Antonio G. Bortoluzzi – Come si fanno le cose | Lavoro

Ma Tex Willer avrebbe fatto così?

di Claudio Panella

Antonio G. Bortoluzzi
COME SI FANNO LE COSE
pp. 218, € 16,
Marsilio, Venezia 2019

È trascorso oramai più di un decennio da quando Antonio G. Bortoluzzi, scrittore bellunese della conca d’Alpago di professione operaio manutentore, presentò la sua prima raccolta di racconti al Premio Calvino: nel 2008, Cronache dalla valle fu tra i finalisti del concorso torinese e si meritò una segnalazione della giuria, venendo poi pubblicato da Biblioteca dell’Immagine nel 2010; anno in cui l’autore arrivò nuovamente alla finale del Calvino con La contorsionista ride, definito da lui stesso un “romanzo per racconti” e rimasto in parte inedito. Sin da tali esordi, Bortoluzzi ha posto al centro della sua opera letteraria la propria terra natale, un Nord est ritratto come un Far West orientale d’Italia, e le trasformazioni radicali che ha subito tra il secondo dopoguerra, il boom e le ultime decadi del Novecento. La medesima ambientazione caratterizza anche i due suoi primi romanzi con differenti carotaggi temporali: Vita e morte della montagna (Biblioteca dell’Immagine, 2013) descrive l’abbandono del territorio dolomitico a vantaggio del fondovalle e di occupazioni messe in pericolo dalla recessione degli anni Duemila; Paesi alti (Biblioteca dell’Immagine, 2015) ha invece per protagonista un ragazzino tredicenne nel 1955.

Approdando infine a un editore di rilievo nazionale quale Marsilio, Bortoluzzi propone in Come si fanno le cose un compendio dei suoi temi favoriti in una cornice più attuale e a tratti picaresca. Collocando l’azione al giorno d’oggi, e riprendendo la raffigurazione di un Veneto quasi postindustriale del suo primo romanzo, Come si fanno le cose ha infatti per personaggi principali Valentino e Massimo, amici sin da ragazzi divenuti manutentori presso la Filati Dolomiti, azienda tessile dalla manodopera prevalentemente femminile che ha sede nella piana del Piave. I due sono cresciuti sui monti di Valdisasso (nome di fantasia che rinvia ad Alpago) e, poco meno che cinquantenni, hanno affrontato insieme i lunghi anni di crisi – i nostri – che tra mobilità e cassa integrazione hanno ridotto di molto la forza lavoro impiegata negli stabilimenti della provincia di Belluno. Per tirare avanti, si aggrappano a un miraggio che riscatti la “loro condizione di eterni subordinati”: fare il colpo della vita e cambiarla per sempre.

In un oscillare continuo tra memoria e presente, Bortoluzzi conferisce profondità storica e psicologica anche a questo suo testo dando voce allo sradicamento vissuto negli anni Settanta da intere generazioni di contadini e figli di contadini del Nord est, metalmezzadri divisi tra due mondi: Valentino (che ha in molti capitoli il ruolo di narratore) e Massimo sanno riparare ogni tipo di macchinario o montare un cilindro pneumatico per alzare un chiusino dal di dentro, sanno cioè “come si fanno le cose”; ma ricordano anche come si facevano le cose un tempo, come si pescavano i gamberi di torrente, come si svuotavano le latrine di campagna o come va condito col lardo il radìcio da pra. Sognano pertanto un possibile ritorno alla terra rilevando un agriturismo sito in località Monteparadiso: “l’ultima idea commerciale buona, quella del ritorno alla natura”, commenterà ironicamente Valentino quando il progetto inizia a sembrargli sempre meno plausibile per due come loro, che potrebbero mettere le mani sulla cifra necessaria ad acquistare l’agriturismo soltanto concependo un furto degno di una banda di scassinatori. Ci sono dunque, al contempo, molta fabbrica e molta montagna anche in questo romanzo di primo acchito operaio, che si apre con due epigrafi tratte da La vita agra di Bianciardi e da La chiave a stella di Primo Levi, iscrivendosi in una letteratura del lavoro che ha saputo raccontare l’alienazione e i sogni dei subalterni dell’industria novecentesca; e si chiude con un glossario di termini dialettali bellunesi, adoperati nella rievocazione di un sistema di vita secolare spazzato via in pochi decenni dal mutare dei paradigmi economici. È in modo particolare Valentino a ricordare le “parole morte” della lingua degli avi (così legati alla terra che i pochi parenti emigrati si son portati come amuleto fino in Sud America il campanaccio di una delle loro vacche) e con esse i riti, i valori oggi trascurati: rendendosi infine conto che non erano tutti da buttar via.

Nonostante il racconto di un episodio in cui gli operai della Filati Dolomiti rischiano di finire come le vittime del tragico incendio alla ThyssenKrupp di Torino, Bortoluzzi non ci consegna un affresco infernale della fabbrica e non condanna tutta la modernità, anzi. Lo testimonia l’incontro salvifico tra Valentino e una giovane cinese che ha lasciato il suo paese per cercare fortuna in Italia, proprio in una zona le cui imprese stanno delocalizzando in Asia. Analogamente, non vi è mai in Bortoluzzi nostalgia per la grande miseria del dopoguerra in Alpago. Tuttavia, la penna dello scrittore operaio registra che dopo la scomparsa di una micro-economia montana fondata sulla solidarietà tra paesani stanno svanendo anche industrie piccole e grandi della pianura e con esse la dignità conquistata dai lavoratori in decenni di lotta. Ed ecco allora che, riscoprendosi soli e indifesi, riemergono le memorie della pesca di frodo, dei furtarelli commessi per rivalsa o per impressionare il branco dei coetanei.

Così, anche “per spezzare la monotonia al neon della fabbrica”, Valentino e Massimo si fanno forza con citazioni da Tex Willer e Salgari, si identificano con Jurij Gagarin o Sacco e Vanzetti, e iniziano ad architettare il colpo che sbancherà il loro destino… sempre che vada tutto bene. Non senza umorismo, Bortoluzzi narra la loro parabola con echi che ci riportano a I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli o a La parte degli angeli (2012) di Ken Loach. Consci intimamente che c’è una distanza tra il dire e il fare, e di come le cose si dovrebbero fare veramente, i protagonisti di Come si fanno le cose cercano solo di “essere insieme, di nuovo, parte di qualcosa”.

claudio.panella@unito.it

C. Panella è dottore di ricerca in letterature comparate presso l’Università di Torino