Luglio / Agosto 2017 – In questo numero

Di tutte le cose visibili e invisibili

Il libro del mese messo al centro dell’interesse di più recensori sull’ “Indice” di luglio è il Meridiano delle opere di Lorenzo Milani, appena pubblicato da Mondadori. Aprire i due volumi di Tutte le opere  significa non solo ritrovare gli accenti della  rivoluzione culturale e pedagogica operata da Don Milani, ma anche potersi stupire di fronte alla forma di uno stile originale e alto, raggiunto attraverso un progressivo asciugamento del testo. Del resto sosteneva lo stesso don Milani: “Tutti sanno scrivere così purché lo vogliano. È solo un problema di non pigrizia (…). Così la classe operaia saprà scrivere meglio di quella borghese. È per questo che io ho speso la mia vita”. Spiega Vincenzo Viola: “Mettere in comune la parola è infatti il punto più alto dell’agire sociale, ciò che dà valore a ogni azione, a ogni comportamento, perché la conquista dello strumento della parola, sottratto da sempre al mondo contadino a vantaggio dei signori, è il fondamento della formazione impartita dal priore di Barbiana e la padronanza della parola da parte dei suoi ragazzi espulsi dalla scuola è il segno del riscatto della storia, è l’attuazione della rivelazione del Verbo. Solo nella conquista della parola da parte degli esclusi può esserci la salvezza dell’umanità, altrimenti destinata ad affogare in un mare di sangue”. Nel suo intervento Carlo Barone cerca di comprendere che cosa è cambiato nella scuola italiana dai tempi di don Milani, mettendo il dito nella piaga di un perdurante determinismo sociale che pesa sulla formazione degli studenti. Infine Gino Candreva intervista Vanessa Roghi, regista di un documentario prodotto quest’anno dalla Rai con il titolo Don Milani: il dovere di non obbedire.

Dalle molteplici sollecitazioni sollevate dall’ultima edizione del Salone del libro di Torino discendono poi pagine dense di questo numero della rivista: in un’intervista a cura di Giorgio Morbello e Maurizio Pagliassotti, Paco Ignacio Taibo II illustra (con scoppiettante ironia) le sue idee sulla vita, la politica e la letteratura;  Amitav Gosh cerca invece  di districare, in dialogo con Daniela Fargione, il complesso rapporto fra letteratura, cambiamento climatico e diritto ambientale: “Molti ricercatori hanno dimostrato che dopo una catastrofe naturale si tende a rispondere in maniera molto negativa al cambiamento climatico. Un esempio è dato da una ricerca sull’uragano Sandy che ha devastato aree piuttosto estese della città di New York e del New Jersey; quando i ricercatori hanno intervistato le vittime, le reazioni sono state per lo più di rabbia perché non volevano che le loro sofferenze diventassero oggetto di politicizzazione. In questo caso, però, non si può parlare tanto di invisibilità quanto di repressione, un concetto che dipende dal nostro modo di intendere l’umano. Curiosamente, è lo stesso fenomeno che ritroviamo al centro della crisi migratoria. Sappiamo che la definizione europea di ‘profugo’ si riferisce esclusivamente a un essere umano che fugge da altri esseri umani; chi è costretto a mettersi in viaggio per salvarsi dai disastri naturali è, in un certo senso, meno ‘nobile’. Ma hanno meno dignità le popolazioni che fuggono dall’oppressione della terra in cui vivono? Dalla fame nel deserto, per esempio in Somalia? La questione dell’invisibilità dipende allora dal modo in cui concepiamo l’umano”. Temi ripresi anche nella recensione che Carmen Concilio dedica al libro di Gosh La grande cecità appena pubblicato da Neri Pozza, in cui l’autore “indica come una ‘ecologia integrale’ non possa dissociare i cambiamenti climatici dalla giustizia sociale per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”. Quell’invisibilità stigmatizzata da Gosh come uno dei problemi principali per la consapevolezza dei cambiamenti climatici (non li vediamo, non li percepiamo nel momento esatto in cui avvengono, bensì solo a posteriori e nella loro esplosione solitamente violenta) diventa invece un valore riconosciuto dal grande scrittore Cees Nooteboom quando parla del suo rapporto con la realtà e la sua descrizione nell’intervista raccolta per “L’Indice” da Matteo Fontanone: “Quando mi occupo di viaggi, da un certo punto di vista è bene che io sia invisibile: se mi concentro troppo su ciò che succede dentro di me non riesco a cogliere quanto c’è fuori, se le persone iniziano a comportarsi diversamente non posso osservarle come vorrei, perdo dei significati. È un discorso valido anche sul piano della pratica: se dai troppo nell’occhio allora le persone si inizieranno ad accorgere di te e non saranno più naturali, ti guarderanno, ti chiederanno qualcosa. L’invisibilità è necessaria a conservare un punto d’osservazione privilegiato. Per la poesia invece è diverso e parlare di invisibilità diventa difficile, la mia poesia parla dell’io ed è lì per essere letta; semmai dipende tutto dal lettore e da quanto è in grado di trarre da un componimento”. Il filo rosso del numero corre dunque sulla distinzione sottile fra visibile e invisibile: sono invisibili i ragazzi poveri di Barbiana ma anche i profughi nominati da Gosh o i migranti di cui parla Ylljet Aliçka (nel suo libro Il sogno italiano recensito da Mario Bova), mentre “fuggono da un’Albania senza futuro, dove il regime si sfalda nella brutalità burocratica e repressiva del partito, nell’asfissia delle libertà, nella caduta devastante dell’economia”; ma è invisibile anche lo scrittore Nooteboom quando si mette nei panni dell’osservatore; ed è invisibile lo “stress idrico” che interessa molti paesi del mondo, fra cui la Corea del sud, l’India, il Pakistan, il Belgio, la Danimarca, la Germania e la Polonia, se poi la risposta farsesca di certe frange di attivisti è, come spiega Federico Paolini, “l’unwashed movement: una nuova tendenza ambientalista il cui obiettivo è quello di ridurre i consumi e l’inquinamento delle acque mediante un’igiene etica, ovvero uno stile di vita che limita le docce (o i bagni) e rifiuta l’impiego di prodotti chimici per la cura del corpo”. Occorre aprire gli occhi su ciò che è “invisibile” ma anche evitare di creare artificialmente dei simulacri di verità come quello messo su dall’ unwashed movement, dal momento che, come si sa, i consumi domestici rappresentano, storicamente, una modesta frazione del consumo totale. Oppure, come è lecito, bisogna optare verso un mondo di creature invisibili e inventate, ma con la consapevolezza che in questo modo si dà libero sfogo alla fantasia o, come spiega Lauro recensendo La leggenda privata di Michele Mari, si evocano “ inibizioni, nevrosi, feticci, fissazioni onomastiche e fantasmatiche”. Almeno, “se mostri viscidi, striscianti, mucogeni, gorgoglianti, lovecraftiani, dalle orbite vuote sono compagni” dello scrittore, quella di Mari è una scelta precisa, senza ambiguità: dare una voce a tutte le cose, visibili e invisibili.

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