Annette Hess – L’interprete

Annette Hess
L’INTERPRETE
pp. 320, € 18
trad. dal tedesco di Chiara Ujka,

Neri Pozza, Milano, 2019

di Tiziana Merani

L’interprete di Annette Hess, appena pubblicato da Neri Pozza nella versione tradotta da Chiara Ujka, è un libro notevole sotto molti punti di vista. Un libro che fa sospirare di sollievo il lettore che finalmente ha trovato ciò che stava aspettando, anche se ancora non lo sapeva.

Tradotto in venti paesi diversi, il romanzo si snoda negli anni del processo di Francoforte avviato nei confronti di ventidue imputati accusati di crimini commessi nel campo di concentramento di Auschwitz. Effettuato negli anni tra il 1963 e 1965, fu il primo processo per atrocità commesse dai nazisti a svolgersi di fronte ad una corte di giustizia tedesca. Alla fine vennero decretati sei ergastoli, dieci pene detentive e tre proscioglimenti, ma tra condoni e remissioni, la maggior parte degli accusati non scontò mai pienamente la pena inflitta.

Nel libro i fatti processuali vengono narrati da Eva Bruhns, la giovane interprete che ha il compito di tradurre in tedesco la deposizione dei testimoni polacchi durante le giornate in tribunale. Ma le angolazioni da cui si seguono le vicende sono molteplici: oltre che le pene della protagonista, seguiamo le accuse del pubblico ministero, la disapprovazione della famiglia di Eva, le parole dolorosissime dei testimoni sopravvissuti alle atrocità dell’olocausto. All’inizio del libro Eva è solo una giovane donna innamorata. La sua preoccupazione maggiore è quella che Stefan, il frigido fidanzato che sta per presentare alla famiglia, piaccia ai genitori e chieda la sua mano. Ma proprio durante il pranzo domenicale in cui l’uomo viene introdotto in casa di Eva, la ragazza viene convocata dall’agenzia in cui lavora per un incarico urgente. Il lavoro, al quale vorrebbero farla rinunciare sia il fidanzato che i genitori, è quello di interprete dal polacco al tedesco nel processo di Francoforte. Un’esperienza che cambierà per sempre la vita di Eva, interprete non solo nel senso legato alla professione, ma anche per ciò che scaturisce da quell’incarico.

Il libro apre il dibattito sugli obblighi individuali nei confronti dell’altro e analizza il labile confine delle responsabilità tra chi commette un delitto e chi resta a guardare senza opporsi. Mentre il Parlamento Europeo nei mesi scorsi ha approvato la richiesta di messa al bando delle organizzazioni neonaziste e neofasciste, in alcuni paesi alcune organizzazioni neofasciste godono di impunità: come in Italia, dove in diverse manifestazioni si vedono braccia tese e si odono cori inneggianti alla deportazione. Ma per Annette Hess il pericolo di un ritorno del nazismo o del fascismo in Germania, in Italia o in altri paesi d’Europa, è poco probabile. «Non credo sia possibile», dice. «Tuttavia, – aggiunge, – non bisogna mai abbassare la guardia».

Com’è stato accolto il suo libro in Germania?

Bene, molto bene. Ha venduto parecchie copie, entrando nelle classifiche delle vendite, e anche a livello personale ho avuto riscontri positivi da numerosi lettori della mia generazione.

Nel suo paese c’è ancora il silenzio che c’era in passato rispetto ai campi di concentramento? L’argomento è ancora tabù?

No, assolutamente. L’argomento ormai non è più tabù, bisogna pensare che le generazioni si sono alternate e c’è stato un processo di elaborazione, anche se è vero che i partiti di estrema destra, che nel nostro paese rappresentano circa il 18% dell’elettorato, stanno tentando di fermare questo processo. Ad esempio c’è chi vorrebbe togliere le sovvenzioni per gli eventi dedicati alla memoria o evitare che a scuola sia insegnato ciò che accadde nei campi.

Lei ha raccontato di un nonno che lavorava nella polizia tedesca ai tempi del nazismo. Ha fatto indagini anche su di lui? La sua famiglia l’ha sostenuta quando ha saputo che stava scrivendo questo libro?

Sapevo che mio nonno aveva lavorato in Polonia ai tempi delle deportazioni ma soltanto durante la stesura del libro ho capito cosa potesse implicare questo fatto. Allora ho iniziato a fare ricerche e anche se non ho ottenuto riscontri concreti, immagino che esista la possibilità che possa avere collaborato alle deportazioni, perché quello era il ruolo della polizia tedesca in quegli anni. Ne ho parlato molto con mio padre, che oggi ha 82 anni, e anche se lui ritiene impensabile che mio nonno abbia potuto rendersi colpevole di qualcosa, non mi ha frenata, anzi mi ha esortata a scrivere il libro.

Se lei avesse potuto decidere, che pena avrebbe inflitto ai responsabili degli orrori nei campi di sterminio?

Non esiste nessuna pena che possa essere adeguata per coloro che hanno mandato nei campi di concentramento milioni di persone. Dobbiamo anche considerare che il processo di Francoforte, oltre all’obiettivo di portare gli accusati davanti a una corte di giustizia, intendeva mostrare al popolo tedesco ciò che era accaduto nei lager, voleva far prendere consapevolezza dei crimini commessi dal nazismo. La cosa peggiore è che durante tutta la durata del processo nessuno degli imputati ha mai mostrato pentimento o ha avuto una parola di scuse per i loro crimini.

Il messaggio che passa dal suo libro è che chi sapeva e non prendeva posizione è enorme. Antonio Gramsci ha scritto: “Odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia”. E un sacerdote scomodo, Don Milani, chiedeva a cosa serve avere le mani pulite se si tengono in tasca. Oggi sappiamo tutto, abbiamo informazioni su tutte le cose indecenti che accadono nel mondo. Ma continuiamo a tenere le mani in tasca. Siamo tutti colpevoli?

La ringrazio per le citazioni. Non si sarebbe potuto esprimere il concetto con parole migliori. Il confine tra chi è responsabile e chi non lo è, spesso è labile. Ai tempi del nazismo, però, bisogna sottolineare che chi prendeva posizione rischiava la morte. Oggi le cose sono diverse ed è importante sapere cosa vogliamo fare. È un dovere muoversi, agire.

Stiamo tornando a mostrare la nostra capacità di essere disumani e lo facciamo con arroganza. Annegret è un po’ il simbolo dell’ipocrisia della nostra specie. Ci mostriamo buoni e nascondiamo anime nere?

Annegret è il simbolo della negazione. É più grande della sorella e quando viveva coi genitori in Polonia aveva nove anni, quindi i suoi ricordi sono sicuramente più chiari. Oltre a essere l’emblema della negazione, è anche la dimostrazione che reprimere, nascondere la verità, ha delle conseguenze psicologiche.

L’incertezza, la paura, la vulnerabilità umane sono alla base di ogni potere politico. Il gioco di molti uomini politici, oggi, è far sentire in pericolo gli elettori e promettere misure efficaci di protezione. Il senso di vulnerabilità permette agli stati di far passare qualunque legge, in nome della presunta sicurezza. Il tutto supportato da titoli xenofobi sui giornali e trasmissioni televisive che alimentano le fobie anti-immigrazione, anti-rom, anti-estranei.

Anche in Germania c’è la stessa situazione. Se un crimine viene commesso da un migrante, viene amplificato dai giornali. Noi, quindi, dobbiamo contrastare questa prassi raccontando esempi opposti, diffondendo gli esempi positivi. E anche se può essere faticoso, quando siamo davanti a posizioni che non condividiamo, dobbiamo avere il coraggio di fare sentire la nostra voce.

L’Interprete diventerà un film?

Se ne è parlato ma per il momento non vi è nulla di definito.

Come si è documentata per scrivere questo libro?

La principale fonte di documentazione sono le 400 ore di registrazione del processo che ho ascoltato.

A cosa sta lavorando adesso? Un nuovo libro sull’argomento?

No, non credo che scriverò altri libri sull’argomento. Tuttavia nel prossimo romanzo sarà presente la figura di mio nonno, quindi anche se il tema è diverso, in parte ci sarà un richiamo a quel periodo storico.