, non c’è il piacere della continuità che ti dà un romanzo. È un tipo di applicazione diversa all’oggetto. Io direi però che ci si deve abituare. E in effetti in questi ultimi mesi posso dire di aver messo a frutto questo sistema. Aggiungo che mi ha molto aiutato, per coincidenza, un libro in particolare: Un bagno nello stagno sotto la pioggia di George Saunders. Si tratta di un’analisi, un ragionamento, su sette racconti di scrittori russi. Lì vedi come in realtà si devono leggere i racconti, che richiedono un’attenzione concentrata che la lettura di un romanzo non implica, o che sfugge facilmente, impegnato come sei a seguire il continuum narrativo. Il libro di Saunders lo consiglio caldamente.

Questo come lettore, ma come scrittore?

Forse ho sempre scritto racconti, così, quasi casualmente. Veniva un’idea e scrivevo un racconto, però poi non ne tenevo conto, perché tutto rientrava nel contesto del discorso che ho fatto finora, quello del continuum, della potenza che un romanzo sprigiona anche attraverso la quantità, come se la brevità del racconto potesse sprigionarne meno. Poi in realtà Saunders insegna che la concentrazione nella lettura di un racconto può sprigionare un’analoga potenza. Nello scrivere, ogni volta era un po’ per caso. Erano sempre cose che ho scritto rapidamente, in un giorno. Persino Corviale, che è il racconto più lungo, l’ho scritto in una volta sola. Ma tranne nei casi in cui alcuni di questi testi mi sono stati commissionati, mai ho pensato di pubblicarli o di fare un libro.

Sempre nella Nota dici che i testi sono stati scritti nell’arco di quarant’anni. Alcuni su commissione, altri no; la maggior parte no in effetti. Cosa ti ha spinto a scrivere quei testi non su commissione?

Quasi sempre un’immagine, che deve essere tradotta come tale. Un’immagine che non ha in sé una continuità di sviluppo narrativo. In fondo questi racconti sono brevi, sono immagini. Un’immagine può essere di memoria, o di un sogno. Per esempio, nel racconto Torquato Tasso compare un personaggio chiamato Giovanni ed è sicuramente il racconto di un sogno. Parla dell’apparizione di un fantasma e io so perfettamente a chi corrisponde il nome Giovanni. Non so quando l’ho scritto, se la mattina dopo o la settimana dopo, chissà, ma è un sogno che mi colpì molto ed è diventato un racconto, la trascrizione di una visione. E in particolare la trascrizione della visione di un fantasma.

I romanzi non partono da un’immagine?

No. I romanzi partono da un’esperienza, direi. O meglio, da un cumulo di esperienze, di cui si scrive proprio per snodarle tra loro, per sciogliere il groviglio che hanno formato. Credo che tutti i miei romanzi siano nati in questo modo. Certo, c’è sicuramente un’esperienza centrale. Faccio un esempio: La marea umana è stato determinato dall’aver rivisto un compagno di scuola di cui fui molto amico e che non vedevo da trent’anni. Particolarmente importante è l’averlo rivisto per l’annuncio della morte di una compagna di scuola di entrambi. Come nel racconto della visione del fantasma c’è la morte, lì però è una persona morta che risorge in sogno. Certamente la morte delle persone, o il timore, è uno degli elementi più perturbanti e che quindi può affacciarsi con maggior frequenza. Ed essere di conseguenza causa di scrittura.

Una domanda più banale. C’è un testo che un lettore che conosce bene i tuoi romanzi non può leggere come gli altri, ed è Corviale. Quel racconto, che ti fu commissionato da Giulio Einaudi, è poi cresciuto fino a diventare quel tuo romanzo che chiude il secolo scorso, Un inchino a terra. Tu sei soprattutto autore di romanzi, e questo testo è un chiaro punto di contatto tra il te narratore romanzesco e il te scrittore di prose brevi. Come sei riuscito a trasformare una materia breve in materia romanzesca? 

È stato un caso unico. Il punto non è come sono riuscito ma come è accaduto, perché per me la questione del racconto era chiusa lì. Corviale è stato scritto mentre le cose accadevano e continuavano ad accadere (e sto parlando di Mani Pulite), e anche qui c’è un elemento centrale. Questo elemento non ha a che fare con i politici, ma con Sergio Cusani, la persona che finì col pagare di più, a parte i suicidi. Cusani mi colpì per il modo in cui si era comportato durante il processo: la calma, la freddezza, la lucidità, la ricchezza di argomentazioni. Tanto che volli conoscerlo, cosa che non mi era mai successa, e non è più successa dopo. Ci incontrammo una volta a Roma, un giorno in cui doveva tornare a Milano. Lui stette in prigione per un po’ di tempo, poi uscì e rientrò per scontare del tutto la pena, e in quell’intervallo era a Roma e viveva come era sempre vissuto. Aveva l’autista per dire. Di fatto ci siamo incontrati in macchina. Mi diede appuntamento a Fontanella Borghese e mi disse di accompagnarlo a Fiumicino, poi l’autista mi avrebbe riportato indietro. Il nostro colloquio quindi andò avanti tra Fontanella Borghese e Fiumicino. Questo te lo racconto per dire delle ripercussioni del personaggio dentro di me. Potrei parlare di identificazione con il protagonista di Un inchino a terra; poi di fatto non è così, perché Cusani nella fattispecie non ha fatto quello che fa il protagonista del romanzo. Ma poi chi lo sa in fondo? Potrebbe anche averlo fatto a modo suo. Comunque quello che mi interessava era il possibile percorso interiore di questo protagonista che si accolla tutte le responsabilità che in realtà, ora è molto chiaro, erano comuni a tanti. Craxi diceva comuni a tutti. Cusani è uno di quelli che si è preso più responsabilità e che in termini di condanna ha scontato di più. Mi aveva colpito questo percorso di lealtà nei confronti delle persone con cui lavorava, di cui non fece mai i nomi, e di assunzione di responsabilità, e quindi di pena. Ma questo è appunto un percorso, non un’immagine. Mi interessava dare vita a questo percorso. Cosa totalmente laica, sia chiaro. È sicuramente un percorso di redenzione, ma in termini puramente laici. Nel racconto già c’era, ma nel romanzo è stato elaborato e dettagliato, e poi soprattutto è stato mostrato di più l’ambiente che lo circondava. Quello che mi interessava, trasformando il racconto in romanzo, era probabilmente descrivere il mondo che era intorno a lui e del quale si era assunto le colpe.

Una figura cristologica in un certo senso.

Appunto. Certamente era un percorso cristologico, ma, per questo l’ho specificato, mi interessava che fosse inteso in termini laici. Perché Corviale? Corviale è un simbolo, come la croce. È dove vivono quelli che pagavano, o pagano, giorno per giorno i comportamenti delle classi dirigenti. I comportamenti dell’oligarchia in cui vivono i Paesi che noi chiamiamo democratici. 

Nella dedica ad Arsène Houssaye nello Spleen di Parigi, Baudelaire dice che in quel libro tutto è capo e coda, si può tagliare dove si vuole, e i pezzi e il libro esisteranno comunque. Direi che Tao 48 è simile, nella sua insistente geografia romana: si può entrare in questo libro da dove si vuole, eppure ogni singolo pezzo, come ogni singolo quartiere romano, ha un suo senso e può esistere separatamente, anche se acquista un senso maggiore, ovviamente, nel contesto del libro (e della città, nel caso dei quartieri).

Faccio una controdomanda. Non è così per tutti i libri di racconti?

Secondo me no. Certo, tutti i libri di racconti hanno una loro omogeneità. Ma nel tuo libro, rispetto a una più classica raccolta, c’è un minimo comune multiplo, nello spazio soprattutto, troppo forte, che dà qualcosa in più. Se io dicessi che questi pezzi sono capitoli di uno strano romanzo non mi sentirei in errore. Ma ho preferito il parallelo con lo Spleen di Parigi e con quella dedica di Baudelaire: rispetto ad altri libri di racconti, che hanno sì una loro omogeneità, nel tuo c’è questa dimensione di frammento che si spezza e si ricongiunge nel minimo comune multiplo.

Io ho scritto la Nota finale per dire che non li chiamo racconti. Sono frammenti di un mosaico, e la ragione per cui tu puoi guardare con attenzione una parte del mosaico è perché tanto l’intero non ci sarà mai. Ovviamente, questi frammenti rinviano a un insieme, a un intero. L’intero però si è dissolto. Roma è a sua volta un’iperimmagine, se vogliamo, di questa caduta in rovina. Rispetto a come l’ho vissuta da bambino per certi aspetti non è tanto diversa, ma in fondo è un’altra città. Quella di oggi è più ricca e strutturata, non è quella di ottanta o settanta anni fa, quella che ho visto dalla nascita fino ai dieci o quindici anni. Avevo un’immagine di Roma molto più compatta o intima. Forse la conoscevo meno, ma poi neanche tanto visto che ho avuto genitori che non mi hanno affatto tenuto dentro casa. Mio padre è stato un instancabile viaggiatore, e mia madre con lui. Ho avuto piccole grandi cose che mi hanno offerto il vantaggio di muovermi dall’area del quartiere in cui sono nato. Insomma, Roma l’ho vista da ragazzo e ho avuto l’impressione di un tutto unico. Poi magari è semplicemente la fantasia del ragazzo che percepirebbe così qualunque luogo. Ed è una trascrizione altrettanto fantastica quella che la vuole in rovina più di quanto già non fosse.

Nel racconto finale, dialogo con Flaiano, dici che “l’origine non è nell’altro, in chi viene da fuori, nel marziano. L’origine è in ciascuno di noi”. E più avanti: “L’irrevocabilità dei fatti, il tempo, è il principio stesso dell’alienità; è il tempo a renderci alieni a noi stessi”. A me sembra proprio che questo sia un libro sul tempo, considerando poi che i testi sono stati scritti in un arco di quarant’anni; eppure lo spazio in cui si concretizzano, Roma, sembra avere poco a che fare col tempo, anche se lo subisce. Lo spazio è quasi immutato e il tempo agisce soprattutto sui tuoi personaggi. In questa dialettica tra corpo immobile e corpo mobile vedo un dato importante del libro.

Guarda, proprio recentemente mi è stata riportata, su questo libro, un’espressione a cui non avevo pensato: “stile tardo”. Questo stile tardo è stato descritto come paradossale, perché da un lato sembra il libro più realistico, più aderente alla veridicità biografica, materiale, evenemenziale della mia vita; dall’altro è il libro che dà meno compiutezza, meno senso, meno definizione di ogni singolo momento di questa biografia. Accolgo l’idea del paradosso, perché una cosa di cui sono altrettanto certo, anche se credo di averla messa a fuoco soltanto adesso (poi sai, si scrive anche per capire), è che al di là delle singole circostanze per cui posso aver scritto, ad esempio, un libro sul rapimento Moro in forma allegorica perché ero divorato dal rapimento Moro, o su Berlusconi perché ero divorato dal personaggio Berlusconi, o su Cusani perché ero divorato da lui, al di là di tutto questo la cosa di cui oggi sono certo è che io davvero non ho idee. Non ho nessun pensiero. Potresti chiedermi che cosa penso della vita. Bene, non penso niente e non voglio pensare niente. Non ho nessun interesse a pensare qualche cosa. Tanto che, alla fine, posso dire che di quanto è stato detto su questo libro, la cosa che sicuramente mi ha fatto più piacere è stata l’osservazione che dominante è la musica. In realtà ciò che io fin da ragazzo, senza saperlo, ho cercato non è il senso, il significato, quello che si può ricavare dai singoli episodi o dall’insieme dei singoli episodi. Io non ho una visione della vita. Quello che io cercavo era la musica. Se è vero ciò che è stato scritto, che è un libro profondamente musicale, questo è ciò che ho voluto fin dal principio: arrivare a scrivere musica. Del resto tu hai citato Baudelaire e lui ha scritto musica. Vero che aveva una visione della vita riconoscibile, pur nella sua complessità. Io non sento di avere questo viluppo, per quanto più piccolo, analogo a quello di Baudelaire o di chiunque dei grandi. Però l’aspirazione, non pervenuta alla coscienza, a produrre musica sì.

Ma la musica perché meno soggetta al peso del significato?

Se tu ascolti Chopin o Ligeti, per dire due mondi lontani nella musica e nel tempo, puoi dire quello che vuoi, ma che significato dai? Ognuno può sostenere quello che vuole, ma non hanno significato. Poi possiamo dire che una musica è più o meno drammatica, più o meno lieve, o idilliaca, certo, questo è possibile, ma è possibile anche per qualsiasi frammento di questo libro. Torquato Tasso è certamente più tenebroso; mentre in quelli dove è citato Moro ci sono momenti espressionistici o surreali. Però ci sono anche momenti che direi elegiaci, come il finale del racconto Cessati spiriti. Così come Purificazione è un altro modo, se vogliamo estremo, di arrivare a un’idea di purificazione. Un’idea analoga a quella del finale di Un inchino a terra o di Corviale, dove c’è il senso del rapporto tra un individuo e la comunità, ma diversa perché stavolta si tratta del rapporto tra un singolo e un singolo (nella fattispecie un uomo e una donna). Arrivare, attraverso la scrittura di un episodio o di un momento, a qualcosa che chi scrive vive come purificazione, anche se apparentemente sembra l’opposto.

Il discorso sulla musica e sul significato fa venire in mente uno scrittore da te lontanissimo come Giorgio Manganelli. Specie il Manganelli delle conversazioni con Paolo Terni che si trovano in Una profonda invidia per la musica, dove appunto dichiara, come da titolo del libro, di provare invidia per la musica perché libera “dall’onta” del significato.

Sì, ma ogni musica è diversa dall’altra. A me Manganelli non piace particolarmente, pur riconoscendone tutta la peculiarità, ciò che lo distingue dalla maggior parte degli scrittori suoi contemporanei. Lui produce musica, certo. Ma ci sono anche dei grandi musicisti che non mi piacciono.

E sempre parlando di significato, si può pensare aanche a Tommaso Landolfi, che ti è più vicino. In una poesia di Viola di morte, È vana la parola e non ci assiste, dice: “La parola significa. E ben questa / è la sua morte”.

Non mi ricordavo di questa poesia, ma è così. Il problema è sfuggire quanto il più possibile da questa condanna. E infatti chiamo Purificazione un “racconto”, tra virgolette, che a tutto fa pensare tranne che alla purificazione. Tolgo alla parola il suo significato corrente e forse gliene attribuisco un altro. Oppure tolgo all’atto la sua ovvietà di senso e gli attribuisco un altro senso.

È una sfida quasi impossibile per la letteratura, che poggia su qualcosa che, in teoria, porta significato. Detto ciò anche io, in un certo senso, penso che la letteratura sia musica.

Beh se è vero che è accaduto, il tendere alla musica dico, io lo riconosco come un desiderio originario che non mi era completamente ignoto ma non era nemmeno pervenuto alla coscienza. Noto, ma nel fondo. Anche qui, se vuoi, c’è una contraddizione. Non mi sono mai detto che voglio scrivere musica. Posso però addurre una prova. Io ho scritto molti racconti prima di scrivere Procida. Scrissi anche un romanzo breve che andò perduto, finì in mare. Ho scritto comunque diversi racconti tra i venti e i ventisette anni, che ho anche sottoposto, in modo sfacciato, alla lettura di persone di altissimo livello, tra cui Niccolò Gallo e Ugo Leonzio, che leggeva per Einaudi e mi mosse delle obiezioni giuste. Io neanche mi rendevo conto di quanto fossi spudorato a portare i miei racconti a Niccolò Gallo, che fu peraltro estremamente cortese. Un racconto, l’ultimo di quelli scritti in questa fase, diede inizio a una pausa terminata quando cominciai a scrivere Procida. Mi dissi di ricominciare da capo perché sentivo di essere alla fine di un percorso, di quella che chiamiamo la modernità. Qual era la spiacevole peculiarità di quei racconti? Di essere lirici. E c’è una prova, di cui si sono impossessati Andrea Cortellessa e Luca Archibugi quando hanno pubblicato Il Cordelli immaginario (2003), intitolata Hölderlin tra giardini. Hölderlin qui vale Baudelaire, se vuoi. In quel racconto c’è il presupposto di muoversi in un mondo altamente musicale. È un elemento evidente, è perfino tematico. Poi mi sono dimenticato di questo aspetto musicale, e adesso l’ho ritrovato.

Tu dici “è perfino tematico”. Ma quindi c’è un aspetto di senso?

Non di senso, di consapevolezza.

Perché il significato di un testo non coincide necessariamente col suo tema.

No. I temi sono occasionali e te li offre la vita. Qual è invece il significato? È la lotta contro il senso, è il rifiuto del giudizio. Magari questa formula è troppo forte, perché poi elementi di giudizio nei miei libri ci sono, come nel Duca di Mantova o, diversamente, nella Marea umana. Non è che ci sia un rifiuto del senso così radicale. Però stiamo parlando di eventi occasionali di un’esperienza, quelli degli anni in cui sono vissuto. E dal punto di vista tematico, appunto, può anche darsi il giudizio, ma se parliamo di significato, inteso come significato della vita, allora no. Non ne vedo la possibilità.

Hai ricordato Hölderlin tra giardini, dove già c’era questo aspetto musicale…

C’era più nella forma che nella sostanza.

E adesso è ritornato. È curioso come tu abbia chiuso un cerchio in questo senso.

Io sento di aver chiuso il cerchio.

Sì ma, scusami se schematizzo, è curioso che si tratti di un cerchio iniziato con un racconto e chiuso con un libro di racconti, o comunque di narrativa breve, ma con in mezzo una vita da romanziere.

È che ho subito l’influenza del mio tempo. Nel senso che il mio tempo, con la pretesa, e la necessità, di uccidere il romanzo lo ha infine divinizzato. Io ho ubbidito. Sono stato uno schiavo del mio tempo. Mi sono intriso del mio tempo.

Credo ci sia anche qualcosa di più che possa spiegare la tua vita di romanziere, oltre a l’esserti intriso del tuo tempo.

Mi è piaciuto scrivere questi romanzi. Qualcuno mi ha fatto anche soffrire, in particolare Pinkerton, nel senso di non riuscire a venirne a capo. Però considero sicuramente una fortuna, per me, averli scritti. Ricordo un colloquio, da ragazzo, tra me e un compagno di scuola, nel 1965 (citammo La macchina mondiale di Paolo Volponi), quando io dissi che mi sarebbe piaciuto scrivere un romanzo come quello ma che non ci sarei riuscito. E invece ce l’ho fatta. La sensazione di esserci riuscito l’ho avuta quando ho scritto Procida. Dopo, ogni libro è stato in un certo senso un miracolo ma anche il frutto di un apprendimento, di un’educazione, di una passione. Ma mai di una volontà. Da ragazzo avevo l’aspirazione, il sogno di scrivere romanzi, ma per nessuno dei miei libri ho mai avuto la volontà di scrivere romanzi. Sono venuti. Evidentemente era troppo forte l’immagine originaria, quella che ho descritto prima, l’irruzione di alcuni personaggi. Io poi continuo a citare i libri da Pinkerton in avanti, non cito quasi mai i primi tre (Procida, Le forze in campo e I puri spiriti) perché nonostante siano anch’essi, per così dire, nati casualmente, nessuno di essi nasce dall’irruzione così potente di un fatto nella mia vita, come quelle immagini che hanno determinato gli altri. Considero quei primi tre libri scritti troppo su di me. In tutti uso la prima persona, c’è il narratore al centro, mentre al centro reale degli altri c’è il mondo. Nei primi tre non c’è il mondo; c’è il piccolo mondo, se vogliamo fantastico, legato alla mia persona tra i ventisette e i trentaquattro anni.

Tornerei a un discorso fatto in precedenza: i fantasmi. I fantasmi fanno pensare all’assenza, a qualcosa che non c’è. A p. 134 di Tao 48, testo Gramsci, dici: “Del resto, che cos’è per me l’amore se non pura resistenza? Non è mai abbandono, non è mai proposito. Estasi o inseguimento, il significato è lo stesso, di trincea, di militanza. Costanza inorridisce, quando le ripeto questa storia del soldato; pensa che io mi idealizzi”. Prendo questo pezzo come esempio: c’è un senso di lotta nei tuoi libri, di posizioni belligeranti, di immagine battagliera dell’esistenza e dei rapporti umani. Eppure, questa posizione da “soldato” si scontra con un (secondo me) malinconico senso di perdita, di sfarinamento, di scomparsa della visione e infine di assenza.

Prima dicevo di aver scritto senza volontà, senza proposito appunto, ma c’è resistenza. Nel momento in cui comincio voglio arrivare alla fine, c’è desiderio di andare fino in fondo per scoprire la fine. Questa è la resistenza: andare fino in fondo. Peraltro l’ultima frase dei Puri spiriti è “Lui si considerava un soldato”. Lì finisce una fase e comincia quella più dell’abbandono, del nessun proposito. Ammesso che ci fosse una parte di volontà ancora adolescenziale, o giovanile comunque, nell’aver scritto i primi tre romanzi, poi in quelli successivi non c’è stata più. Ormai avevo preso confidenza con me stesso. Se un libro cominciava doveva andare avanti. La storia di Pinkerton è esemplare. La prima versione di Pinkerton è del 1978, a ridosso del rapimento Moro. È il primo libro dopo I puri spiriti, ancora sperimentale, ma psicologicamente nato in modo diverso, più potente. Volevo scrivere un romanzo in forma puramente dialogica. La scommessa sperimentale era questa. Scrissi tre versioni di questo libro, in forma dialogica. Alla terza capii che era un fallimento. Per i precedenti libri non mi era successo. L’ho preso e l’ho buttato, pensando che stavolta non fosse venuto. Nel 1982 mi è tornato in mente, e ho pensato di fare in un altro modo: tenere una traccia delle rovine precedenti e iniziare ogni capitolo con un breve dialogo, un botta e risposta, con il resto del capitolo come commento di questo dialogo. E di questa forma, completamente diversa dalle tre precedenti, esistono quattro versioni. Tanto che il libro alla fine uscì nel 1986. Ci ha messo otto anni per venire alla luce.

Scusami se insisto sul discorso dell’assenza e dell’apparenza, ma si ha spesso l’impressione di qualcosa che si sfaldi tra le mani dei tuoi personaggi. Anche la memoria entra in questo gioco di fantasmi, di scomparse. C’è un brano, in Forlanini, a p. 66, che è piuttosto emblematico (“Ripensò a quel bacio migliaia di volte e adesso non ne ricordava nulla. Era incredibile l’energia spesa per compiere quell’atto e per trattenerlo e l’improvvisa facilità con cui, dopo aver perduto l’allenamento, lo aveva cancellato, dissolto nel tempo e nel nulla, che è la stessa cosa. Era stato uno degli atti decisivi della sua vita, il primo bacio, e adesso non ricordavano neppure se era accaduto”).

Leggendo questo pezzo che dici, so che si tratta di qualcosa che è accaduto, ho anche una vaga immagine della persona, però è come se non fosse accaduto. Sai qual è la cosa strana? Per uno come me, che ha avuto diverse relazioni, io mi ricordo poco. Però c’è un caso particolare in cui provo nostalgia, che è un sentimento, è qualcosa. Quindi non è che ci sia proprio il nulla. Da una parte c’è il nulla, dall’altra c’è qualche cosa, c’è una traccia. C’è un sentimento. Il problema è trasformare questo sentimento in una parola e questa parola trasformarla in musica. Trasmettere all’altro la musica del mio sentimento.

Massimo Castiglioni

massimo1812@gmail.com