Gli intellettuali e la torrida estate razzista


Dolore e menzogne galleggianti sul mare

Intervista a Edoardo Albinati e Sandro Veronesi di Matteo Fontanone

dal numero di febbraio 2019

L’intervista si è tenuta a margine del reading Buon appetito ai pesci, in scena al teatro Astra di Torino all’interno della programmazione di TPE, Teatro Piemonte Europa.

I vostri ultimi libri si discostano dalla forma romanzo cui eravamo abituati. Per intercettare il presente e interrogarlo a fondo servono altri tipi di scrittura?

Albinati: Per intervenire su una questione di pura attualità il romanzo non è adatto, ci sono altri tempi di scrittura e di lettura. Io poi non ho mai scritto romanzi sull’attualità, il romanzo per sua natura si presta a descrivere dei mondi passati o futuri, credo che molto difficilmente possa parlare del presente, ci vuole una forma più agile. È un momento della mia vita pubblica, questo, in cui avevo bisogno di una misura diversa.

Veronesi: Credo sia una questione di tonnellaggio e di dislocamento adatti per affrontare delle contingenze o, come in questo nostro caso, delle emergenze. In poche settimane c’è stata una degenerazione nello smantellamento di tutto un apparato di diritti che sembravano solidi, quelli del soccorso in mare di cui i nostri due libri parlano. Non si può manovrare un transatlantico come il romanzo, ma dei generi più maneggevoli, dei cacciatorpedinieri veloci, che vadano al sodo. Il romanzo non va al sodo, non può farlo subito, se lo fa significa che è finito. Anzi, il romanzo non è proprio il genere giusto per fare letteratura politica: chi ci ha provato – Huxley – magari ha fatto effetto, ma con brutte opere, votate a uno scopo civile o politico. Di pamphlet come i nostri oggi ce n’è bisogno, ce ne vogliono tanti, allo scrittore serve un mezzo maneggevole per affrontare un problema alla volta.

Tra i tanti allacci che legano i vostri testi c’è il dolore per quello che succede in mare ed è successo nei nostri porti, quest’estate. Come si lavora su questa condizione?

Albinati: è importante sottolineare il set in cui si svolgono le storie drammatiche di cui parliamo, il mare. Non è una novità, perché il tema della migrazione che interessa l’Italia è quasi tutto marittimo; la novità, in questi ultimi mesi, è la posizione che il nostro paese ha assunto nel merito, dimenticando l’elemento fondamentale dove la migrazione si svolge, il mare. È la conferma del grande paradosso della storia italiana, essere il paese con più coste d’Europa ma averle sempre ignorate. L’equivoco che si crea è culturale, e riguarda coloro che attraversano il mare e la cui vita è messa a repentaglio dal naufragio, non si riesce a distinguerli da chi fa qualsiasi altro viaggio pericoloso. La specificità di chi si trova su quelle barche sta nella loro condizione di naufraghi: si parla di migranti, di profughi, di terroristi, di africani o di clandestini, ma quasi mai li si definisce con il termine più appropriato, quello tecnico-marinaresco, naufraghi. Una caratteristica molto forte che unisce il mio pensiero a quello di Sandro è proprio l’attenzione all’unicità del salvataggio in mare, che ha regole antichissime, al di là del diritto moderno. In mare non si discute e non c’è politica, la priorità di ogni intervento è il soccorso. Non è un caso che le reazioni a quanto sta accadendo in questi mesi siano arrivate da uomini di mare, da chi sa cosa significa trovarsi in difficoltà in acqua. Il mare è il set nascosto del tema della migrazione in Italia.

Veronesi: Per chi non soccorre il naufrago, chiunque esso sia, c’è una maledizione. Il naufrago è sacro, si è raccomandato ai suoi dei, se tu non presti soccorso automaticamente  li offendi e meriti la loro ira. Quando l’hai tratto in salvo poi potrai anche fare valutazioni ulteriori, ma in primo luogo lo devi portare al sicuro. Il mare è un set in cui non si è liberi: le galere sono navi – e le navi sono galere. Anche nei tempi moderni, la navigazione nelle acque internazionali è un’esistenza senza diritti: abbiamo saputo, ad esempio, di navi negriere in cui le catene d’abbigliamento fanno lavorare senza regole i loro operai. Possono, perché sono fuori dalle acque territoriali. In mare sei alla mercé di chi detiene il comando, tecnicamente quegli operai non venivano nemmeno sfruttati, perché lì dov’erano non esisteva nemmeno il diritto del lavoro. I fatti della scorsa estate hanno avuto una presa immediata proprio per la violazione di un patto che sembrava sacro: molti scrittori si sono già mossi. Sul momento, certo, si cerca di agire, di fare qualcosa, ma poi ognuno deve contribuire a partire dalla sua inclinazione sul mondo, quindi scrivendo, per testimoniare che l’implosione di quest’estate non è accettabile.

Che si viva in tempi di post-verità ce lo stanno urlando addosso da ogni direzione. Forse però, giunti fino a questo punto, sarebbe il caso di iniziare ad attestare alcune verità che non si possono sindacare, invece che ostinarci nella continua relativizzazione di qualsiasi cosa.

Albinati: Non credo che sia un dovere dire la verità, ma smascherare la menzogna. È un compito illuministico minimo e lo può fare chiunque, non serve l’intellettuale: basta il bambino che indichi il re nudo. Non so se siamo in un regime di post-verità, ma certamente bisogna centrare e bersagliare con forza le menzogne.

Veronesi: Fino a dieci anni fa, quando Berlusconi impegnava buona parte degli intellettuali, c’erano delle tempistiche di azione e reazione ben definite. Adesso firmare un appello non basta più, viviamo immersi in un apparato proto-fascista, che lavora a getto continuo: per smentire delle false verità devi essere attivo a getto continuo pure tu, non puoi limitarti alla semplice creazione di un prodotto artistico come succedeva prima. Antonioni faceva i film, non stava appresso alla politica giorno per giorno. Quella di oggi è una specie di lotta nel fango: che tu vinca o meno, alla fine sempre sporco di fango sei. Se non vuoi sporcarti di fango, allora non puoi entrare in questi discorsi; se non lo fai, però, lasci campo aperto agli avversari. È un modo astuto ma arcaico, il loro: io ti tormento tutto il giorno, se vuoi difenderti sei obbligato a starmi dietro tutto il giorno. Smascherarli diventa un’attività quasi a tempo pieno. Per me scrivere questo libro ha comportato mesi di assoluta dedizione, di monitoraggio: ogni giorno esce qualcosa di nuovo, non ci si può dedicare per troppo tempo allo stesso argomento. È un impegno talmente costante che alle volte rischia di scoraggiare, ma è anche un attivismo collettivo necessario; poi, ovvio, speriamo di poter tornare a un tempo di maggiore quiete, anche per gli intellettuali.

La menzogna sembra il nucleo fondamentale intorno cui riflettere. Si tratta anche, soprattutto nel vostro caso, di combattere contro la mortificazione del linguaggio, la sua falsificazione reiterata e programmatica, il suo svuotamento di senso.

Albinati: Non sono sicuro che ci sia un modo giusto di reagire alla provocazione violenta, anche del linguaggio. Allo slogan bisogna opporre il ragionamento, anche quando si è particolarmente esasperati. La differenza tra il discorso e lo slogan è che il primo tenta di articolare, di approfondire, di spiegare, non si accontenta di dire “i porti non li vedrete mai più, neanche in cartolina”: quello è lo slogan, su cui io, in quanto scrittore, posso fare dell’ironia. Posso spiegare come sia allo stesso tempo rapido e pericoloso, perché il consenso che si poggia sullo slogan è labile, può essere perduto facilmente. La storia degli ultimi trent’anni d’Italia lo dimostra, il successo dei primi tempi viene sempre vanificato, vale per tutti. In un momento in cui c’è tanto sprezzo per l’attività intellettuale, va rivendicata la nostra capacità di elaborazione. I fenomeni migratori non sono una materia da slogan: sono argomenti che non si risolvono in una battuta, ma hanno bisogno di un ragionamento complesso. In un paese difficilmente governabile come il nostro, ci si accorge sempre che gli slogan sono tutti falsi. Il compito dello scrittore potrebbe essere quello di distruggere delle fedi fasulle.

Veronesi: Credo che sia importante restare il più possibile fedeli alla scelta che si è fatta. L’intellettuale rischia meno di altri di perdere il posto di lavoro, perché non ce l’ha, non è vittima della contingenza quando la barca si rovescia perché molto spesso su quella barca nemmeno c’è. D’altra parte ha il dovere di essere sempre a vista di tutte queste cose, di sopportare le pressioni che subisce come cittadino e consumatore, mantenendo questa capacità di elaborazione veloce. Non esiste più nemmeno l’impronta classica d’impegno civile a un romanzo, la classicità oggi varia e viene interpretata con misure, voci e trasgressioni diverse. Lo slogan abbassa il livello linguistico e comunicativo. Vado dritto? Dove? Non importa, basta andare. Lo slogan non sa quale sia la sua direzione effettiva, allo slogan basta non ascoltare l’altro. Ecco, di fronte alla cecità l’impegno dell’intellettuale è di mantenere alto il livello che gli altri abbassano, di scrivere tutti i giorni come se scrivesse il suo romanzo, con le proprie parole anche nel contraddittorio, senza scadere nel registro linguistico di chi la menzogna l’ha costruita. Non bisogna oscillare, ma mantenere la lezione dei padri e darsi la possibilità di figli e nipoti: l’intellighenzia è una corda tesa che attraversa il mondo, un impegno quotidiano applicato sia nel contesto civile che davanti alla pagina. È un dato che alla lunga verrà fuori: la nostra controparte politica non possiede la nostra tensione morale.

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