Lilian Thuram – Per l’uguaglianza

Le mucche nere non mangiano banane

recensione di Darwin Pastorin

Lilian Thuram
PER L’UGUAGLIANZA
Come cambiare i nostri immaginari
ed. orig. 2012. trad. dal francese di Sara Principe, pp. 221, € 16
add, Torino 2014

Per fortuna, esistono persone come Lilian Thuram, personaggi popolari (è stato un calciatore di fama, campione del mondo e d’Europa con la Francia, fuoriclasse difensivo del Monaco, del Parma, della Juventus e del Barcellona) che hanno deciso di dedicare la loro vita agli altri, agli invisibili, agli emarginati, ai senza voce e ai senza documenti, contro un male secolare: il razzismo. Nel 2008, Thuram ha creato la fondazione Education contre le racisme, è ambasciatore Unicef e nel 2013, dal presidente Hollande, ha ricevuto la Legion d’onore. Nei giorni duri della strage parigina di “Charlie Hebdo”, in Italia è uscito il suo ultimo libro (dopo il fortunato e splendido Le mie stelle nere, sempre pubblicato da add e sempre mirabilmente tradotto da Sara Prencipe): Per l’uguaglianza è un libro forte, che parla di libertà e tolleranza, di come bisognerebbe rispondere alla violenza con l’intelligenza e il cuore, di come non sono le religioni a essere pericolose, ma gli uomini che si arrogano il diritto di interpretarle a proprio uso e consumo.

La prima parte del volume è autobiografica, ricca di aneddoti e riflessioni; nella seconda, Thuram dà voce a tutte le persone eccellenti che ha incontrato sul suo cammino e che intervengono sul tema dell’uguaglianza, da Jean-Didier Vincent (Elogio del meticciato) a Tzvetan Todorov (Scegliere un mondo plurale), da Arsène Wenger (Un calcio senza frontiere) a Marie Rose Moro (Accogliere i bambini del mondo). Ci sono foto, ci sono cartine. Il leitmotiv è uno solo: far riflettere l’umanità sul vuoto dell’odio e del razzismo, sulla possibilità, non solo utopica, di costruire, finalmente, un mondo nuovo.

Thuram parte dalla sua esperienza personale. Nato in Guadalupa, penultimo di cinque figli nati da padri diversi. La figura dominante, in una società matriarcale, è quella della madre Mariane, di giorno impegnata a tagliare la canna da zucchero, di pomeriggio al lavoro come donna delle pulizie. Poi, la svolta. La mamma parte per la Francia, per Parigi. Potrebbero esserci nuove prospettive di vita e di lavoro (sempre come domestica) e dopo un anno ritorna a casa per riprendere i figli e tutti insieme si trasferiscono, definitivamente, nella capitale. Così, a nove anni, in Francia, Lilian diventa nero. Il colore della sua pelle comincia a creargli problemi, sguardi ostili, risatine, prese in giro. A scuola viene soprannominato “Noiraude”, come la mucca nera di un cartone animato. La mucca nera è stupida, la sua compagna bianca ovviamente intelligente. Ma per Thuram quello è l’inizio di un percorso che lo avrebbe portato a essere quello che oggi è diventato: un uomo, cioè, che lotta per un universo di uguali, dove il potere deve essere quello di ogni libertà e di ogni forma di rispetto. Scrive, volgendo lo sguardo alla sua infanzia: “Quando sono arrivato alla periferia di Parigi mi sono immerso in un incrocio di culture e di lingue, e in seguito, grazie alle squadre di calcio in cui ho giocato, mi sono impregnato delle culture provenzale, emiliana, piemontese e catalana” (lo ricordo a Torino: colto, elegante, sempre un buon libro sotto il braccio). A formarlo è la vita in periferia, nel quartiere Fougéres (quello malvisto dai borghesi), con gli algerini che gli offrono il pane arabo, con Paulin il compagno dello Zaire, Benito “l’amico per tutta la vita”, poi pakistani, portoghesi, italiani, vietnamiti e spagnoli. Si discute di calcio, ma anche di Mobutu e Lumumba, di quell’assurdità che qualcuno chiama la superiorità della razza. Sono anni di divertimento, di pallone, ma anche di presa di coscienza e di conoscenza. Thuram comincia a farsi delle domande, a interrogarsi, a voler sapere; tutto questo deve valere anche per una società che “se non si fa domande su se stessa non può sapere come funziona, capire su cosa è stata costruita, né far crollare i pregiudizi che in essa risiedono”.

E dove “ci porteranno i nostri immaginari?”, perché dobbiamo crearci sempre dei nemici, dove andremo con i nostri timori e le nostre angosce, la paura atavica e grottesca dell’uomo nero, del diverso, dell’altro? Dobbiamo informarci, studiare, approfondire: la schiavitù, il colonialismo, il capitalismo espansionista perché “il razzismo che permea la nostra società ha una storia. Non è una fatalità. Insegnare la storia del razzismo a scuola, o meglio la storia della lotta per l’uguaglianza, modificherebbe i comportamenti e le opinioni, ne sono sicuro”. L’ex asso sta disputando la sua partita più bella, più affascinante e anche più dura. Tanta destra imbevuta di “odio razziale” ha alzato la testa e punta sul clandestino “infame” per portare avanti una battaglia che non ha una stilla di umanità, che ci riporta indietro nel tempo, negli anni più bui. Thuram non è disposto a cedere posizioni, ad arretrare di un solo passo, proprio come faceva in campo: “Oggi la stigmatizzazione legata al colore della pelle veicola ancora quell’idea di inferiorità e genera esclusioni, emarginazioni, conflitti. Perché continuiamo a pensare che esistano culture superiori ad altre? Perché ci ostiniamo a chiudere l’altro in una delle componenti della sua identità, definendolo ‘nero’, ‘bianco’, ‘musulmano’, ‘ebreo’, ‘omosessuale’, ‘donna’? Per desiderio o volontà di dominarlo, di ridurlo a un’entità trascurabile, se non addirittura spregevole?”. E ancora, con più forza e indignazione: “Per aspirare all’uguaglianza è fondamentale che ogni generazione ripensi il proprio immaginario e lotti contro le ingiustizie. Ci sono uomini e donne che si sono battuti contro la schiavitù, l’asservimento, il colonialismo, il fascismo, il nazismo, l’apartheid, affinché le società occidentali avessero una visione diversa della donna e dei diritti. La giustizia è una conquista, non una concessione. Oggi tocca a noi riprendere in mano la fiaccola, per rendere la società più giusta”.

Anche il football, lo sport più popolare in molte nazioni, potrebbe diventare un luogo di speranza. Perché “il calcio crea incontri, scambi, solidarietà tra bambini e adulti appartenenti a contesti sociali diversi. Vi si mescolano in armonia religioni e nazionalità differenti”. Il percorso, qui, è davvero lungo e periglioso. Soprattutto in Italia. Nei nostri campionati, anche a livello giovanile, sul prato verde o sugli spalti, il razzismo trova casa, connivenze, anche ad alto livello. Bisogna fare di più. Certo, ha lasciato perplessi la nomina a presidente federale di Carlo Tavecchio, quello dell’infelice uscita razzista durante una conferenza-stampa: “Opti Pobà mangiava le banane ora gioca nella Lazio”. Bastava questo per non farlo eleggere. Invece, no. Eccolo a capo del movimento calcistico. Ma c’è pur sempre Lilian Thuram, con i suoi libri, le sue parole, il suo esempio. Il suo andare per le scuole e parlare, soprattutto ai bambini. Perché da loro comincia la vera, grande speranza. E l’impossibile potrebbe diventare possibile. Non bisogna abbassare la guardia. Mai. E interrogarci, sempre. Perché tutti insieme possiamo farcela. Io, ad esempio, ho un grande orgoglio: quello di essere figlio, nipote e pronipote di emigranti veneti andati a cercare lavoro e futuro in Brasile. E aver giocato da bimbo, per strada, con coetanei musulmani, ebrei, mulatti, polacchi e giapponesi. E aver capito, subito, che il razzismo è la cosa più stupida del mondo.

darwin.pastorin@quartarete.tv

D Pastorin è giornalista

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